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La cura e la riqualificazione dei beni comuni urbani. Schemi per una regolamentazione

Un contributo del collega Fabrizio Brambilla Segretario generale Città di Cassano d’Adda e Trezzo sull’Adda.

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Regolamento beni comuni

L’ interesse sempre maggiore nei confronti delle città e delle aree metropolitane, quali nuclei privilegiati in cui operano i processi globali, ha fatto tornare alla ribalta il concetto di “bene comune urbano”, portando alla luce le dinamiche sociali, economiche, giuridiche e politiche che lo contraddistinguono.

In Italia, il tema dei beni comuni è emerso con forza nel dibattito pubblico in occasione del quesito referendario del 2011 sul tema dell’acqua, definita proprio in quella circostanza come “bene comune”.

Il compianto professor Stefano Rodotà ha dedicato numerosi contributi al tema dei beni comuni. Il giurista, in un articolo su “Repubblica” del 5 gennaio 2012 poneva  la luce sulla dimensione collettiva di tali beni, affermando che “tale dimensione scardina la dicotomia pubblico-privato, intorno alla quale si è venuta organizzando nella modernità la dimensione proprietaria. Compare una dimensione diversa, che ci porta al di là dell’ individualismo proprietario e della tradizionale gestione pubblica dei beni […]. Il punto chiave, di conseguenza, non è più quello dell’ “appartenenza” del bene, ma quello della sua gestione, che deve garantire l’ accesso al bene e vedere la partecipazione di soggetti interessati.

I beni comuni sono quindi beni che si possono definire “a titolarità diffusa”, che appartengono, ad un tempo, a tutti e a nessuno: tutti devono poter accedere ad essi ma nessuno può vantare pretese esclusive. Continua Rodotà nel suo articolo: “Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Indisponibili per il mercato, i beni comuni si presentano così come strumento essenziale perché i diritti di cittadinanza, quelli che appartengono a tutti in quanto persone, possano essere effettivamente esercitati. Al tempo stesso, però, la costruzione dei beni comuni come categoria autonoma, distinta dalle storiche visioni della proprietà, esige analisi che partano proprio dal collegamento tra specifici beni e specifici diritti, individuando le modalità secondo cui quel “patrimonio comune” si articola e si differenzia al suo interno.

L’elemento comune di questa tipologia di beni è quindi la particolare relazione che si viene a stabilire tra individuo, comunità di appartenenza e risorsa, nella quale la dimensione individuale va analizzata soprattutto nell’ottica dell’appartenenza comunitaria; questi beni sono infatti interessati da obiettivi collettivi o da vincoli che ne determinano destinazioni d’uso a favore di specifiche comunità.

Come detto, è all’interno dei centri urbani, più che in altri contesti, che si riescono a percepire sia le dinamiche sottese al concetto di bene comune, sia gli effetti che la presa in carico di questi beni da parte di istituzioni o cittadini può generare a favore dell’intera collettività e, in senso più ampio, della rigenerazione dei propri spazi abitati, stabilendo quindi processi di partecipazione politica, integrazione collettiva e rigenerazione del tessuto urbanistico-sociale.

Il bene comune urbano costituisce dunque un nuovo modello di governance.

Tra gli esempi più attuali di beni comuni urbani possiamo menzionare ad esempio tutti gli “spazi rigenerati” grazie alla cura di cittadini attivi e all’amministrazione condivisa; oppure tutti gli spazi cittadini caduti in disuso a seguito delle dinamiche trasformative dell’economia urbana (spazi industriali abbandonati o dismessi) o per la mancata cura e gestione da parte dell’amministrazione locale, soprattutto per l’insufficienza di disponibilità finanziarie.

In un’accezione più ampia, i beni comuni sono anche gli spazi e le infrastrutture che compongono una città (strade, piazze, giardini, parchi, edifici, fabbriche, ecc) nella misura in cui vengono gestiti dalle amministrazioni locali in collaborazione con i cittadini singoli o con gruppi sociali al fine di promuovere un’azione collettiva volta a riqualificare, gestire e godere di un bene destinato all’intera comunità.[1]

Ma non vanno tralasciati anche i beni comuni che si caratterizzano per la loro immaterialità, e che costituiscono forse la categoria più disomogenea, spaziando dalla coesione sociale alla sicurezza, ai servizi municipalizzati, al verde urbano, al concetto di inquinamento, anche acustico, ecc. 

La gestione dei beni comuni urbani richiede tuttavia una particolare attenzione, per evitare alcuni rischi:

  • le dimensioni di scala, ossia le possibili difficoltà di gestione collettiva in caso di risorse non circoscritte
  • gli scompensi distributivi dei singoli beni urbani a sfavore di determinati gruppi
  • consolidamento di alcuni gruppi nella gestione del bene, con conseguente esclusione di altri.

Inoltre non va sottaciuto che il rapporto tra il bene comune, la collettività e l’amministrazione pubblica, attori preposti tutti insieme al recupero del bene comune urbano, fa emergere una paradossale ambiguità nei casi in cui il bene oggetto di cura e rigenerazione sia di proprietà della stessa amministrazione pubblica e si trovi in quella condizione per le carenze (o l’assenza totale) della gestione istituzionale. 

In questi casi, infatti, da un lato emerge l’inerzia nella cura del bene da parte delle istituzioni (condizione, purtroppo, molto frequente), tanto da richiamare l’interesse collettivo per la sua rigenerazione; dall’altro (e qui sta il paradosso) la presenza delle istituzioni stesse risulta indispensabile per accompagnare e sostenere l’azione collettiva della gestione di tale bene.

Il modello di regolamento e la modulistica predisposta costituiscono una proposta per disciplinare l’applicazione del modello di cittadinanza attiva e di amministrazione condivisa dei beni comuni nelle realtà cittadine.

 

 

[1]  seguendo il modello anglosassone di partecipatory urban governance,

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