31/01/2024 - Procedimenti disciplinari: i principi dettati dalla cassazione
Nella disciplina della composizione e del funzionamento degli uffici per i procedimenti disciplinari non è necessario che le amministrazioni applichino in modo formalistico tutte le previsioni regolamentari. L’uso non occasionale ma ripetuto del computer dell’ufficio per esigenze personali può essere sanzionato dalla propria amministrazione anche con il licenziamento. Il rimborso delle spese legali presuppone che siano stati accertati la stretta connessione con lo svolgimento di attività d’ufficio e l’assenza del conflitto di interesse.
Sono queste le indicazioni di maggiore rilievo contenute nelle più recenti sentenze della Corte di Cassazione.
L’UFFICIO PER I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI
Nei procedimenti disciplinari nel pubblico impiego occorre evitare ogni inutile formalismo, a condizione che si rispetti il principio della terzietà dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari. Sono queste le assai importanti indicazioni che caratterizzano la recente sentenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione n. 1016/2024.
Leggiamo in primo luogo che “il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicché lo stesso non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare. Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi che si pongono a confronto.. l’interpretazione dell’art. 55-bis, comma 4, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici”.
Da queste considerazioni scaturisce la conseguenza che “la disposizione di legge, in base alla sua ratio, non richiede la costituzione di un apposito ufficio, che si occupi esclusivamente dei procedimenti disciplinari, né l’individuazione esplicita di una determinata figura quale responsabile dell’ufficio o di altre figure quali componenti di un obbligo necessariamente collegiale”. Ed ancora, è da considerare legittimo che la sanzione sia irrogata “dalla figura di vertice dell’ufficio individuato come UPD, il che rappresenta la più ragionevole attuazione della previsione generica contenuta nell’atto di individuazione e la migliore garanzia di difesa per l’incolpato”. Inoltre, “la necessaria terzietà dell’UPD non può essere intesa in senso talmente rigoroso da considerare un vizio – e tanto meno un vizio a pena di nullità della sanzione – il fatto che l’atto di incolpazione sia stato emesso da un dirigente di grado superiore in funzione di sostituzione gerarchica. Si tratta comunque di un soggetto non appartenente alla struttura nella quale opera il ricorrente, sicché, a prescindere da qualsiasi valutazione sulla legittimità della sostituzione, non vi è motivo di pensare – né il ricorrente ha in qualche modo allegato – che il suo intervento abbia impedito all’incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa”. Infine, non vi è alcuna previsione che obblighi le amministrazioni ad una composizione collegiale dell’ufficio stesso.
L’INTESO USO DEL COMPUTER D’UFFICIO PER MOTIVI PERSONALI
Il dipendente che utilizza in modo intenso il computer d’ufficio per finalità personali può essere destinatario del provvedimento e commette il reato di peculato d’uso. In questa direzione vanno i principi dettati dalla sentenza della sesta sezione penale della Corte di Cassazione n. 40702/2023. Occorre considerare, in primo luogo, che dagli “elementi di prova -desumibili essenzialmente dai risultati di una consulenza tecnica informatica di parte e della perizia informatica disposta dall’ufficio – idonei a dimostrare come l’imputato avesse utilizzato, in forma tutt’altro che modesta, episodica, occasionale o temporanea, ma in maniera sistematica, continuativa e prolungata ii computer dell’ufficio per fini personali e privatistici”.
Ed ancora, “costituisce espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio in base al quale nel peculato d’uso non è configurabile ii reato solo laddove l’uso episodico ed occasionale di un bene di servizio non abbia Ieso la funzionalità della pubblica amministrazione e non abbia causate un danno patrimoniale apprezzabile”.
Inoltre, “pur ammettendo di non poter escludere che la navigazione in internet da parte dell’imputato fosse avvenuta sulla base di un abbonamento con tariffa flat, dunque senza alcun reale aggravio di spesa per l’amministrazione, i Giudici di secondo grado hanno negato in maniera ancora una volta apodittica che la condotta dell’imputato avesse arrecato un danno alla funzionalità dell’ufficio, dato che il predetto non aveva mai ricevuto alcuna lettera di richiamo”, dimenticando che per questa ragione l’ente ha dato corso alla irrogazione della sanzione del licenziamento.
IL RIMBORSO DELLE SPESE LEGALI
Il rimborso delle spese legali ai dipendenti dell’ente è legittimo solo se vi è una stretta connessione con le attività d’ufficio e se non sussistono le condizioni per la maturazione del conflitto di interessi. Sono queste le indicazioni dettate dalla sentenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione n. 22815/2023.
Essa, nell’annullare il pronunciamento del giudice di appello, detta il seguente principio di diritto: occorre “accertare, prima di affermare il diritto al rimborso, la connessione dei fatti con i doveri d’ufficio e l’assenza del conflitto di interessi con l’amministrazione resistente”.
La pronuncia si riferisce ad una fattispecie avvenuta in Sicilia, regione a statuto speciale in cui si applica una normativa specifica, che è comunque analoga a quella nazionale: “la disciplina dettata dal legislatore regionale ha richiesto quale elemento costitutivo del diritto al rimborso, oltre all’accertamento dell’assenza di responsabilità, la connessione con l’espletamento del servizio e dei compiti d’ufficio”. Di conseguenza, i principi dettati dalla sentenza si possono estendere a tutti i dipendenti pubblici.
Viene inoltre aggiunto che “da tempo la Corte, nell’interpretare disposizioni analoghe, legali e contrattuali, ha evidenziato che detta connessione presuppone l’esistenza del nesso causale fra la funzione esercitata ed il fatto contestato e va, di conseguenza, esclusa nell’ipotesi in cui la prima sia stata solo occasione per la commissione del fatto stesso”. Questo orientamento interpretativo “è stato fatto proprio anche dalla Corte Costituzionale in quanto diritto vivente”. Inoltre, “la connessione dei fatti e degli atti con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e fatti devono essere riconducibili all’attività funzionale del soggetto che pretende il rimborso, in un rapporto di stretta dipendenza con l’adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all’esercizio diligente della pubblica funzione”.
Leggiamo infine che “la ratio del diritto al rimborso delle spese legali, infatti, va ravvisata nella finalità di imputare al titolare dell’interesse sostanziale le conseguenze dell’operato di chi abbia agito per suo conto e, pertanto, non è sufficiente che il dipendente sia stato chiamato a rispondere di un reato proprio del pubblico ufficiale, dal quale sia stato poi assolto, essendo, invece, necessario anche che la condotta sia stata tenuta in adempimento di un dovere d’ufficio e, quindi, nell’interesse dell’amministrazione di appartenenza. Corollario del principio è che la necessaria connessione con l’espletamento del servizio va esclusa qualora la condotta di reato ascritta all’imputato configuri una fattispecie ontologicamente in conflitto con i doveri d’ufficio, perchè in tal caso viene meno la strumentalità fra il fatto e l’attività lavorativa, che costituisce solo una mera occasione per il compimento dell’illecito”.