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21/09/2023 - Progressioni verticali: i rischi di formalismi tali da renderle poco più di un ulteriore differenziale stipendiale

Dal sito leautonomie.asmel.eu un articolo di Luigi Oliveri

Pubblicato qui 
La sentenza del Tar Campania, Sezione II, 22.8.2023, n. 4827, appare rilevante non tanto per la questione oggetto del ricorso, quanto, piuttosto, per la regolamentazione delle progressioni verticali. 

La vicenda trattata rivela un problema che era facile aspettarsi si proponesse: la corretta applicazione dell’articolo 52, comma 1-bis, del d.lgs 165/2001, nella parte in cui detta gli elementi da valutare ai fini delle progressioni e, cioè: 

  1. valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio; 
  1. assenza di provvedimenti disciplinari; 
  1. possesso di  
  1. titoli o competenze professionali 
  1. ovvero di studio 

ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno; 

  1. numero e tipologia degli incarichi rivestiti. 

I primi 3 criteri di valutazione appaiono più oggettivabili e comprensibili, al netto di alcuni problemi applicativi irrisolti. 

Per esempio, il concetto di valutazione “positiva”: cosa si intende? Gli enti dovrebbero, nei loro sistemi di valutazione, fissare un elemento di misura del grado della valutazione, posto a distinguere quella “positiva” da quella che non lo è. Basta, a tale scopo, la demarcazione tra valutazione “sufficiente” e quella insufficiente? Diremmo di no: si tratta di procedure finalizzate al passaggio da un’area inferiore ad una superiore. In linea tendenziale, sarebbe da consentire tale passaggio a personale interno che abbia dimostrato un particolare spicco nello svolgimento delle proprie funzione ed una potenzialità concreta a salire in carriera: la mera sufficienza non dovrebbe essere considerata utile per un simile passaggio. 

In quanto all’assenza di provvedimenti disciplinari, a ben vedere non si tratta di un criterio, bensì di un requisito. Non si capisce come si possa valorizzare, attribuendo un punteggio, una condizione soggettiva da considerare non certo un fattore premiante o distintivo. Semmai, l’assenza di provvedimenti disciplinari può dare un punteggio pari a zero e l’eventuale presenza di provvedimenti, a seconda della gravità, può comportare la sottrazione di punteggi, fino a giungere all’inammissibilità alla procedura per sanzioni particolarmente gravi, cioè nella sostanza tutte quelle pari o superiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per 10 giorni. 

In quanto ai titoli o le competenze professionali, è qui che potrebbe e dovrebbe risultare utile un sistema come il framework delle competenze trasversali recentemente adottato dalla Funzione Pubblica. 

Infatti, in una procedura come quella delle progressioni verticali, di natura non concorsuale, ma comparativa, il punto di maggior interesse dovrebbe consistere proprio nella valutazione del potenziale dei dipendenti. 

Le progressioni verticali sono alternative al concorso pubblico; facendo ricorso all’articolo 52, comma 1-bis, del d.lgs 165/2001, la PA si avvale di un’eccezione legislativamente posta al principio dell’accesso alla PA mediante concorso pubblico, enunciato dall’articolo 97 della Costituzione. Si tratta, quindi, di un istituto di particolare delicatezza e da maneggiare con estrema cura e prudenza. Il semplice fatto della presenza di una legge che disciplini le progressioni verticali non le rendono un istituto ordinario: esso resta condizionato alla conclamata presenza negli organici di personale di particolare spicco, che abbia dimostrato competenze di rilievo, tali da poter dimostrare che la PA non ha bisogno di ricorrere al “mercato” aperto da compulsare con i concorsi, perché al proprio interno ha dipendenti meritevoli. 

Poiché la procedura è “comparativa”, essa non si basa su “prove” concorsuali ed è del tutto erroneo introdurre elementi che la legge non considera, come “colloqui”, la cui utilità sfugge del tutto. 

Ai fini di una promozione, occorre una valutazione profonda delle competenze, sia in via preventiva, sia in via operativa. 

In via preventiva, un sistema permanente di valutazione come quello proposto dal framework (ma, in generale, come quello che da anni dovrebbe essere adottato dalle PA), dovrebbe permettere punti di osservazione rilevanti, intanto per rilevare che tra i dipendenti vi sono quelli che dimostrino capacità idonee ad un inquadramento superiore. 

Le competenze a cui guardare non sono solo quelle “certificate” dai titoli di studio, comunque necessarie. Non si dimentichi che la norma richiede la valorizzazione di titoli di studio “ulteriori” a quelli richiesti per l’accesso dall’esterno. Perché questo? Per una ragione semplicissima già rilevata sopra: la progressione verticale è alternativa al concorso e, quindi, pregiudica il sistema di accesso agli impieghi aperto e selettivo previsto dalla Costituzione. Pare, allora, corretto compensare la chiusura al “mercato” con la restrizione delle progressioni a dipendenti che possiedano intanto titoli non solo adeguati alla nuova area di inquadramento (elemento necessario per l’ammissione), ma anche ulteriori e superiori, proprio a dimostrazione di un potenziale adeguato al nuovo lavoro da svolgere. 

Ma, oltre al titolo superiore, e probabilmente anche in alternativa al titolo ulteriore, sono di fondamentale importanza anche le competenze professionali, pure esse da considerare come “ulteriori” rispetto a quelle necessarie per l’accesso tramite concorso. 

Insomma, per una corretta procedura comparativa, non dovrebbe bastare la constatazione che il dipendente, poniamo dell’area Istruttori, abbia dimostrato di saper svolgere con competenza le funzioni proprie della qualifica. Le competenze da ricercare sono quelle “ulteriori”, che dimostrino già che la promozione non sia un salto nel buio. 

Ovviamente, poiché le competenze dimostrabili non possono facilmente essere quelle verticali proprie già della nuova area, risultano decisive quelle “trasversali” che si possono considerare proprie dell’area superiore. Il framework consente di verificare se il dipendente le possieda e in quale misura e potrebbe costituire un valido elemento di selezione per l’accesso alla procedura stessa, laddove l’ente prevedesse che la progressione verticale può essere concessa intanto solo a quei dipendenti che il sistema dimostri possedere almeno un grado minimo necessario di competenze trasversali. 

E veniamo al punto dolente, il quarto elemento valutativo, quello degli “incarichi”. La lettura della sentenza in commento ci racconta di un archetipo: una PA non pienamente capace di comprendere e valorizzare il concetto di “incarico”. 

Il Tar non entra nel merito, ma è del tutto singolare che la normativa adottata preveda un elemento totalmente accidentale come la “liquidazione” del compenso connesso all’incarico, quale presupposto per la sua valutazione: si tratta di un approccio totalmente formalistico, di per sé lontano mille miglia dalla valutazione richiesta dalla norma, che dovrebbe prendere di mira la tipologia dell’incarico, il suo rilievo e soprattutto l’efficacia nel gestirlo. 

La sentenza narra di un regolamento che punta su “incarichi svolti con valenza esterna per conto dell’amministrazione (es. partecipazione a commissioni di gara o di concorso, attività di comunicazione istituzionale)”. L’esemplificazione anche in questo caso è meramente formalistica: ai fini dell’accesso definitivo ad un inquadramento superiore, quanto può contare la partecipazione ad un concorso come commissario? E quanto l’attività di comunicazione istituzionale? Si tratta di elementi che con il saper fare, il saper svolgere una funzione superiore non hanno nulla a che vedere. 

Meno ancora, altri elementi formali previsti dal regolamento di quell’ente, come le “responsabilità del procedimento/specifiche responsabilità attribuite e liquidate negli ultimi 3 anni”: si tratta, infatti, di incarichi e connesse retribuzioni strettamente riferiti alle mansioni proprie dell’inquadramento posseduto, per nulla rivelatrici di una potenzialità utile ad una promozione. 

Al lavoro pubblico non è applicabile l’articolo 2103 del codice civile e, quindi, manca uno strumento decisivo, nel privato, per mettere alla prova il dipendente: l’attribuzione di mansioni superiori. Un istituto, questo, che fornisce estrema flessibilità organizzativa ma, soprattutto, un punto di vista maggiormente certo ed oggettivo sulle capacità non solo potenziali, ma anche espresse, del lavoratore ad assurgere definitivamente alla superiore qualificazione. 

Tuttavia, ristrette ipotesi di incarichi di mansioni superiori sono possibili. Non solo: l’organizzazione prevede, troppo spesso in modo informale, incarichi come un vicariato di fatto, oppure l’essere riferimento dei colleghi per l’approfondimento consulenziale di specifiche questioni, un approccio multidisciplinare inteso come adattamento a mobilità interne e supporto agli uffici. 

La responsabilità di un procedimento di per sé non è qualificante ai fini della progressione verticale, visto che è un elemento tipico del mansionario. Può divenire un elemento da considerare solo laddove si equivochi la progressione verticale, scambiandola non per uno strumento di valorizzazione di reali e dimostrate potenzialità, bensì per una sorta di premio alla carriera, fortemente influenzato dall’anzianità, che finisce per essere semplicemente un aumento di stipendio, senza attivare il sinallagma, consistente nell’assunzione di effettive nuove e maggiori funzioni lavorative. Ma, per incentivare la carriera e le competenze proprie dell’inquadramento posseduto, esiste un istituto specifico: la progressione orizzontale, che dà titolo ai differenziali stipendiali. Ridurre le progressioni di carriera ad un succedaneo delle progressioni orizzontali è il metodo migliore per lasciare la PA incagliata nell’assenza della capacità di valorizzare davvero le competenze. 

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