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25/10/2023 - L’integrazione postuma della motivazione

tratto da luigifadda.it

L’integrazione postuma della motivazione

 

Indice

Quando è ammissibile la motivazione postuma

Le sezioni unite della Corte di Cassazione, con ordinanza 25665/2023, hanno aderito all’orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo cui nel processo amministrativo l’integrazione in sede giudiziale della motivazione è ammissibile soltanto se effettuata mediante gli atti del procedimento – nella misura in cui i documenti dell’istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni della determinazione assunta – oppure attraverso l’emanazione di un autonomo provvedimento di convalida, restando, invece, inammissibile, un’integrazione postuma effettuata in sede di giudizio, mediante atti processuali, o comunque scritti difensivi.

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La possibilità di una tale integrazione è stata, in verità, sempre esclusa dalla giurisprudenza amministrativa prevalente poiché “senza una motivazione anteriore al giudizio, verrebbero frustrati gli apporti (oppositivi o collaborativi) del partecipante al procedimento, essendo la motivazione della decisione strettamente legata alle «risultanze dell’istruttoria», non si potrebbe consentire all’amministrazione di modificare unilateralmente l’oggetto del giudizio rappresentato dall’atto originariamente adottato (e) si imporrebbe al privato di attivare la tutela giurisdizionale praticamente “al buio”, potendo questi conoscere le ragioni alla base della decisione soltanto nel corso del processo”.

Il difetto di motivazione non è mero vizio di forma

Anche a seguito dell’introduzione da parte del legislatore – al fine di alleggerire il peso dei vincoli formali e procedimentali di una pubblica amministrazione che si sarebbe voluta informata ad una logica di “risultato” più che alla legalità “formale” dei singoli atti – della regola della non applicabilità della misura caducatoria in presenza di difformità dallo schema legale che non abbiano influenzato la composizione degli interessi prefigurata nel dispositivo della decisione (art. 21-octies, comma 2, primo periodo, L. 7 agosto 1990, n. 241, inserito dall’articolo 14, comma 1, della legge 11 febbraio 2005, n. 15), le pronunce che hanno ritenuto di fare applicazione della predetta clausola di non annullabilità, considerando il difetto di motivazione come vizio di carattere meramente formale reso irrilevante dall’accertamento che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sono rimaste sporadiche e isolate, in quanto l’indirizzo maggioritario della giurisprudenza amministrativa si è ben presto orientato nel senso che il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, (costituisce) un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti” (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. III, 7 aprile 2014, n. 1629; Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4770; Cons. Stato, sez. III 30 aprile 2014, n. 2247; Cons. Stato, sez. V, 27 marzo 2013, n. 1808).  

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Motivazione postuma: la posizione della Corte di Giustizia

Per l’inammissibilità della motivazione postuma – sia attraverso gli scritti difensivi che attraverso la regola del raggiungimento dello scopo – in quanto in contrasto anche con le regole del giusto procedimento amministrativo come delineato dal diritto euro-unitario (in particolare, l’art. 296 TFUE, che richiede la motivazione per tutti gli atti delle istituzioni comunitarie, inclusi quelli normativi, e il diritto a una buona amministrazione di cui all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ) appare orientata anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che qualifica la motivazione come “forma sostanziale” e motivo d’ordine pubblico da sollevarsi d’ufficio (ex plurimis, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. VII, 11 aprile 2013, n. 652, C-652/11).

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Motivazione postuma inammissibile anche in ipotesi di attività vincolata

La motivazione costituisce, infatti, il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti (Cons. Stato, sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 5984).

In particolare, “la motivazione del provvedimento amministrativo rappresenta il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della l. 241/1990) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della l. 241/1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti (si veda Cons. Stato, sez. III, 7 aprile 2014, n. 1629), non potendo perciò il suo difetto o la sua inadeguatezza essere in alcun modo assimilati alla mera violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma.

La motivazione del provvedimento costituisce infatti “l’essenza e il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata” (Cons. Stato, sez. III, 30 aprile 2014, n. 2247), e non può certo essere emendata o integrata, quasi fosse una formula vuota o una pagina bianca, da una successiva motivazione postuma, prospettata ad hoc dall’Amministrazione resistente nel corso del giudizio (Cons. Stato, sez. V, 10 settembre 2018, n. 5291).

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Motivazione postuma: il rischio di ultrapetizione

Il giudice, infatti, qualora escluda l’illegittimità del provvedimento impugnato sulla base di rationes decidendi che non trovano fondamento nell’impianto motivazionale dell’atto amministrativo, incorre nel vizio di ultrapetizione, oltre che nella violazione del principio di separazione dei poteri ex art. 34, comma 2, c.p.a.

Sotto il primo profilo, il principio della domanda di cui agli artt. 99 c.p.c. e 2907 c.c. – espressione del potere dispositivo delle parti, completamento del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato in base alla regula juris di cui all’art. 112 c.p.c. e pacificamente applicabile anche al processo amministrativo – comporta che sussiste il vizio di ultrapetizione, quando l’accertamento compiuto in sentenza finisce per riguardare un petitum ed una causa petendi nuovi e diversi rispetto a quelli fatti valere nel ricorso e sottoposti dalle parti all’esame del giudice, con conseguente negazione del bene o dell’utilità richiesti dalla parte ricorrente per ragioni dalla stessa non esternate.

La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato emerge, altresì, qualora, ammettendo una integrazione postuma della motivazione sottesa al provvedimento, il giudice statuisca su una fattispecie oggettivamente diversa da quella prospettata nel provvedimento gravato, con evidente lesione dei diritti di difesa della controparte (Cons. Stato, sez. VI, 2 gennaio 2020, n. 28).

Sotto il secondo profilo, attinente alla violazione del principio di separazione dei poteri, il giudice, qualora abbia formulato argomentazioni a sostegno del provvedimento impugnato che ne alterano l’impianto motivazionale, emette una pronuncia su poteri non ancora esercitati, in violazione del disposto di cui all’art. 34, comma 2, c.p.a., venendo esaminata la legittimità di nuove questioni a sostegno della decisione censurata, non previamente decise dal competente organo amministrativo.

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