20/10/2022 - Riforma della PA: quei consigli che si spera il Governo per una volta decida di non seguire
Sui giornali del 18.10.2022 spiccano le consuete esortazioni rivolte al Governo che sta per nascere, finalizzate ad una riforma complessiva della pubblica amministrazione.
E’ del tutto normale che esperti esprimano su giornali e riviste il proprio punto di vista relativamente alle modifiche normative e di assetto organizzativo della pubblica amministrazione, certamente necessarie.
Il fatto è che la fonte di provenienza ed i contenuti di merito sono sostanzialmente sempre gli stessi da circa 30 anni: esattamente quell’arco di tempo nel quale, nonostante la narrazione sia che “non siano state fatte le riforme attese da decenni”, invece di riforme, in particolare della PA e di diversi altri ambiti della regolazione pubblica, ne sono state approvate un diluvio e tutte sono sempre state dipinte come “epocali”. Solo per citarne alcune: la riforma del lavoro pubblico nonché della definizione di obiettivi e risultati, palcoscenico di una serie impressionante di interventi, tra i quali ricordiamo solo il d.lgs 29/1993, la legge 127/1997, il d.lgs 80/1998, il d.lgs 145/2002, il d.lgs 150/2009, il d.l. 101/2013, il d.l. 90/2014, il d.lgs 75/2017, la legge 56/2019, il d.l. 80/2021, il d.l. 36/2022. Gli appalti sono stati oggetto di interventi continui, caratterizzati, per altro, da errori talora di trascrizione che hanno costretto anche a repentine correzioni in Gazzetta Ufficiale. Le attività produttive oggetto di inarrestabili movimenti tellurici oscillanti continuamente tra espansione di strumenti di formazione implicita di atti autorizzatori (Dia, Scia, Cila) e gemmazione inarrestabile di strumenti, come la conferenza di servizi, pensati per semplificare ma a loro volta divenuti un caos gestionale e tipologico (ne esistono ben 7 tipologie). Per non parlare di riforme continue della scuola, degli ammortizzatori sociali, del lavoro, dell’università e moltissimo altro.
I risultati di questi 30 anni? Li ha mostrati la pandemia e, adesso, li evidenziano, da un lato, le difficoltà – prevedibili – di attuazione del Pnrr e, dall’altro, la poca capacità di affrontare gli enormi problemi posti dal caro materiali ed energia: basti pensare che all’inizio del 2022 ci si è resi conto dell’assenza pressochè totale, nella disciplina degli appalti, di una normativa che consentisse l’adeguamento dei prezzi, alla quale si è posto rimedio con ulteriori, convulse, frettolose e parziali ulteriori norme caotiche, per altro riferite solo agli appalti successivi al gennaio 2022 ma inefficaci per quelli antecedenti.
Nel mezzo, anche tre tentativi di riforme costituzionali sconclusionate, uno, quello della Bicamerale del 1997, andato in porto solo parzialmente e sfociato nell’esiziale legge costituzionale 3/2001 (la riforma del Titolo V della Costituzione), due arenatesi coi referendum, ma, l’ultima di esse, anticipata da un intervento semplicemente devastante sugli enti locali, la riforma Delrio delle province, che per quasi tre anni, per altro, ha girato il coltello nella piaga dei blocchi delle assunzioni nelle PA, in questo supportata dall’altrettanto dannosa legge 190/2014.
E, ancora, è della seconda metà di questo trentennio tutt’altro che fruttuoso il fiorire, oltre che della retorica degli enti da abolire, come appunto le province, quello dei dipendenti pubblici fannulloni e panzoni, anch’esso alla base di ben precise scelte causa della deperimento degli organici della PA, della perdita di competenze e capacità (nel 2009 scattò una tagliola formidabile alle spese di formazione e aggiornamento, dalla quale ancora non si è usciti), dell’invecchiamento, dell’obsolescenza delle figure professionali, che, adesso, col Pnrr in corso, si comprende quanto drammaticamente incidano sull’attuazione di progetti ed attività pur necessari per il rilancio delle forze del Paese, per il quale il supporto di strutture pubbliche efficienti è essenziale.
In questo quadro, non possono che destare enormi perplessità le suggestioni proposte da un lato da Giovanni Valotti nell’articolo pubblicato sul Corriere della Sera “Uno stato di emergenza per realizzare il Pnrr” e, dall’altro, da Fabrizio Barca e Carlo Mochi Sismondi, nell’articolo pubblicato su La Stampa “Puntare sui servizi, basta bonus a pioggia. Serve una svolta contro le disuguaglianze”.
Suggestioni ovviamente interessanti, ma caratterizzate esattamente in gran parte, salvo qualche opportuna “revisione” connessa all’osservazione di flop epocali, dalle linee direttrici proprie del trentennio di riforme a vuoto al quale abbiamo assistito.
Come non condividere l’attenzione che Barca e Sismondi chiedono si ponga al coinvolgimento della cittadinanza nell’elaborazione delle decisioni, anche mediante l’ampliamento della trasparenza sui risultati? Come non essere d’accordo sull’affermazione della necessità che la digitalizzazione abbia l’obiettivo della qualità dei servizi e dell’uguaglianza dei cittadini nell’accesso ai servizi medesimi, ma soprattutto la digitalizzazione sia utile non per svolgere con strumenti informatici le medesime attività (cosa che accade prevalentemente adesso), ma per “portare le amministrazion nella dimensione digitale usandola per ripensare processi e relazioni tra amministrazioni e tra queste e le persone”.
Non si può fare a meno, però, di ricordare che il Barca è anche stato Ministro, mentre il Sismondi da anni dirige un “think tank” che collabora attivamente coi governi. C’è stato tempo e modo per rendere queste idee oggetto di norme o, quanto meno, farle assurgere a metodo. Così evidentemente non è stato.
Altrettanto condivisibile è, poi, la critica esplicita alla rovinosa riforma Delrio: “La geografia istituzionale delle amministrazioni, accantonando ogni idea iniqua di regionalismo differenziato, deve ripartire dal panorama opaco lasciato dalla legge 56/2014 […] va risolta la mortificante incertezza che tocca oggi le province e la governance di area vasta. Le unioni di comuni, le funzioni associate hanno partorito, salvo eccezioni, topolini”.
Queste affermazioni sono musica per chi sostiene esattamente queste tesi sin dall’avvio dei tentativi di riforma delle province, da subito caratterizzati da sciagurati elementi fallimentari ben visibili. Fa sensazione vedere che a distanza di anni un esperto come il Barca evidenzi il disastro della riforma Delrio e smascheri il fallimento evidente delle unioni di comuni, che altro non sono se non unioni di debolezze, pur avendo a suo tempro dichiarato esplicitamente che al referendum per la riforma della Costituzione, avente l’esplicito scopo, tra gli altri, di completare il disastro Delrio con l’abolizione delle province, avrebbe votato sì.
Ottimi i ripensamenti: ma essi null’altro sono se non l’indiretta ammissione che il sostegno comunque dato, anche in ruoli elevatissimi, alle riforme precedenti, è concausa della situazione attuale, che richiede ulteriori riforme, per porre rimedio a ritardi, come quello della digitalizzazione, o disastri, come quello delle province.
La provenienza delle suggestioni da chi, negli anni precedenti, non ha avuto la capacità di orientare la PA verso l’efficienza, per quanto possa essere sgradevole, non può non destare un preciso allarme: le suggestioni sono proposte da chi si accorge troppo tardi degli effetti delle norme, non si avvale di strumenti di valutazione ex ante e, dunque, può essere portato alla coazione a ripetere errori di valutazione.
Come quelli che Barca e Mochi Sismondi propongono nell’ultima parte dell’articolo, dedicata più specificamente alla PA e al reclutamento dei dipendenti pubblici. Gli autori partono dalla constatazione che molti concorsi abbiano avuto, in questi mesi, scarso successo, non tanto per le presunte basse retribuzioni, ma a causa della poca chiarezza del fabbisogno espresso dalla PA e dei metodi selettivi adottati.
Gli Autori suggeriscono di inserire nei bandi, quindi, “la sfida insita nei posti offerti, il potere che assunte e assunti avranno”; e di gestire i concorsi alla luce di una comunicazione chiara delle funzioni, usando “con attenzione titoli e test multi-risposta, considerare centrali la qualità delle prove usando le nuove tecnologie per verificare le attitudini e le capacità di risolvere problemi, fronteggiare imprevisti, dialogare con la cittadinanza”.
Non sembrano, però, essersi avveduti, gli Autori, che il flop recentissimi di molte procedure di reclutamento, in particolare il “concorsone” per il Sud e gli ingaggi all’Inl e alla motorizzazione sono a valle di procedure concorsuali frutto delle riforme frettolose del 2020 e soprattutto 2021, con abbondanza estrema di valorizzazione di test, titoli, esperienze e riduzione all’osso di prove di approfondimento (vi sono stati concorsi senza nemmeno uno straccio di prova scritta).
Appare del tutto contraddittorio predicare la selezione per attitudini e capacità di fronteggiare imprevisti (generalizzare questa qualità, propria solo di alcune figure come i dirigenti ed i progettisti, non aiuta nelle selezioni, in un sistema, quello dell’attività della PA fondato sul “prevedere” allo scopo di garantire chiarezza, parità di trattamento ed imparzialità), ma pensare di rendere attrattivo il reclutamento evidenziando il “potere” da esercitare. Se c’è una cosa da scongiurare è qualificare l’azione della PA come esercizio di potere. Per altro, uno degli elementi che certo non favoriscono l’attrattività del lavoro pubblico, per molti ruoli, è esattamente il contraltare del potere: le responsabilità estesissime, che abbracciano, oltre a quelle di risultato, penali e civili proprie di ogni lavoro, anche quelle amministrative, erariali, contabili e quelle connesse alle complicatissime relazioni, negli enti in cui siano presenti figure elettive alla guida, con una politica sempre intesa ad ingerirsi nella minuta gestione, invece di attendere, come dovrebbe, alla programmazione generale ed alla verifica dei risultati.
Il Barca e il Mochi Sismondi non mancano di affermare che occorre “curare l’accoglienza dei neoassunti coinvolgendo gli <<anziani>> più motivati”. Ma, invece di evocare suggestioni di reclutamenti per assessment fondati sull’analisi delle soft skills e delle attitudini, sì da rendere questi elementi (di per sé utili, se usati cum grano salis) fino quasi a poter divenire preponderanti sulla valutazione finale (come emerge dalla proposta di linee guida sul reclutamento dei dirigenti pubblici), non si prima e meglio a valorizzare strumenti molto più efficienti di osservazione delle capacità concrete di chi supera i concorsi, così da ridurre il rischio che passi chi “sa” ma non “sa fare”? Non è molto più utile che l’accoglienza e la formazione, altro tema trattato dagli Autori, siano assicurati con contratti che uniscano lavoro e, appunto, formazione, con anche selezione, come i contratti di formazione e lavoro e, soprattutto, l’apprendistato, incredibilmente ancora al palo nonostante sia palesemente lo strumento principe per coniugare tutti gli elementi indicati sopra?
In quanto alla dirigenza pubblica, Barca e Mochi Sismondi da un lato chiedono sia rispettata l’indipendenza “al solo servizio della Nazione” (cosa che risulta meno semplice con meccanismi selettivi troppo spostati su variabili come le soft skills oggettivamente manovrabili); dall’altro, affermano la necessità di “sottolineare la necessaria dimensione di rischio e discrezionalità proprio di ogni manager e la dipendenza da risultati trasparenti e condivisi”.
Frase molto bella, se non fosse necessario intendersi sul concetto di “rischio”. Di che si sta parlando? Di un rischio “di impresa”, come quello che affronta il manager privato?
Proprio non si riesce ad uscire da 30 anni di figurazione erronea della PA “come un’azienda”. Le ragioni per la quale la PA non è e non può essere come un’azienda sono moltissime e tra esse ne spicca una: essa deve utilizzare le risorse per conseguire fini pubblici, utili a tutti, sicché non si tratta di investire capitali in un rischio remunerato, poi, con dividendi, ma di destinare e spendere le risorse per i fini pubblici considerati prioritari.
Sotto questo aspetto, l’azione della PA non può e non deve essere soggetta ad alcun “rischio”, perché non è possibile mettere a repentaglio un corretto utilizzo di risorse dei cittadini.
Questo non significa scadere nell’amministrazione “difensiva”, che rifugge dall’assunzione della responsabilità e anche dei rischi connessi.
Ma, occorre non avere alcun equivoco anche su un altro aspetto del rischio: non si può affermare l’idea che la dirigenza debba, per sua natura, accollarsi il rischio di adottare provvedimenti o attuare indirizzi che, più che un rischio, comportino la certezza della violazione delle leggi, del danno erariale e della commissione di reati.
Non si vorrebbe che si giri ancora intorno all’esiziale idea della dirigenza come scudo e parafulmine della politica, avanzata con la, per fortuna mai andata in porto, riforma Madia, nella quale spiccavano norme che se fossero entrate in vigore avrebbero segnato in modo deleterio la PA. Si era previsto, infatti, che i dirigenti sarebbero stati “titolari, in relazione a tale attività gestionale, in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile” e che fossero anche “titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale, ancorché derivante da atti di indirizzo dell’organo di vertice politico”.
Cos’è, dunque, il “rischio”? L’elemento insito all’assunzione delle responsabilità connesse al ruolo e alle decisioni da assumere, o la funzione di parafulmine? Basta intendersi.
E se per riformare la PA si decidesse di abbandonare il diluvio di riforme, fin qui poco produttivo e si decidesse di instaurare un regime speciale a tempo determinato? E’ la suggestione del Valotti: “è allora il tempo di dichiarare lo «stato di emergenza» della pubblica amministrazione. Parlamento e governo dovrebbero avere il coraggio e la determinazione di disegnare una sorta di «zona franca temporale» della burocrazia. Per un tempo definito, ipotizziamo due anni, si semplifichino drammaticamente le procedure di spesa, si dimezzino i tempi necessari per autorizzare nuovi investimenti, si accettino minori formalismi negli appalti e negli acquisti pubblici, si riveda la disciplina del danno erariale per porre chi opera negli enti nelle condizioni di fare concretamente piuttosto che di difendersi dalle responsabilità, si prevedano figure dotate dell’autonomia necessaria per decidere senza esasperanti mediazioni dentro la propria amministrazione e con altre amministrazioni, si introducano poteri di avocazione delle decisioni in caso di inerzia, si premino finalmente i risultati e non il semplice rispetto delle norme, si metta in atto una trasparenza vera sull’uso delle risorse. Insomma, per una volta, prevalga la sostanza sulla forma”.
Intanto, occorrerebbe prima anche qui intendersi. Si parla di “burocrazia”, dando ad intendere che lentezze, garbugli operativi, procedure complicate, pareri, rinvii e ripensamenti, siano il frutto appunto di dirigenti e dipendenti intenti a salvaguardarsi dal “rischio” e dalla responsabilità, con atti di iper controllo e finalizzati all’autodifesa. Infatti, il Valotti parte dalla considerazione secondo la quale in Italia molte lentezze sarebbero causate dalla circostanza che il sistema amministrativo “si fonda sulla disciplina dei controlli ex ante, generando di conseguenza procedure complicatissime e processi decisionali interminabili. Per contro il nostro settore pubblico ha una tradizionale debolezza nei controlli ex post, ovvero nella capacità di valutare se i soldi pubblici sono stati spesi bene, rispettando le norme e producendo i risultati attesi”.
Un’affermazione poco rispondente alla realtà dei fatti, posto che sempre in questo trentennio circa, e in particolare dal 1997 in poi, è accaduto esattamente l’opposto: sono stati cancellati quasi del tutto i controlli preventivi; al contempo, i controlli “ex post”, sebbene enunciati come “collaborativi” e “non formali” hanno portato alla pervasività di pareri, linee guida, griglie di dati da compilare e miriadi di meri adempimenti, che hanno ingolfato l’attività, lasciando poi gli interventi di controllo ex post prevalentemente al formalismo delle aule giudiziarie.
Ma, il diluvio adempimentale, le procedure cervellotiche e paradossali degli appalti o della spesa pubblica, non sono frutto della “burocrazia” intesa come apparato che applica a propria difesa regole. Lentezze, bizantinismi, oneri adempimentali, intreccio di regole, sono frutto esattamente del Legislatore, autore praticamente esclusivo del caos, come in particolare la disciplina degli appalti e tributaria confermano platealmente. L’assenza di controlli preventivi di legittimità è di per sé un problema: non fossero stati praticamente cancellati, non si sarebbero persi milioni negli avventurismi dei derivati da parte di molte amministrazioni, specie locali, e si sarebbero potute evitare storture applicative, per stare a tempi più recenti, di norme come quella sul reddito di cittadinanza o i bonus facciate.
Lo “stato di emergenza” è una scorciatoia facile. E’, in fondo, l’idea dell’estensione a tutto il ramo dell’amministrazione del “metodo Genova”: un commissario straordinario, la sospensione dell’applicazione del codice dei contratti e persino del codice penale, un progetto regalato, una gara alla quale si è fatto in modo partecipasse un solo concorrente, procedure di spesa svolte senza le follie dell’ordinamento contabile.
Non è affatto un’idea nuova: quella del “tiranno” nell’antica Grecia o del “dictator” nella Roma repubblicana era nella sostanza la stessa.
Uno stato di emergenza, ma la consapevolezza stessa che forse occorrerebbe uno stato di emergenza, è contemporaneamente la conferma vera che gli ultimi 30 anni di riforme sono stati talmente improduttivi da portare a chiedere una sospensione vasta e diffusa proprio di quelle regole e norme, il cui insieme rende praticamente impossibile il compimento del Pnrr; dall’altro, è la rassegnazione ad un sistema che non riesce a cogliere un metodo per regolare in modo efficiente e semplice le proprie attività.
Il Valotti conclude la propria analisi così: “Tutto questo potrebbe esporre a rischi di comportamenti devianti e opportunistici? Sicuramente sì. Tuttavia, questi possono da un lato essere contrastati da un rafforzamento significativo del sistema dei controlli sull’attuazione dei progetti e degli investimenti, oltre che da un inasprimento delle sanzioni per chi sgarra. Ma, dall’altro, questi rischi sarebbero forse minori di quelli di uno Stato con «il freno a mano», prigioniero dei propri vincoli e incapace di guidare la ripresa”.
Uno Stato che si rispetti non dovrebbe nemmeno pensare che la soluzione sia la sospensione di qualsiasi regola e che appunto il “rischio” (comportamenti “devianti”, per non dire spazio alle truffe, al malaffare, alla negazione della concorrenza, per tacer d’altro) sia conseguenza di un modo anarcoide di agire, resta comunque uno Stato disorganizzato, preda di se stesso e dell’incapacità di comprendere fino in fondo che il modo per uscire dall’inerzia è azzerare 30 anni di riforme che hanno portato a questo. Non è facile.