19/10/2022 - Una PA ancora immatura per il lavoro agile
16/10/2022 - L’articolo “Caro bollette, la ricetta dei comuni: più led, risparmi e smart working di Sara Deganello su Il Sole 24 Ore del 16 ottobre 2022 evidenzia l’arretratezza organizzativa e di approccio della PA in generale e dei comuni in particolare in merito al lavoro agile.
L’articolo sintetizza una serie di azioni che i comuni si accingono a realizzare per il risparmio energetico: la diffusione dei led per l’illuminazione pubblica, l’abbassamento delle temperature dei riscaldamenti, la riduzione del tempo di illuminazione e “lo smart working per i dipendenti”.
Quasi un anno fa, campeggiava sui giornali l’esigenza del “rientro in presenza”. E’ proprio dell’8 ottobre 2021 il Decreto del Ministro della Funzione Pubblica avente ad oggetto “Modalità organizzative per il rientro in presenza dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni”, accolto con molti “finalmente i dipendenti tornano agli sportelli”, sottintendendo che la PA si sarebbe rimessa a lavorare dopo la “lunga vacanza” sotto il falso nome dello smart working.
Dal lavoro agile emergenziale, applicato anche in modo poco ponderato e talvolta indiscriminato, si passò ad un sistema oggettivamente rigido e sostanzialmente ostile. L’immediato ripristino dell’accordo individuale nella PA (mentre nel lavoro privato è ancora sospeso) ha avuto più lo scopo di porre uno tra i tanti ostacoli (non il solo: si pensi alla rotazione e alla prevalenza della presenza) all’attivazione del lavoro agile, più che qualificarlo come strumento di regolazione del modo di rendere l’attività lavorativa.
Passato un anno, si “riscopre” il lavoro agile, a partire proprio da enti, come il comune di Milano, il cui vertice politico ha espresso nei mesi scorsi una plateale contrarietà allo strumento, visto come un possibile ostacolo ad un’economia concepita, a ben vedere, come somma di attività a bassissimo valore, come la ristorazione delle pause pranzo o la rendita dei palazzoni megacotenitori di spazi per uffici.
Il “rilancio “del lavoro agile, con apripista i comuni, è, tuttavia, l’ennesima conferma della visione regressiva ed erronea che dello strumento hanno i soggetti pubblici.
Ancora una volta, la premessa per utilizzarlo è ben lontana dagli scopi di questo istituto, nonostante siano sufficientemente chiariti dalla legge 81/2017 che lo disciplina: “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”, avvalendosi di “forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.
Le Linee Guida sul lavoro agile del novembre 2021 hanno ulteriormente spiegato la funzione principalmente organizzativa ed orientata al miglioramento organizzativo: “Fermo restando che il lavoro agile non è esclusivamente uno strumento di conciliazione vita-lavoro ma anche uno strumento di innovazione organizzativa e di modernizzazione dei processi”.
Tuttavia, ad un anno dal “grande rientro”, si propone ora un’ondata di riflusso, un “grande ritorno al lavoro agile”, che sottende la scarsa comprensione delle vere finalità dell’istituto.
Di esso, si continua ad avere una visione non organizzativa e di evoluzione dei servizi. Se così fosse, del resto, se le amministrazioni avessero saputo cogliere le ricadute sulle modalità di svolgimento delle loro competenze e soprattutto se lo stesso Legislatore avesse inteso valorizzare le potenzialità del lavoro agile, avremmo dovuto assistere ad un’accelerazione poderosa dell’attuazione di uno dei principali strumenti per concretizzare lo stesso Pnrr: il codice dell’amministrazione digitale. Avremmo dovuto vedere regole semplici per consentire, finalmente, l sottoscrizione di documenti e contratti da remoto, il riconoscimento delle persone mediante video connessioni, l’accesso tramite Spid obbligatorio (e per chi ne fosse privo o non lo sapesse utilizzare, tramite servizi accreditati delegati dall’utente), l’obbligo di applicativi on line e telematici ove svolgere i flussi procedurali, la pubblicazione obbligatoria di slot dei dipendenti in lavoro agile per permettere i contatti del pubblico con essi mediante appuntamenti telematici e molto altro ancora.
Invece, nulla di tutto ciò. Il lavoro agile, sotto il peso del “rientro in presenza” e delle alchimie per conteggiare la prevalente presenza in servizio, utile alla logica del lavoro “dietro lo sportello” fisico, è rimasto intercettato dai radar della politica in particolare come strumento soprattutto di welfare e conciliazione, molto meno, se non quasi per nulla, di innovazione organizzativa.
Il lavoro agile, invece, se correttamente utilizzato, non solo induce ad investimenti rilevanti nell’informatica (a partire dalle infrastrutture) e nell’aggiornamento/formazione di tutti, dipendenti pubblici e cittadini ai fini di una nuova alfabetizzazione, ma comporta indirettamente in via quasi necessaria riorganizzazioni ancor più ampie.
Slegare il lavoro (ove si tratti, ovviamente, di prestazioni che col lavoro agile si concilino) significa contribuire ad una vita delle città meno convulsa: riduzione della concentrazione delle vetture private in ristrette fasce orarie, riduzione del traffico e della ricerca disperata di parcheggi, flessibilizzazione degli orari di vita non tanto e non solo per i dipendenti, ma soprattutto per i cittadini, che potrebbero finalmente chiedere ed ottenere servizi in orari pomeridiani e con modalità remote.
Il lavoro agile significa anche risparmi, certo. Ma risparmi a regime: riduzione delle volumetrie degli spazi da destinare ad uffici, contenimento effettivo delle spese per utenze, concentrazione delle sedi, riduzione delle spese per manutenzioni, dotazioni di arredo, affitti.
Si tratta di possibilità di riorganizzazioni e rilanci dell’efficienza di natura strategica, oggettivamente andati in gran parte sprecati in questi 3 difficilissimi anni, nonostante le marce forzate verso lo smart working causate dalla pandemia.
Il lavoro agile è rimasto prigioniero delle gabbie burocratiche dell’eccesso di programmazione, tra POLA prima e PIAO adesso e delle già citate alchimie come rotazione e conteggi delle percentuali delle presenze in servizio, tramutate come un bene in sé, a prescindere da quel che in presenza si fa.
Il travisamento logico degli scopi e dei risultati connessi al lavoro agile traspaiono, ora, con l’emergere delle idee per il contenimento delle spese.
Ancora una volta, il lavoro agile riemerge dell’angolo nel quale è stato relegato, e ancora una volta esclusivamente per ragioni connesse all’emergenza, questa volta derivante dal “caro bollette”.
L’idea dei comuni di utilizzare il lavoro agile per “chiudere gli uffici” un giorno la settimana, il venerdì o il lunedì, è sicuramente utile e da considerare, vista la necessità di ogni iniziativa per contenere le spese.
Ma, si tratta dell’ennesimo approccio al lavoro agile di carattere emergenziale ed asfittico. Datori pubblici che da un anno a questa parte hanno centellinato il lavoro agile, si presume per fondate ragioni organizzative, improvvisamente ora decidono che per un giorno la settimana l’economia della ristorazione della pausa pranzo possa fare a meno della somministrazione di insalatone e panini e che, altrettanto improvvisamente, quel lavoro agile concesso ai pochi, possa senza colpo ferire essere appannaggio di tutti i dipendenti.
Una visione emergenziale, priva, come tale, della visione strategica di riorganizzazione complessiva, sintetizzata prima, che dovrebbe essere sottesa.
Una bolletta meno cara, quindi, val bene un contro esodo in massa verso lo smart working, sebbene siano ancora vigenti le regole di un anno fa più volte ad ostacolare l’accesso al lavoro agile che a disciplinarlo in maniera utile.
Parte, così, la caccia all’accordo individuale, la verifica di quali piani, corridoi, parti di edificio possano essere isolate e chiuse, magari con modifiche degli assetti di utilizzi degli spazi. Tutte idee ottime: peccato che l’emergenza renda queste attività, di per sé appunto da gestire in ottica strategica, convulse e disordinate e, soprattutto, che questo ritorno al lavoro agile, sia pure per un giorno la settimana, pare disposto ignorando del tutto le ricadute sull’efficienza dei servizi, che, pure, in assenza di modifiche alle Linee Guida del novembre scorso ed ai contenuti della disciplina del lavoro agile che si riscontrano nei Ccnl dei comparti di lavoro pubblico già stipulati o in via di stipulazione (che di fatto hanno semplicemente copiato ed “incollato” le linee guida), dovrebbero costituire il presupposto indefettibile.
Insomma, l’emergenza bollette val bene un lavoro agile diffuso almeno un giorno la settimana, prescindendo dalla valutazione della capacità di rendere i servizi in modo utile alla cittadinanza. In fondo, è facile far accettare eventuali improvvisazioni organizzative dello smart working come prezzo da pagare a fronte del ben più caro costo dell’energia.
E tuttavia, si tratta di convulsioni che non tengono conto della circostanza che manca una normativa di regolazione dell’emergenza. I comuni, quindi, debbono “pietire” l’accordo coi dipendenti: basta che qualcuno non sottoscriva l’accordo, magari perché non ritiene di dover sostenere a casa maggiori costi dell’energia (sì, perché si continua a confondere il lavoro agile con il lavoro “a domicilio”), è il piano di risparmi salta.
I comuni, specie quelli rimasti indietro sulla telematica e la possibilità stessa di rendere in modo più efficiente e produttivo i servizi, potrebbero ottenere il medesimo scopo di ridurre i costi dell’energia, chiudendo un giorno la settimana, attivando l’istituto dell’orario multiperiodale, che consente di ridurre le ore lavorative settimanali in un certo periodo di mesi, per aumentarle simmetricamente in altro periodo. E in questo caso non è richiesto nessun accordo individuale.
Lo strumento non viene quasi preso in considerazione. Il lavoro agile emergenziale, anche se emergenziale non è, appare la scorciatoia. In attesa che al cessare dell’emergenza (speriamo prestissimo), lo smart working torni nell’ombra.