17/3/2021 - Il TAR Catania si esprime sui principi che regolano il diritto di accesso agli atti istruttori dei procedimenti disciplinari.
Il giudizio in materia di accesso - anche se si atteggia impugnatorio nella fase di proposizione del ricorso, in quanto rivolto contro l'atto di diniego o avverso il silenzio - diniego formatosi sulla relativa istanza e il relativo ricorso deve essere esperito nel termine perentorio di 30 giorni - è sostanzialmente rivolto ad accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella specifica situazione alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall'Amministrazione per giustificarne il diniego. Il giudizio de quo ha per oggetto, dunque, la verifica della spettanza o meno del diritto di accesso.
Il giudice può ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all'Amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, solo se ne sussistono i presupposti (cfr. art. 116, comma 4, cod. proc. amm.). Questo implica che, al di là degli specifici vizi e della specifica motivazione del provvedimento amministrativo di diniego dell'accesso, il giudice deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo pertanto negarlo anche per motivi diversi da quelli indicati nel provvedimento amministrativo.
Proprio in ragione di quanto appena evidenziato, nessuna rilevanza può avere il fatto che la parte resistente non ha provveduto - ai sensi dell’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile 2006, n. 184 - una volta individuati i soggetti controinteressati, a dare comunicazione agli stessi dell’avvenuta presentazione da parte dell’odierno ricorrente della istanza di accesso (onde consentire loro di presentare motivata opposizione), procedendo direttamente al rigetto della domanda di acceso. Ed invero, va ribadito il consolidato orientamento secondo il quale il giudizio in materia di accesso è rivolto all’accertamento della sussistenza o meno del diritto dell'istante all'accesso medesimo e, in tal senso, è dunque un “giudizio sul rapporto”.
In sintesi, parte ricorrente evidenzia - a fondamento delle domande proposte - che l’esigenza di accedere ai documenti richiesti (e, in particolare, agli atti istruttori del procedimento disciplinare relativo ai geometri sospesi) sorge dalla necessità di verificare il rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza e di imparzialità nell’adozione delle sanzioni disciplinari, rilevando ai fini della censura della disparità di trattamento nell’impugnazione della sanzione (cfr., in particolare, pag. 2 della memoria depositata in data 29 dicembre 2020).
Il Collegio osserva che di recente è stata evidenziata l’esistenza di “due le logiche all’interno delle quali opera l’istituto dell’accesso: la logica partecipativa e della trasparenza e quella difensiva”; segnatamente, in ordine alla disciplina dell’art. 24, comma 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (il quale stabilisce che deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia “necessaria” per curare o per difendere i propri interessi giuridici e che nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia “strettamente indispensabile e nei termini previsti dall' articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”), la “logica difensiva è costruita intorno al principio dell’accessibilità dei documenti amministrativi per esigenze di tutela e si traduce in un onere aggravato sul piano probatorio, nel senso che grava sulla parte interessata l’onere di dimostrare che il documento al quale intende accedere è necessario (o, addirittura, strettamente indispensabile se concerne dati sensibili o giudiziari) per la cura o la difesa dei propri interessi.
La tecnica legislativa utilizzata nel comma 7, rispetto ai precedenti commi del medesimo art. 24, avvalora la tesi che questo aggravamento probatorio in tanto si giustifica, proprio in quanto si fuoriesce dalla stretta logica partecipativa e di trasparenza, per entrare in quella, diversa, difensiva” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 25 settembre 2020, n. 19). 1 Orbene, va in primo luogo evidenziato che in sede di accesso ai documenti, pur dovendo riconoscersi il tradizionale valore di “chiusura” al c.d. accesso difensivo, deve escludersi che le esigenze di cura e difesa di interessi giuridici contemplate dal citato art. 24, comma 7, legge 7 agosto 1990, n. 241 possano essere tutelate sino al punto di ammettere istanze di accesso “riferite a rapporti estranei dalla sfera giuridica del richiedente” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 19 marzo 2020, n. 1939; Cons. Stato, sez. V, 21 agosto 2017, n. 4043). In secondo luogo, il Collegio ritiene che la necessità degli atti di cui si chiede l’ostensione per esigenze difensive, prevista dal più volte citato art. 24, comma 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241, non sussiste laddove il richiedente non ha alcuna prova del vizio di disparità di trattamento, meramente ipotetico, e mira a fare un’indagine alla ricerca di tale vizio; in casi del genere, invero, l'indagine potrebbe anche, ad esibizione degli atti avvenuta, risolversi nell'assenza del vizio suddetto, ovvero nell'assenza in relazione a talune pratiche visionate, con il risultato che la privacy è violata senza che il diritto di difesa sia stato soddisfatto.
Infine, l’esigenza di tutela della riservatezza non potrebbe ritenersi soddisfatta con l’accorgimento dell’oscuramento dei nomi (peraltro già conosciuti), in quanto è proprio il complesso dell’attività concernente la fase istruttoria e decisoria del procedimento disciplinare (acquisizione dei dati concernenti la morosità; contestazione disciplinare e giustificazioni addotte dall’incolpato; motivazione della sanzione irrogata) che forma oggetto di tutela. 3. In conclusione, il ricorso proposto deve essere respinto in ogni sua domanda.