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02/01/2018 - Un’assicella di legno che chiamiamo IMPARZIALITA’

tratto da spazioetico.com

Un’assicella di legno che chiamiamo IMPARZIALITA’

27 dicembre 2017

 

Che cosa è l’imparzialità?

A volte la percepiamo come un “meccanismo di funzionamento” delle organizzazioni, specialmente quelle pubbliche. In questo senso l’imparzialità è una “regola”, nel senso etimologico della parola “regola” che veniva utilizzato dagli antichi romani. Si trattava di un’assicella di legno diritta, che serviva a tirare le linee. Quindi l’imparzialità sembra essere un “sistema regolatore” del funzionamento del settore pubblico. A questo fa riferimento esplicito la Costituzione italiana quando afferma: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” (articolo 97).

A volte, però, si manifesta come un “valore”, un principio di riferimento dell’etica pubblica. Nei Codici etici e di condotta il principio di imparzialità viene inserito nei primi articoli, dove si enunciano, appunto, principi e valori di riferimento.

A volte l’imparzialità sembra essere una “qualità” dell’agente o del decisore pubblico. Questa interpretazione sembra la più fallace, dal momento che l’imparzialità è una qualità dell’organizzazione (come ben espresso in Costituzione quando si parla degli “uffici pubblici”) e delle decisioni che essa esprime, mentre una qualità dell’agente necessaria affinché l’azione amministrativa sia “imparziale” potrebbe essere l’indipendenza e la terzietà di giudizio.

L’imparzialità sembra essere anche un “interesse”. Studiando il conflitto di interessi in ambito pubblico ci siamo accorti che tra gli interessi che devono essere promossi dall’agente pubblico l’imparzialità rappresenta un interesse primario espresso dal “principale” pubblica amministrazione/governo. Anche se a me sembra, a dire il vero, che non sia corretto dire che esiste un interesse primario all’imparzialità. L’imparzialità rappresenta il meccanismo che permette di salvaguardare alcuni interessi primari, tra cui, ad esempio, la preservazione delle corrette condizioni di concorrenzialità di un mercato (locale, nazionale, internazionale).

Comunque la si voglia vedere, in maniera simile ai quanti di energia, l’imparzialità assume diversi stati a seconda di come viene osservata.

Proviamo a semplificare e ad uniformare i punti di vista. Se partiamo dal principio che una cosa è “etica” perché serve, cioè è utile, allora possiamo abbinare il concetto di imparzialità come valore all’imparzialità come “sistema di funzionamento”. E’ giusto che i procedimenti amministrativi e le decisioni che ne scaturiscono abbiano la caratteristica di essere imparziali, perché questo serve a qualcosa. Ma a cosa esattamente?

In generale, l’imparzialità serve a mantenere gli interessi in gioco egualmente distanti dal centro del processo (decisionale). Si parla di “equidistanza DEGLI interessi” oppure, se si tratta di valutare la posizione dell’agente pubblico, diremmo “equidistante DAGLI interessi”.

L’etica pubblica è piena di condotte che devono assicurare tale equidistanza. Si pensi al divieto per un agente pubblico di orientare un utente ad uno specifico operatore privato. Si può, anzi si deve, consentire una scelta informata tra diversi erogatori pubblici e privati, ma non si può individuare un singolo operatore privato e segnalarlo all’utente perché questa condotta peccherebbe di imparzialità, dal momento che si mostrerebbe di non essere in una posizione di “equidistanza DAGLI interessi”.

La modalità di approvvigionamento in ambito pubblico sembrerebbe alquanto bizzarra ad un privato cittadino. Perché elaborare un bando di gara, formare una Commissione di valutazione, eseguire una serie a volte faticosa di procedure, se non per assumere (e dimostrare di aver assunto) una decisione imparziale, cioè, presa in equidistanza dagli interessi in gioco?

Anche l’astensione in caso di conflitto di interessi è una condotta necessaria a garantire imparzialità del processo decisionale, così come il divieto di accettare doni, regali o altre utilità che mostrerebbe una “vicinanza” di interessi inammissibile.

Questo concetto di imparzialità, piuttosto stringente, nasce nella Repubblica di Platone, quando il filosofo teorizzava l’eliminazione di ogni relazione familiare ed economica per i guardiani della Repubblica così da assicurare che essi fossero del tutto imparziali nella difesa di Atene sia dall’esterno che dall’interno.

Ma l’imparzialità che conosciamo oggi e che regola il sistema pubblico deriva dalle teorie dell’utilitarismo sociale di Jeremy Bentham e di John Stuart Mill che nel diciottesimo secolo immaginarono un mondo dove le decisioni si distinguessero in giusto o sbagliate sulla base dell’utilità che esse generavano per il maggior  numero di persone. Il concetto di utilità corrispondeva a “felicità” anche se questa parola ha reso la vita difficile agli utilitaristi. All’epoca si trattava di una vera rivoluzione. Nessun dogma di fede o di altra natura che guidasse le nostre decisioni. Solo uno sguardo alle conseguenze (per questo si chiamò anche “consequenzialismo”) delle azioni.

Cosa c’entra con l’imparzialità? Moltissimo a dire il vero. Una tale visione comporta che quando un “agente” che ha un atteggiamento votato all’utilitarismo deve prendere una decisione deve considerare quale scenario porterà maggiore utilità o felicità ad un numero più elevato possibile di persone. Questo vuol dire che il suo “interesse personale”, che non a caso noi chiamiamo ora “interesse secondario”, deve essere valutato come “irrilevante”. Perciò la decisione dell’agente “utilitarista” è giusta se è imparziale, cioè se esclude interessi e desideri dell’individuo che assume il ruolo di agente pubblico.

In un interessantissimo articolo del croato Tomislav Bracanovic, “Utilitarian Impartiality and Contemporary Darwinism” del 2007, viene riportato un esempio di William Godwin che illustra bene il significato ed il paradosso che, in qualche misura, è contenuto in questa “idea” di imparzialità. Nel suo Enquiry Concerning Political Justice, Godwin immagina una casa in fiamme. Si tratta della casa dell’Arcivescovo Fenelon che convive con una normale cameriera. Entrambi potrebbero morire a causa dell’incendio e i pompieri debbono fare una scelta perché non potranno salvare entrambi. Chi decideranno di salvare? Se seguissimo la teoria utilitarista non avremmo dubbi (anche se a me un po’ di dubbi verrebbero, dobbiamo considerare che Godwin nacque nel 1756). Dovrebbe essere salvato l’arcivescovo dal momento che il suo contributo per il bene comune è più rilevante rispetto a quello della cameriera. Questa decisione potrebbe essere alquanto facile se non includiamo alcun interesse da parte di colui che prende la decisione, mettiamo il caso sia il capo dei Vigili del Fuoco. Ma ora proviamo ad alterare lo scenario. Poniamo che il capo dei Vigili del Fuoco sia il marito della cameriera dell’arcivescovo Fenelon. Cambia qualcosa? Per gli utilitaristi non cambierebbe nulla. Occorre che l’agente escluda qualsivoglia interesse o desiderio affinché la sua decisione sia assolutamente imparziale. Solo così verrà massimizzato l’interesse al raggiungimento di una più diffusa felicità.

Ma per i “non utilitaristi” cambierebbe davvero molto. Sarebbe una decisione altamente dilemmatica se il capo dei Vigili del Fuoco avesse un’alta percezione dell’interesse primario alla salvaguardia di un protagonista della scena pubblica che si contrappone e confligge con l’interesse alla salvaguardia della famiglia. Probabilmente, gli verrebbe chiesto di astenersi dall’assumere tale decisione perché, avendo degli interessi secondari in gioco, rischierebbe di compromettere l’imparzialità della decisione, e, quindi, di far prevalere l’utilità personale a scapito della utilità collettiva.

Se l’esempio vi sembra un po’ astruso, considerate ora il caso di un servizio pubblico che è stato gestito da un operatore economico privato e che un’amministrazione deve affidare nuovamente perché sono scaduti i termini contrattuali. Il servizio, nella percezione dell’agente pubblico che deve provvedere al nuovo affidamento, è stato ben erogato dall’operatore economico e non esiste alcuna ragione per dover cambiare. Ebbene, l’agente pubblico deve decidere se avviare una procedura di gara oppure, ad esempio, prorogare l’affidamento. Per un agente pubblico che si ispira all’utilitarismo non ci sarebbero dubbi. Avviare una gara con evidenza pubblica mette in competizione i privati che hanno interesse a promuovere un servizio di qualità ad un costo competitivo generando maggiore utilità per i cittadini. Tuttavia, ad una persona normale sembrerebbe strano dover sacrificare una relazione ben avviata e che produce un servizio percepito come “di qualità” sull’altare dell’imparzialità.

Questo ragionamento a volte giunge ad effetti alquanto paradossali nel campo in cui io stesso opero. Alcune amministrazioni sentono di dover operare la rotazione nell’assegnazione degli incarichi di formazione in materia di prevenzione della corruzione. A volte è capitato di sentirmi dire che, nonostante il brillante risultato ottenuto in termini di efficacia e qualità della formazione erogata, non è possibile affidarmi l’incarico anche per l’annualità successiva a causa della necessità di dovere provvedere ad una rotazione, con il rischio esplicito, per le amministrazioni, di non avere garantita la medesima qualità.

Si potrebbe pertanto affermare che, al fine di salvaguardare l’imparzialità di una decisione, venga richiesto agli agenti e alle organizzazioni pubbliche di comportarsi contro-natura. Ed è proprio quello che sostengono coloro che si contrappongono alle teorie utilitariste.

Un secondo scenario aiuta a comprendere meglio questo interessante aspetto. Peter Singer illustra il caso delle donazioni alle agenzie che si occupano di sostegno ai Paesi in via di sviluppo. Singer afferma che se dovessimo controbilanciare, in termini utilitaristici, la felicità che verrebbe generata dal donare alle agenzie in contrapposizione, ad esempio, con comprare una automobile alla propria figlia per andare all’Università, non avremmo dubbi su cosa scegliere. La prima scelta, infatti, permetterebbe di non far morire di fame i bambini di una determinata area depressa, mentre la seconda si risolve nella “comodità” di un unico individuo. Ma noi non nasciamo con lo spirito dell’imparzialità in testa. Contrariamente siamo più propensi a soddisfare una utilità sicuramente minore ma affettivamente rilevante. Perciò è più probabile, come succede nella realtà, che quei soldi finiranno nell’acquisto dell’automobile per nostra figlia, con grande scandalo degli utilitaristi, che potrebbero spingersi ad accusarci di essere degli assassini (e qualche volta succede davvero).

Ebbene, se è difficile mantenere questo livello di percezione dell’utilità generale in decisioni della sfera privata, lo è ancora di più quando diventiamo agenti pubblici. In effetti, ci viene chiesto di considerare le relazioni affettive, familiari, economiche e gli interessi che ne scaturiscono del tutto irrilevanti. Oppure, se non ci riusciamo o se gli interessi in questione minacciano l’imparzialità della decisione, ci viene chiesto di farci da parte. A ben vedere, l’agente pubblico si trova in una posizione alquanto peculiare.

Certo non chiederemmo all’agente pubblico di tenere una condotta così “contro-natura” senza una buona ragione. In effetti, un sistema di regole così pervasivo può essere giustificato se, almeno in qualche modo, noi avvaloriamo alcune delle tesi dell’utilitarismo sociale e se impariamo a conoscere le implicazioni delle scelte pubbliche “parziali”.

In realtà, le conseguenze delle scelte parziali in ambito pubblico si verificano nel medio-lungo periodo. Si tratta di effetti difficilmente percepibili dall’agente pubblico ed è per questo che l’ordinamento cerca di cautelarsi con regole piuttosto stringenti.

In assenza di imparzialità potrebbero innescarsi pericolosi fenomeni come, ad esempio, la selezione avversa che facilita l’instaurarsi di monopoli e cartelli nell’economia di uno Stato. Nella selezione avversa un agente pubblico modifica le condizioni di concorrenzialità di una parte del settore privato locale per determinare un vantaggio a favore di un soggetto o di un gruppo di soggetti (ai quali può essa stessa appartenere o meno), provocando una selezione dei concorrenti, alcuni dei quali si troveranno in una posizione di vantaggio rispetto agli altri. Tale selezione sarà sfavorevole in quanto resteranno in piedi solo i concorrenti disposti a violare le regole (monopolio), oppure, gli altri concorrenti inizieranno ad assumere le stesse condotte dei concorrenti favoriti (cartelli).

Per spiegare questa dinamica ricorro quasi sempre ad un caso. Una operatrice sanitaria che lavora all’interno di un ospedale pubblico  (Marta) si trova di fronte ad una paziente (Francesca) che esprime una domanda esplicita di orientamento verso un ambulatorio privato, dal momento che l’ospedale non è in grado di eseguire una particolare prestazione sanitaria. La paziente intende colmare la sua asimmetria informativa percependo l’operatrice sanitaria pubblica come la detentrice dell’informazione rilevante. Ora, l’agente pubblico risponde indicando un ambulatorio privato dal momento che percepisce il particolare fabbisogno dell’utente e nello spirito della “presa in carico” attua una condotta che presumibilmente verrà premiata con la soddisfazione della paziente. Quando eroga quella informazione Marta considera solo le implicazioni di breve periodo di quella scelta, cioè dimostrare che il suo ufficio produce un risultato nell’ottica del “buon andamento”. Ma esistono anche le implicazioni di medio-lungo periodo. In un secondo scenario mostro uno specialista del dipartimento (il dottor Lupi) che detiene alcuni biglietti da visita di un ambulatorio privato a lui in qualche modo collegato. Marta pensa di dare a Francesca proprio uno di quei biglietti da visita. In quel modo premierebbe un operatore economico che non compete sulla base dei normali meccanismi di concorrenzialità (qualità + prezzo), ma in base alla particolare relazione che può vantare (con il dottor Lupi) all’interno di quell’ospedale pubblico. Lo scenario, pertanto, dovrebbe essere completato mostrando, da una parte, la soddisfazione della paziente, dall’altra l’estrema insoddisfazione degli altri ambulatori privati che erogano la medesima prestazione, i quali saranno penalizzati da quel meccanismo e saranno indotti, se tale meccanismo diventa la regola, a comportarsi in maniera analoga all’operatore colluso per continuare ad avere la speranza di lavorare.

In questo caso, come in molti altri, operano una serie di interessi secondari convergenti nonché un potente “bias cognitivo” dell’agente pubblico, in particolare, l’eccesso di fiducia (overconfidence), cioè, la fiducia nelle nostre valutazioni e nei nostri giudizi che deriva dal credere che abbiamo informazioni più accurate e complete di quanto non siano realmente. Marta, infatti, non ricostruisce correttamente lo scenario, almeno non lo ricostruisce in maniera completa e su questo basa la sua decisione che è contraria all’etica pubblica (in particolare è contraria all’articolo 12 comma 3 del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici). Il suo comportamento potrebbe essere percepito da un osservatore esterno come “parziale”, dal momento che favorisce un determinato operatore economico privato a scapito di altri.

Per una maggiore comprensione di quanto ci sembri innaturale scegliere in maniera imparziale, riprendiamo il caso esposto prima del servizio pubblico gestito da un operatore economico privato e che un’amministrazione deve affidare nuovamente perché sono scaduti i termini contrattuali.

L’interesse secondario dell’operatore economico affidatario è di mantenere e stabilizzare il proprio rapporto con l’amministrazione così da ridurre il rischio di impresa. L’agente pubblico ha un interesse secondario nei confronti dell’operatore economico; si è trovato bene a lavorare insieme e ritiene che cambiare significa rischiare di trovare un operatore peggiore. Questa convergenza di interessi è potente e in assenza di una forte percezione delle conseguenze di una scelta parziale, rischia di attivare lo stesso bias cognitivo del caso precedente, cioè, l’eccesso di fiducia, In questo caso, l’idea dell’agente pubblico di conoscere quale operatore economico eroga il miglior servizio, non avendo alcuna conoscenza degli altri.

Nel breve periodo, pertanto, una condotta “parziale” dell’agente pubblico (la scelta, ad esempio, di prorogare l’affidamento all’operatore economico) generata da una convergenza di interessi secondari sembra essere premiante. Ma nel medio-lungo periodo, l’aver modificato le condizioni di concorrenzialità di quel mercato (l’agente pubblico non ha scelto in base alla migliore qualità del servizio o alla economicità del prezzo ma in base a proprie valutazioni del tutto personali e influenzate dalla relazione che si era instaurata con l’operatore economico) può determinare una selezione dei concorrenti tale da escludere alcuni competitor dal mercato. Questa dinamica, sempre nel medio-lungo periodo, distorce il mercato, fino ad arrivare a situazioni di monopolio o alla generazione di cartelli. In tali condizioni l’operatore privato non avrà più alcun interesse a fornire un servizio di qualità o economicamente vantaggioso dal momento che non si dovrà confrontare con la concorrenza. E questo genera spreco di risorse e abbassamento della qualità dei servizi.

Ora l’esempio riporta una situazione alquanto idilliaca in cui l’agente pubblico favorisce l’operatore economico privato in quanto ritiene che abbia svolto un buon lavoro, ma occorre considerare che la stragrande maggioranza di decisioni parziali assunte da agenti pubblici si basa su collegamenti di interessi diretti o indiretti che generano interferenze che nulla hanno a che fare con la qualità del servizio.

Vi sembra che stiamo parlando di aria fritta? Avrei un numero talmente elevato di esempi di selezione avversa in questo nostro sfortunato Paese da riempire tutto l’articolo, perciò confido nella vostra capacità di contestualizzare e vado avanti.

La tendenza dell’uomo ad essere “parziale” non è nemica solo dell’utilitarismo. Anche il Darwinismo e la teoria evoluzionistica sembrerebbe non andarci per nulla d’accordo. Come è concepibile, infatti, che in un ambiente spietato come l’evoluzione della specie in cui il più forte ed adattabile sopravvive e il più debole si estingue, possa essere stato generato un meccanismo di parzialità ed altruismo?

Secondo la prima spiegazione, fornita da William Hamilton e nota come “selezione parentale”, sembrerebbe che l’altruismo si sia generato in piccoli gruppi di individui geneticamente collegati. Secondo questa teoria, è opportuno favorire i nostri simili (da un punto di vista genetico) dal momento che portano una parte significativa del nostro corredo genetico.

Robert Trivers fornisce una seconda spiegazione. E’ opportuno essere altruisti nei confronti di chi si mostra altrettanto altruista. In questo modo, si genera una “comunità” di individui che operando in questi termini di reciprocità possono adattarsi meglio e prevalere rispetto a coloro che non hanno il medesimo atteggiamento.

La terza spiegazione è di Darwin stesso. Esisterebbe non solo l’evoluzione degli individui, ma anche l’evoluzione dei gruppi. I gruppi che si adattano meglio sono quelli che al loro interno esprimono un certo grado di altruismo che li mette in posizione di vantaggio rispetto agli altri gruppi.

Tutte le spiegazioni tentano di gettare luce su una evidenza comune a tutti: le persone tendono a favorire individui nei confronti dei quali esprimono un legame parentale, oppure un legame di reciprocità (si veda “l’economia del dono” di Marcel Mauss e il collegamento di interessi che viene generato dall’accettazione di un regalo, di un benefit o di altra utilità), oppure membri del proprio gruppo sociale. In qualche modo sembrerebbe che, dal punto di vista evoluzionistico, abbia pagato in termini di adattamento e sopravvivenza l’essersi mostrati parziali nei confronti di coloro che appartengono ai gruppi di individui appena citati.

Dunque, il senso comune ci impone di riconsiderare la nostra “attitudine” ad essere imparziali. Per questo c’è bisogno di un forte “sistema di regole” che si contrappone a questo diffuso sentimento di parzialità.

Siamo individui che esprimono un certo grado di parzialità nelle decisioni quando sono implicate relazioni di un certo tipo, cioè, entro un certo grado di socialità e che generano interessi. E questo deriva dal fatto che ci siamo adattati meglio comportandoci in questa maniera.

Ci viene richiesto di fare un passaggio ulteriore per adattarci alla complessità delle società moderne. Cioè, considerare che il nostro “gruppo sociale” non sia più rappresentato solo dagli individui con cui siamo in grado di entrare in relazione, ma da una comunità più ampia di livello locale, nazionale o ultranazionale fatto di persone che probabilmente non conosceremo mai e con le quali non entreremo mai in un collegamento di interessi diretto.

E’ difficile farlo non è vero? Anche se non lo vogliamo ammettere affrontiamo la complessità dei tempi moderni con atteggiamenti e comportamenti che abbiamo consolidato nel Pleistocene.

E’ per questo che abbiamo bisogno dell’imparzialità. A me piace pensare che l’imparzialità sia una assicella di legno che ci serve per tirare una linea dritta anche quando ci verrebbe di disegnare un cerchio perché pensiamo, erroneamente, che in quel modo arriveremo prima al punto.

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