25/10/2017 - Incarico incompatibile per il dipendente pubblico: come calcolare il danno erariale
Incarico incompatibile per il dipendente pubblico: come calcolare il danno erariale
Il dipendente pubblico che svolge attività extra-istituzionale non autorizzata deve rispondere anche del danno erariale che in termini di quantificazione assume come rilievo, nel caso in esame, i compensi percepiti in relazione all'attività non autorizzata, ma in un rapporto tra retribuzione complessiva e indennità di esclusiva, prevista nel settore del pubblico impiego (nel caso del comparto, dei medici e dei veterinari del servizio sanitario nazionale) pari a circa il 30% della retribuzione complessiva dei compensi; è quanto affermato dalla Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Liguria, con la sentenza n. 155 del 9 ottobre 2017.
Il fatto
Con atto depositato in data 6 marzo 2013 il P.M. contabile citava in giudizio un docente universitario a tempo definito, per sentirlo condannare al risarcimento del danno di poco più di 84mila euro a favore della Università da cui dipendeva , oltre a rivalutazione monetaria ed interessi legali.
Esponeva la Procura che il docente acquistava dalla figlia una quota di una SRL avente ad oggetto l'intermediazione, l'importazione, l'esportazione, il commercio, nonché la lavorazione di prodotti metallici e di semilavorati, prefabbricati e componenti per l'edilizia.
In data 15 gennaio 1996 il convenuto veniva nominato presidente del consiglio di amministrazione della predetta società, e rimaneva in carica fino alle dimissioni presentate il 26 ottobre 1998.
Secondo la Procura contabile l'incarico di presidente del CDA della S.r.l. , comportando l'esercizio di attività commerciale e industriale, era da ritenersi incompatibile con lo status di docente universitario, anche a tempo definito, per espressa previsione degli artt. 60, D.P.R. n. 3 del 1957 e 53, D.Lgs n. 165 del 2001.
Lo svolgimento dell'attività posta in essere nonostante il divieto di legge aveva determinato, secondo il P.M., un danno erariale pari alle retribuzioni lorde percepite nel periodo gennaio 1996 - ottobre 1998, per complessivi Euro 84.115,47.
Secondo il P.M. istante, la disposta incompatibilità doveva ritenersi funzionale alla "esigenza, valutata a priori dal legislatore, di concentrare le energie di studio e di lavoro del docente sulle attività universitarie (oltre che nella necessità di evitare situazioni di potenziale conflitto di interesse e strumentalizzazioni dell'ufficio pubblico a fini personali), nella presunzione che solo in tal modo possa essere perseguito l'interesse pubblico sotteso al programma didattico e di studio". Verrebbe in tal modo a configurarsi, secondo il P.M., una presunzione iuris e de iure di negativa influenza dell'esercizio delle attività vietate sull'interesse pubblico perseguito, da considerare interamente sacrificato.
L'analisi dei giudici contabili
I giudici contabili nel merito rilevano che la normativa in materia di incompatibilità e cumulo di incarichi ed impieghi enuclea una varietà di situazioni che sostanzialmente si differenziano in ragione dell'intensità del vincolo che esprimono dal punto di vista sia oggettivo, sia soggettivo. In questo senso la disciplina prevede sia divieti a contenuto assoluto, sia divieti a contenuto relativo che possono essere rimossi mediante specifica autorizzazione all'esercizio dell'attività, previa verifica della presenza, o meno, di situazioni di conflitto di interessi.
Il principio generale in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi ed impieghi, tendenzialmente assoluto, è espresso dall'art. 60 , D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, recante il "Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato", secondo il quale "l'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del Ministro competente".
La norma è richiamata anche dall'art. 53, comma 1, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 ("Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche") il quale prevede che "resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettate dagli artt. 60 e seguenti del testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3".
La Corte dei Conti ligure evidenzia che la titolarità di cariche sociali in società in astratto caratterizzate dallo scopo di lucro si configura quando il pubblico dipendente assuma la legale rappresentanza di società costituite ai sensi dell'art. 2247 c.c. siano esse società commerciali ai sensi dell'art. 2195 c.c., o agricole ex art. 2135 c.c..
Sussiste, pertanto, incompatibilità quando l'attività concomitante è quella di amministratore di società per azioni, a responsabilità limitata o in accomandita per azioni, talché per le ultime la qualifica di socio accomandatario configura ex se attività contra ius.
Parimenti, sussiste incompatibilità con il ruolo di socio accomandatario di società in accomandita semplice e di socio di società in nome collettivo.
La ratio di tale divieto, che permane anche nel sistema del pubblico impiego "contrattualizzato", a rimarcare la peculiarità dell'impiego presso la P.A., va rinvenuta, secondo unanime dottrina e giurisprudenza, nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico di cui all'art. 98 della Cost. ("I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione"). Il dovere di esclusività della prestazione lavorativa del pubblico dipendente e la disciplina delle incompatibilità che ne consegue rispondono, pertanto, a specifiche esigenze connesse all'imparzialità ed al buon andamento dell'azione amministrativa, in quanto volte a garantire che tutta l'attività dei pubblici uffici sia espletata nel rispetto dei canoni dell'efficacia, dell'efficienza e dell'economicità e sia anche condotta in modo da evitare il concretizzarsi di conflitti di interesse.
Al pubblico dipendente è, pertanto, vietato spendersi come tale nella vita sociale, al fine di garantirsi opportunità che altrimenti gli sarebbero precluse e il principio di esclusività costituzionalmente sancito dall'art. 98, comma 1, Cost., lo obbliga a riservare all'attività di ufficio tutta la propria energia lavorativa, per garantire il più efficiente esercizio dell'attività professionale, per evitare l'insorgenza di conflitti di interesse fra pubblica amministrazione e terzi e per tutelare il prestigio e l'imparzialità di quest'ultima.
Da ciò consegue che in tutti i casi di incompatibilità non è consentita l'effettuazione di alcun apprezzamento sull'intensità e la continuatività dell'attività concomitante, poiché il divieto di cumulo non solo tiene conto del nesso di funzionalizzazione che sussiste fra le energie lavorative del dipendente e l'attività di ufficio, ma è anche fondato sull'opportunità di evitare le disfunzioni e gli inconvenienti che deriverebbero alla pubblica amministrazione di appartenenza dalla circostanza che il proprio dipendente si dedichi ad attività imprenditoriali, formando centri di interesse alternativi all'ufficio pubblico rivestito, caratterizzati da un'attività continuativa e professionale alla quale potrebbe essere di supporto e vantaggio proprio lo status di pubblico dipendente, con conseguente pregiudizio all'immagine della stessa pubblica amministrazione.
L'incompatibilità per il docente universitario
Con specifico riferimento al caso in questione, l'incompatibilità è ribadita dal D.P.R. n. 382 del 1980, in materia di riordinamento della docenza universitaria, il cui art. 11, dopo aver disposto al comma 1 che "L'impegno dei professori ordinari è a tempo pieno o a tempo definito", precisa al comma 4, che "Il regime d'impegno a tempo definito: a) è incompatibile con le funzioni di rettore, preside, membro elettivo del consiglio di amministrazione, direttore di dipartimento e direttore dei corsi di dottorato di ricerca; b) è compatibile con lo svolgimento di attività professionali e di attività di consulenza anche continuativa esterne e con l'assunzione di incarichi retribuiti, ma è incompatibile con l'esercizio del commercio e dell'industria". Tale disposizione costituisce l'applicazione allo status giuridico ed economico del professore e del ricercatore universitario dei medesimi principi espressi in via generale da altre previsioni normative in materia di pubblico impiego, tra cui il citato art. 60, D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3. Stante che il descritto regime d'incompatibilità è fondato sull'ufficio di pubblico dipendente e non sul regime prescelto dal docente, la Corte dei Conti, reputa che la distinzione tra regime a tempo pieno e regime a tempo definito sia ininfluente ai fini dell'applicazione del divieto assoluto ed inderogabile di esercizio del commercio e dell'industria, e dell'accettazione di cariche in società costituite a fini di lucro, sancito dal D.P.R. n. 3 del 1957 e confermato dalle specifiche disposizioni relative alla docenza universitaria.
La quantificazione del danno
Riguardo alla quantificazione del danno in questione, osserva il Collegio che nel caso di specie, in cui il danno è stato certamente causato ma risulta particolarmente difficoltoso o addirittura impossibile determinarne con precisione l'ammontare, soccorre la possibilità di valutazione equitativa dello stesso ex art. 1226 c.c. con apprezzamento motivato del giudice, teso a colmare lacune altrimenti insuperabili nell'iter della determinazione dell'equivalente pecuniario del danno.
A tal proposito, trattandosi di quantificare il valore dell'esclusività della prestazione in un rapporto di pubblico impiego, si ritiene possa ragionevolmente soccorrere, come criterio di riferimento, il rapporto tra retribuzione complessiva ed indennità di esclusiva, laddove quest'ultima è prevista nel settore del pubblico impiego e cioè nel comparto, dei medici e dei veterinari del S.S.N., in cui l'obbligo di esclusività della prestazione viene remunerato con la corresponsione di una specifica indennità che nel periodo di riferimento 1996-1998 ammontava a circa il 30% della retribuzione complessiva del medico.
Nel caso in esame, il danno subito dall'amministrazione può, pertanto, essere equitativamente quantificato nella misura di € 25.000,00 comprensiva di rivalutazione, corrispondente a circa il 30% degli emolumenti di € 84.115,47 corrisposti al convenuto nel periodo gennaio 1996 - ottobre 1998.
Corte dei Conti-Liguria, Sez. giurisdiz., sentenza 9 ottobre 2017, n. 155