06/07/2016 - Licenziabile il dipendente che esegue le direttive del responsabile in danno all'ente
Licenziabile il dipendente che esegue le direttive del responsabile in danno all'ente
L’impiegato che esegua prestazioni di lavoro, ben sapendo che le stesse siano orientate ad arrecare pregiudizio all'ente, senza l'osservanza del prescritto obbligo di fedeltà, può essere licenziato per giusta causa
di Vincenzo Giannotti
Interessante arresto della Suprema Corte di Cassazione, estensibile anche ai rapporti di lavoro degli enti locali, sulla proporzionalità del licenziamento per giusta causa, in presenza della condotta di un impiegato che abbia eseguito le direttive del responsabile dell’ufficio in violazione dei propri doveri di ufficio, i quali richiedevano al prestatore di lavoro di usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta. In altri termini, l’impiegato che esegua prestazioni di lavoro, ben sapendo che le stesse siano orientate ad arrecare pregiudizio al datore di lavoro, senza l'osservanza del prescritto obbligo di fedeltà, con grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e con modalità tali da porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento da parte della dipendente, giustificano il licenziamento per giusta causa, a nulla rilevando la conformità alle direttive ricevute dal proprio superiore gerarchico. Tali sono le conclusioni a cui è pervenuta la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 13149 del 24 giugno 2016.
Le conclusioni della corte territoriale
I giudici della Corte di Appello avevano dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa di una dipendente, disponendo la sua reintegra e il risarcimento del danno quantificato il cinque mensilità. Ritenevano i giudici di Appello che il dipendente era da considerarsi mero esecutore materiale di ordini impartiti dal suo responsabile gerarchico, a cui andavano ascritte le operazioni truffaldine perpetrate in danno all’azienda, senza che potesse porsi sullo stesso piano il regime sanzionatorio nei confronti di chi aveva espresso l'ordine e di chi aveva obbedito e che la considerazione piena e completa delle condotte ascritte alla lavoratrice, frutto di indubbia leggerezza, inducevano i giudici ad escludere che le stesse potessero integrare una insanabile frattura del vincolo fiduciario.
Avverso tale decisione, della Corte territoriale, ricorre l’azienda evidenziando l’errore in cui erano incorsi i giudici di Appello per aver non giudicato la condotta della dipendente, ma effettuato solo un raffronto non dovuto con il suo superiore gerarchico anch’esso licenziato per giusta causa, concludendo, non in relazione al fatto grave delle operazioni compiute dalla dipendente, quanto piuttosto limitandosi ad un indebito raffronto che la minore responsabilità della dipendente che aveva eseguito le direttive della sua superiore gerarchica. A tal riguardo non si comprende il percorso logico-giuridico della Corte di Appello che, pur sottolineando l'indubbia leggerezza" del comportamento della lavoratrice, inadempiente degli obblighi contrattuali, ha di fatto considerato il licenziamento illegittimo e disposto la sua reitegrazione.
Le motivazioni della Suprema Corte
Evidenziano, in via preliminare, i giudici di Palazzo Cavour come la nozione di giusta causa di licenziamento risiede nella conformità dell’azione da parte del dipendente alla correttezza, all’obbligo di fedeltà, alla buona fede, tale che il giudice, in considerazione del suo contenuto elastico, ha il dovere di verificare, tra il fatto compiuto e la norma violata dal dipendente, se la condotta avuta nel fatto concreto si presti nei fatti ad essere inquadrata quale soluzione più rispondente al diritto violato nella sua ragionevolezza e conformità rispetto alle ipotesi disposte nel nostro ordinamento. Proprio tale ricostruzione operata dal giudice definisce tale questione elastica (giusta causa) come norma e come tale tutte le volte che il giudice disattenda una ricostruzione logico-giuridica, si ha violazione di legge e come tale impugnabile innanzi alla Corte di Cassazione. Proprio in relazione alla condotta della dipendente i giudici di Appello hanno errato, in quanto pur riconoscendo alla stessa un comportamento frutto dì un'indubbia leggerezza, hanno tuttavia concluso come alla stessa dipendente non si potesse esigere altra condotta che quella dalla stessa tenuta, di acritica obbedienza al dettato comportamentale della responsabile dell'ufficio. Tale operazione compiuta dalla Corte territoriale, non è conforme all’art. 2104 cod. civ. che, nel prescrivere (al secondo comma) che il
prestatore dì lavoro debba osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende, obbliga lo stesso prestatore ad usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, nell’esclusivo interesse dell'impresa. Ora, l’impiegata non era assolutamente mera esecutrice delle disposizioni impartite dal superiore gerarchico, ma aveva nella posizione rivestita indubbia capacità di discernimento tra una condotta lecita e una illecita. La Corte di Appello, non si è pertanto attenuta, nella sua ricostruzione logico-giuridica, all’insegnamento della corretta definizione della proporzionalità della sanzione comminata al dipendente, il quale ha esercitato in diverse occasioni operazioni tali, in aperta violazione anche dell’art. 2105, ultima parte, cod. civ., da arrecare pregiudizio al datore di lavoro, senza l'osservanza del prescritto obbligo di fedeltà, con grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e con modalità tali da porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento da parte della dipendente. La Corte di Cassazione, sulla base delle sopra indicate motivazioni, accoglie il motivo di impugnazione della Società e rinvia alla Corte di Appello in diversa composizione in relazione al citato motivo accolto.
Conclusione
Appare evidente come l’impiegato che esegua operazioni illegittime e/o in danno dell’ente in cui presta la propria attività lavorativa, pur in esecuzione di direttive del proprio superiore gerarchico, non può considerarsi estraneo ad eventuali attività truffaldine poste in essere, considerando che l’obbligo del dipendente è pur sempre quello di salvaguardare gli interessi dell’ente per cui lo stesso lavora, avendo lo stesso un precipuo impegno a non eseguire operazioni non conformi o in danno dell’ente, pena il rischio di un possibile licenziamento per giusta causa per aver lo stesso leso in modo irreversibile la fiducia del proprio datore di lavoro.