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30/03/2020 - Contributi per buoni spesa. Problemi applicativi

tratto da luigioliveri.blogspot.com
Contributi per buoni spesa. Problemi applicativi
 
La proliferazione di ordinanze dettate dall’emergenza, nel doveroso obbligo di rispondere ad esigenze reali, come quella di scongiurare disordini dovuti alle effettive necessità di molte famiglie che a causa della gelata economica hanno difficoltà a procurarsi quanto serve per mangiare, crea tuttavia problemi operativi di non poco conto.
L’idea dei buoni spesa, certamente non nuova visto che già regioni ed enti locali l’hanno sperimentata da tempo e non solo nella situazione dell’emergenza coronavirus, va anche bene.
Tutto sta, però, come sempre, nei dettagli operativi, che nel caso di specie restano avvolti nelle nebbie. Forse, anche, per dare il messaggio di ridurre al massimo i passaggi amministrativi.
Allora, scopriamo che manca un elemento: il Governo non ha ancora adottato nessun atto per indicare alla Corte dei conti che nessuno degli atti adottati nell’emergenza potrà essere oggetto di scrutinio ai fini della responsabilità contabile. Sarà compito della magistratura penale occuparsi di eventuali reati.
L’assenza di indicazioni alla magistratura contabile lascia sempre incombere su scelte operative diciamo non tano disinvolte, quanto adeguate in termini di elasticità e velocità alle urgenze dettate dall’emergenza, il fastidio del peso di possibili controlli successivi, dai quali possano scattare pretese di risarcimenti erariali. Il che costituisce un deterrente alla coniugazione di bene e presto.
Un primo elemento di rilievo dell’ordinanza della Protezione civile, della quale si commenta una bozza, è l’autorizzazione all’acquisizione di buoni spesa utilizzabili per l’acquisto di generi alimentari, “in deroga al decreto legislativo 18 aprile 2016, n.50”.
La previsione contiene una conferma e una novità da comprendere. La conferma è che il d.lgs 50/2015, cioè il codice dei contratti, è letteralmente una palla al piede. Operatori, commentatori, amministrazioni pubbliche, imprese, lo dicono da sempre. Il codice dei contratti è un inno alla burocrazia, un Moloch che incombe sugli appalti, rendendoli farraginosi, oggetto di contenziosi infinti coltivati da interpretazioni giurisprudenziali che sul medesimo tema (si pensi al principio di rotazione) sono capaci di confliggere in modo insanabile e frontale, nonché da lievitazioni e superfetazioni normative, come le sfortunate Linee Guida.
Ogni volta che vi sia una necessità anche di gran lunga inferiore al livello di allarme ed emergenza determinati dal Covid-19, il codice dei contratti viene in tutto o in parte derogato, alleggerito, rivisto.
Speriamo si sia capito che quell’impianto va radicalmente rifatto, da zero. E che si sia capita la lezione: se si stabilisce che al di sotto di una certa soglia di spesa non è necessaria una gara o un confronto e non deve essere fornita la motivazione della scelta diretta del contraente, è perché la motivazione è dettata direttamente dalla legge ed è da ricavare nella pura e semplice fissazione della soglia di spesa al di sotto della quale non c’è gara. Punto. Esistendo MePa e altri mercati elettronici da cui trarre prezzi di riferimento, se il dirigente acquisti direttamente un bene o un servizio o aggiudichi un appalto manifestamente a prezzi fuori mercato, paghi penalmente, contabilmente e sia allontanato per sempre dai ruoli dell’amministrazione pubblica.
Ma, questo riguarda il futuro. L’oggi ci pone di fronte alla novità, la “deroga” al codice dei contratti. Che porta con sé due problemi:
1)      l’estensione della deroga;
2)      la legittimità della fonte di tale deroga.
Il primo problema deve rispondere alla domanda: “cosa” si deroga del codice dei contratti? Per come è scritta la norma, la risposta appare clamorosa, quanto inevitabile: si deroga all’intero codice dei contratti.
Non sembra che l’intento consista solo nel derogare alle procedure di gara, ma anche a tutto quel che precede e segue. Non c’è da fare capitolato, non c’è da costituire seggio di gara o commissione di gara, non c’è proposta di aggiudicazione, non c’è aggiudicazione, non vi sono clausole stand still, non vi sono comunicazioni infra e post gara, non vi sono verbali di inizio attività, stati di avanzamento, certificati di pagamento, certificati di regolare esecuzione. Non vi sono Cig, non vi sono versamenti all’Anac. Non vi sono verifiche ai sensi dell’articolo 80 del codice. Non v’è nemmeno tracciabilità finanziaria. Nulla.
E’ una deroga totale e completa. Se così non fosse, del resto, attivarsi “subito” e in modo che entro il 15 aprile giungano ai comuni le risorse a compensazione della spesa sostenuta (i comuni la anticipano, che sia chiaro), come prevede l’ordinanza, sarebbe materialmente impensabile, non solo impossibile.
D’altra parte, non è un vero e proprio contratto di fornitura ex codice dei contratti: il beneficiario non è il comune, ma i cittadini in condizioni di bisogno. E’ un contratto in favore di terzi, un intervento di sostegno finanziario, un vero e proprio contributo, che passa, però, attraverso l’acquisto di “titoli”, i buoni spesa, di esercizi commerciali alimentari.
Il vero problema è il secondo: la legittimità di un’ordinanza della Presidenza del consiglio dei ministri, dipartimento della Protezione civile, che consente una deroga così estesa al codice dei contratti. L’emergenza la giustifica e la rende sostenibile. Ma, è un salto nel buio.
Sul piano operativo, come agire, allora? E’ chiaro che alcuni elementi non possono mancare:
1.      l’atto di avvio dell’iter, con impegno della spesa e “chiamata a raccolta” dei fornitori;
2.      l’ulteriore eventuale atto di chiamata di soggetti chiamati a supporto, per la consegna dei buoni spesa;
3.      la sottoscrizione con i fornitori di una convenzione per l’acquisto dei buoni;
4.      l’individuazione dei destinatari;
5.      la consegna dei buoni;
6.      la rendicontazione.
Passiamo ad un esame veloce dei vari passaggi. L’avvio dell’iter passa per un provvedimento che:
a)      dia atto dell’ordinanza e del finanziamento previsto dall’ordinanza; si badi: i 300 (o 400) milioni previsti sono con vincolo di destinazione; nulla vieta, però, ai comuni di utilizzare altre risorse di bilancio e in particolare del fondo di solidarietà comunale, al quale confluiranno per cassa le anticipazioni decise dal Governo;
b)      stabilisca di individuare gli esercizi commerciali e di pubblicarli in uno specifico elenco posto nel sito istituzionale, in bell’evidenza;
c)      impegni la spesa;
d)      fissi i criteri generali per individuare i destinatari.
Di che atto si tratta? L’ordinanza della Protezione Civile, anche qui con ampia deroga all’ordine delle competenze fissato dalla normativa e, nel caso di specie, dal d.lgs 267/2000, stabilisce (nella bozza disponibile): “Il comune provvede con ordinanza del sindaco, su proposta del responsabile dell’ufficio preposto ai servizi sociali e del responsabile finanziario,  ad individuare la platea dei beneficiari tra i nuclei familiari più esposti ai rischi derivanti dall’emergenza epidemiologica da virus COVID-19, con priorità per quelli non già assegnatari di sostegno pubblico”.
E’ chiaro che questa disposizione è scritta da chi ha una cognizione estremamente sommaria delle competenze e funzioni negli enti locali.
Ad una prima lettura, la previsione potrebbe intendersi come attribuzione – derogatoria – al sindaco del potere di gestione, mediante l’atto monocratico suo tipico, l’ordinanza. Se si trattasse di questo atto, si dovrebbe ritenere che il riferimento non sia l’ordinanza prevista dall’articolo 50, comma 5, del Tuel, le cui materie poco hanno a che fare con la questione dell’erogazione dei buoni spesa, quanto, invece, dell’ordinanza di cui all’articolo 54, comma 4. L’idea dei buoni spesa è figlia, infatti, delle informative giunte al Ministero dell’interno sul concreto pericolo di disordini nelle città, dovuti appunto alla situazione di allarmante indigenza di molte famiglie: la possibilità di “assalti ai forni” è questione tipica di sicurezza urbana.
Una lettura, quindi, istintiva della previsione potrebbe portare a ritenere che sia il sindaco a provvedere all’attivazione della procedura, su proposta del responsabile dei servizi sociali e del ragioniere capo.
Quindi, l’ordinanza sarebbe il provvedimento di avvio e “a contrattare” con gli esercizi commerciali e perfino di impegno della spesa-
Ad un esame più attento, le cose non possono stare così. La disposizione della bozza è meno innovativa di quanto appaia: infatti, attribuisce all’ordinanza del sindaco il solo potere di individuare la platea dei soggetti destinatari; non di impegnare la spesa, né di avviare la “chiamata” degli esercizi commerciali.
In effetti, nel rispetto della separazione delle competenze tra organi di governo e gestione, disposta dall’articolo 4 del d.lgs 165/2001 e dall’articolo 107 del Tuel, al sindaco compete:
1.      l’indirizzo agli uffici, in particolare dei servizi sociali e finanziari, di innescare le procedure necessarie; indirizzo che può essere rivolto, ovviamente, anche a quelle altre strutture amministrative interne con competenze dirette, si pensi agli uffici per le gare e contratti o agli uffici per il commercio; l’indirizzo del sindaco è attuativo di una previsione generale, l’ordinanza, che attribuisce ai comuni risorse con vincolo di destinazione, quindi è doveroso in ogni caso per gli uffici apprestare quanto necessario, anche in assenza eventuale del Piano Esecutivo di Gestione e di indicazioni nel Documento Unico di Programmazione: l’emergenza è emergenza;
2.      l’adozione, con ordinanza, dell’elenco dei beneficiari, applicando i criteri di individuazione, proposti dai servizi sociali (proposti, ed evidentemente negoziati e condivisi col sindaco stesso).
L’atto di evidenza pubblica che, invece, impegna la spesa ed attiva la negoziazione con gli esercizi commerciali sarà una determina del dirigente o responsabile di servizio degli affari generali o amministrativi o di quell’altra unità amministrativa che nell’ente curi contratti e convenzioni.
Siamo, quindi, alla seconda fase, successiva all’impegno della spesa. Come individuare gli esercizi commerciali? Non è da fare alcuna gara, sarebbe oltremodo impensabile. Come sarebbe possibile mettere a confronto i costi di specifici generi alimentari tra loro, visto che i listini sono totalmente diversi? Inoltre, i cittadini che beneficeranno dei buoni spesa non sono certo liberi di andare a fare la spesa esattamente dove credono. Certo, la titolarità del buono induce a ritenere che gli spostamenti nel territorio dovranno considerarsi giustificati. Ma, è opportuno che i comuni attivino un elenco quanto più lungo possibile di esercizi commerciali dai quali acquisire buoni spesa, per favorire la massima prossimità territoriale alle famiglie.
Non c’è una gara sui prezzi. Si sa che un buono spesa vale 300 (o 400, nella bozza non si capisce) euro per nucleo. Gli esercizi commerciali dovranno accettare il titolo di spesa per il valore previsto.
Il modo più semplice consiste:
1.      nell’acquisire la disponibilità degli esercizi commerciali a far parte del progetto;
2.      nell’acquisto di carte prepagate emesse dagli esercizi commerciali, con le quali le famiglie potranno effettuare la spesa.
In realtà, si pone un problema operativo di non poco conto. Se esistesse una meta-carta prepagata del valore di 300-400 euro, spendibile presso qualsiasi esercizio commerciale, sarebbe l’optimum. Di fatto, il comune consegnerebbe alla famiglia una sorta di “buono pasto”, utilizzabile presso qualsiasi esercizio che lo accetti.
Questo meta-buono non esiste. A meno che non sia creato al volo, con l’acquisizione, da parte del comune, di una quantità di carte di credito prepagate magari emesse dal tesoriere. Ma, limitare la spesa di quelle carte ai soli esercizi commerciali alimentari è molto difficile (sebbene, con la chiusura forzata di moltissimi altri esercizi commerciali, non impossibile).
Di fatto, il sistema migliore sarebbe acquisire proprio buoni pasto emessi da qualche catena, caricati per un valore di 300 o 400 euro e permettere di spenderli dove meglio il nucleo familiare ritenga. Si permetterebbe la libera scelta dell’esercizio commerciale, che giustificherebbe ancor di più la scelta di derogare totalmente al codice dei contratti e qualificherebbe la “chiamata” degli esercizi commerciali come un accreditamento generale a farsi da tramite dell’erogazione di un contributo, il buono spesa, finalizzato e spendibile solo, appunto, per generi alimentari.
Altrimenti, l’acquisto di specifiche carte prepagate emesse dal singolo esercizio commerciale ha la scomodità di limitare la libertà di scelta e di veicolare le famiglie verso specifici esercizi.
E, poi: come vedremo meglio tra breve, i comuni potranno distribuire numeri molto contenuti di buoni spesa. Ma, se non si sa quali esercizi sono scelti dai nuclei, quanti ne dovrebbe acquisire, ciascun comune?
Andiamo ai numeri. Per i comuni fino a 5000 abitanti, la bozza di ordinanza prevede 20.000 di finanziamento. Facciamo che, all’ingrosso, un nucleo familiare sia costituito da 2,5 elementi: 5.000 diviso 2,5 fa 2000 nuclei familiari. Ipotizziamo di ridurli anche a 1500. Ma, 20.000 diviso 300, fa 66,6. Quindi, un comune di 5000 abitanti può erogare i buoni spesa (se non decide di incrementare con proprie risorse il finanziamento statale) a 66 famiglie, il 4,5% del totale di famiglie, se computato in 1500.
Un po’ poco. Ma ci torniamo dopo. Torniamo ai rapporti con gli esercizi commerciali. Se in 5 aderiscono, il comune per assicurare la libera scelta dovrà acquistare 66 buoni pasto da 300 per 5, dunque 330 buoni pasto.
Non potrà, allora, materialmente pagare subito gli esercizi. Questi dovranno mettere a disposizione ciascuno 66 buoni pasto precaricati. Il comune, nel momento in cui distribuisce, dovrà far esercitare ai nuclei familiari la scelta di quale tessera prepagata usare e consegnarle solo quella. Quindi, il comune restituirà agli esercizi commerciali le tessere non utilizzate e gli esercizi potranno “scaricarle” dell’importo.
Per non perdere tempo nella sottoscrizione della convenzione, è opportuno pensare a sistemi di adesione molto veloci: il comune pubblichi sul proprio sito una convenzione firmata digitalmente dal dirigente o responsabile di servizio; nella stessa pagina del sito, renda disponibile un modulo di accettazione per adesione, che il rappresentante legale compili e sottoscriva digitalmente, inviandolo alla pec dell’ente. In questo modo, l’ente costituisce automaticamente l’elenco degli aderenti, tenendo sempre aperta l’adesione, e non perde tempo per la sottoscrizione dell’atto, nella forma di scrittura privata, permettendone anche la sottoscrizione da remoto e rispettando le regole del distanziamento sociale.
La fase più delicata è l’individuazione dei destinatari, che, come si è visto prima, sono pochi, molto pochi.
La bozza di ordinanza espone solo due criteri molto astratti per determinare i beneficiari:
-          nuclei familiari più esposti ai rischi derivanti dall’emergenza epidemiologica da virus COVID-19,
-          priorità per quelli non già assegnatari di sostegno pubblico.
La maggiore o minore esposizione ai rischi non pare sia, in effetti, patrimonio conoscitivo né degli assistenti sociali, né dei responsabili dei servizi finanziari, né dei sindaci, ma di virologi e medici. Dunque, si tratta di un criterio difficilmente attuabile con senso scientifico; ci si può avvicinare col “buon senso”, tenendo conto della presenza nei nuclei di anziani, portatori di handicap, immunodepressi e similari altre situazioni, per altro non tutte conoscibili e conosciute. Il comune non è detto abbia questo patrimonio di dati, per altro in gran parte riservatissimi.
Il buono spesa dovrà essere assegnato a chi non goda già di “sostegno pubblico”. Per come è scritta la previsione, par di capire che debba trattarsi di qualsiasi “sostegno pubblico”. I comuni dovranno fare riferimento alle banche dati dei percettori di contributi ed erogazioni pubbliche, con le quali sono per altro avvezzi, da quando si gestisce il Rei. Ad esempio, Rei, Reddito di cittadinanza e altri contributi comunali o regionali sono da ritenere di ostacolo all’accesso al buono spesa.
Attenzione: per quanto sia ovvio, è opportuno ricordare che se il comune deve rendere pubblico l’elenco degli esercizi commerciali aderenti all’iniziativa, dovrà tenere strettamente riservati i dati dei beneficiari, visto che emergono dati soggetti a particolare trattamento (gli ex dati “super sensibili”).
Anche la distribuzione delle carte, quindi, dovrà avvenire nella maggiore discrezione e riservatezza possibile. Laddove il comune si avvalga di soggetti del terzo settore per compiere questa operazione, dovrà garantire che essi operino nel più stretto riserbo, per altro necessario per evitare tensioni sociali.
E’ opportuno che i comuni non si lascino tentare dall’individuare i casi mediante procedure “ad istanza di parte”. La riservatezza verrebbe messa a rischio e il rischio di contenziosi e ricorsi, che porrebbe poi il problema dell’accesso a dati così riservati, sarebbe molto più elevato di un sistema di individuazione “d’ufficio”, con conservazione agli atti della relazione tecnica dei servizi sociali sui criteri di individuazione dei destinatari. Sarà una fatica enorme, cui si accompagnerà un peso della scelta altrettanto grave, quanto la responsabilità connessa. Non un gran regalo, né ai sindaci, né ai responsabili dei servizi sociali.
Infine: gli enti che ancora non abbiano approvato il bilancio, come possono attivare questi buoni spesa?
Si potrebbe fare riferimento alle regole sulla gestione provvisoria, di cui all’articolo 163, comma 3, del Tuel, che ammettono la possibilità di impegnare spese “tassativamente regolate dalla legge”. Il fatto è che un’ordinanza, non è una legge. Occorrerebbe fare lo sforzo interpretativo di agganciare il precetto dell’ordinanza alle disposizioni di legge che essa a sua volta attua. Torniamo alla lacuna evidenziata sopra relativa alla Corte dei conti…
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