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11/03/2020 - Difetta dello jus postulandi il dirigente che assomma le funzioni di avvocato e quelle di responsabile della Polizia Locale

tratto da quotidianopa.leggiditalia.it
Difetta dello jus postulandi il dirigente che assomma le funzioni di avvocato e quelle di responsabile della Polizia Locale
di Vincenzo Giannotti - Dirigente Settore Gestione Risorse (umane e finanziarie) Comune di Frosinone;, Gianluca Popolla - Dottore in giurisprudenza - esperto enti locali
 
La vicenda
Un comune ha proposto ricorso presso la Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione contro una sentenza del Tribunale, in sede di Appello, con la quale si dichiarava la nullità dell'atto di appello proposto dall'ente comunale avverso la sentenza del Giudice di Pace che lo condannava al risarcimento del danno ex art. 2051 c.c. nei confronti della convenuta, nonché controricorrente, nel giudizio istaurato.
Quest'ultima, nel corso dell'appello, aveva eccepito in via preliminare la nullità del ricorso effettuato dall'ente locale per difetto dello "ius postulandi" dell'avvocato che rappresentava in giudizio l'ente locale, ai sensi dell'art. 23L. n. 247 del 2012, relativa alla "nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense", in quanto non solo dirigente dell'avvocatura comunale, ma anche del corpo della polizia locale. Tale eccezione è stata ritenuta fondata dal Tribunale sulla base dell'interpretazione di un'unica norma di legge: l'art. 23, comma 2, L. n. 247 del 2012. Secondo questa disposizione legislativa, infatti, al fine di poter gli enti pubblici essere rappresentati da proprio personale, gli enti pubblici "presentano la deliberazione dell'ente dalla quale risulti la stabile costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell'ente stesso e l'appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato in forma esclusiva di tali funzioni; la responsabilità dell'ufficio è affidata ad un avvocato iscritto nell'elenco speciale che esercita i suoi poteri in conformità con i principi della legge professionale". Altra specificità è, inoltre, espressa dal successivo comma 3 del citato articolo secondo cui "Gli avvocati iscritti nell'elenco sono sottoposti al potere disciplinare del consiglio dell'ordine".
Il comune si è appellato avverso tale decisione affidandosi a due motivi di censura.
In via principale il comune ricorrente ha dedotto il vizio di violazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3 del codice di procedura civile. Infatti, nel caso di specie la violazione ha come punto di riferimento oggettivo l'art. 23L. n. 247/2012, in relazione alla norma dell'art. 1, comma 221L. n. 208/2015 (cd. "legge di stabilità 2016"). La finalità di tali disposizioni è quella di "garantire flessibilità agli enti che subiscono le maggiori contrazioni derivanti dall'applicazione delle leggi di bilancio sul contenimento delle spese" e riguarda in particolar modo il livello dirigenziale; in conseguenza di ciò sarebbe, a dire del ricorrente, sacrificabile il criterio dell'esclusività delle funzioni di avvocato in nome del risparmio della spesa pubblica, nel momento in cui ricorrano circostanze eccezionali. Pertanto, sussistendo tali condizioni la norma consentirebbe ad un'unica persona di essere contestualmente titolare delle cariche di avvocato del comune e comandante della polizia municipale.
Con il secondo motivo di censura, il comune ha dedotto la violazione dell'art. 23L. n. 247/2012 e degli artt. 8283 e 182 c.p.c. che disciplinano rispettivamente il patrocinio, la procura alle liti e il difetto di rappresentanza. Ha sostenuto, infatti, il ricorrente che il Tribunale, in sede di appello, sarebbe entrato in maniera del tutto impropria nel merito della stessa iscrizione all'albo, rilevando quel conflitto di interessi del difensore dal quale sarebbe derivato il difetto di ius postulandi sollevato dall'attuale controricorrente nel secondo grado di giudizio.
All'attenzione della Corte è stata anche sottoposta la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23 già citato, in relazione agli artt. 2 e 13 della stessa legge (la L. n. 247 del 2012) e in rapporto agli artt. 397 e 98 della Costituzione.
Le precisazioni della Corte Suprema
La Sesta Sezione civile della Corte di Cassazione si è pronunciata nel senso dell'inammissibilità del ricorso, perché questo non rispetta il requisito specifico (di natura - forma) della sommaria esposizione dei fatti, la cui mancanza ai sensi dell'art. 366, comma 1, n. 3, del codice di procedura civile, è causa di inammissibilità. Nel caso di specie il Giudice supremo ha ravvisato che nell'esposizione dei fatti il comune abbia omesso molti aspetti, tra cui l'indicazione dei fatti costitutivi della domanda, le ragioni della difesa del convenuto, le modalità di svolgimento del giudizio di primo grado, nonché le ragioni della decisione con cui è culminato tale grado di giudizio. Nello specifico ha sottolineato la Sezione Civile, "non si conosce nessun elemento riguardo alla natura del giudizio, al rito e all'oggetto della causa, ad eccezione della eccezione di nullità del ricorso in appello per difetto dello ius postulandi".
Inoltre, pur volendo accogliere l'orientamento che consente di valutare, oltre alla parte dedicata alla sommaria esposizione dei fatti, anche il contesto dell'atto (in tal senso Cass. n. 17036 del 28 giugno 2018) attraverso lo svolgimento dei motivi, il loro contenuto è esclusivamente riferito alla questione di natura processuale dello ius postulandi e non fornisce alcun'altra indicazione sull'iter del processo. Ha specificato la Corte di Cassazione, infatti, che "in particolare rimane ignota la conoscenza dei fatti costitutivi della domanda, il rito adottato, l'oggetto della causa e le modalità di svolgimento del processo di primo grado e le ragioni della decisione del Giudice di pace, ad eccezione della eccezione di nullità del ricorso in appello per difetto dello ius postulandi", ragioni per cui il ricorso presentato in questa sede dal ricorrente è stato considerato dalla stessa inammissibile.
La decisione della Corte
Per i motivi sopra esposti la Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione, con ordinanza, ha dichiarato inammissibile il ricorso e pertanto ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente.
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