10/03/2020 - Pubblicazione e divulgazione dei dati personali patrimoniali e reddituali dei dirigenti pubblici fra giurisprudenza costituzionale e contraddizioni del legislatore
riceviamo e pubblichiamo un articolo del collega Daniele Perotti
Pubblicazione e divulgazione dei dati personali patrimoniali e reddituali dei dirigenti pubblici fra giurisprudenza costituzionale e contraddizioni del legislatore
(con una digressione sui Segretari comunali)
La sentenza della Corte Costituzionale n. 20 del 2019 ha reso necessario l’intervento del legislatore che col comma 7 dell’art. 1 del d.l.30/12/2019, n. 162, convertito con modifiche nella legge 28/2/2020, n. 8 (c.d. “Milleproroghe”), ha disposto l’emanazione di un regolamento, da adottarsi entro il 31 dicembre 2020, che dovrà contenere la disciplina degli obblighi di pubblicazione da parte delle pubbliche amministrazioni di compensi, redditi e patrimoni dei rispettivi organi amministrativi di vertice nonché dei titolari di incarichi dirigenziali.
Già attraverso il d.l. 162/2019 il legislatore aveva esercitato le sue prerogative fornendo gli indirizzi fondamentali destinati alla disciplina regolamentare che dovrà applicare quanto previsto dall’art. 14 del D.Lgs 33 del 2013 e, con riferimento al percorso argomentativo sviluppato dalla Corte Costituzionale, aveva preso atto della necessità di una revisione complessiva della disciplina stante la manifesta sproporzione del congegno normativo in materia di trasparenza dei dati e delle informazioni sulla dirigenza pubblica almeno ove applicato alla totalità dei titolari d’incarichi dirigenziali senza alcuna differenziazione.
In sede di conversione del decreto il legislatore ha ridefinito la norma in modo più articolato e diverso rispetto all’originario testo stabilendo infatti che, nelle amministrazioni dello Stato, ai titolari di incarico di Segretario generale di ministeri, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali, nonché di funzione dirigenziale di livello generale (come previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001) continua a trovare piena applicazione la disciplina sugli obblighi di pubblicazione prevista dall’articolo 14 del decreto legislativo n. 33 del 2013.
La Corte costituzionale, con la ricordata sentenza, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. La lettera f) comma 1 prevede infatti la divulgazione, da parte delle amministrazioni pubbliche, di un cospicuo numero di dati personali da rendersi da parte di tutte le figure dirigenziali sui rispettivi diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società, l'esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società con l'apposizione della formula "sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero" nonché la divulgazione di una copia dell'ultima dichiarazione dei redditi soggetti all'imposta sui redditi delle persone fisiche. Tutto ciò esteso anche al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado ove essi lo consentissero. La Consulta ha osservato che siffatta disposizione legislativa non risponde alle due condizioni richieste dal test di proporzionalità e cioè impone di oneri non sproporzionati rispetto ai fini perseguiti, e non sceglie la misura meno restrittiva dei diritti che si fronteggiano.
In sede di conversione del decreto legge 162, e per quanto concerne la materia qui in esame, si è assistito al sostanziale ribaltamento di una parte significativa dei contenuti originari della norma laddove prevedeva che le informazioni di cui all'articolo 14, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 divenissero, per tutti i dirigenti senza distinzione di posizione, oggetto esclusivamente di comunicazione all'amministrazione di appartenenza, e non più di divulgazione tramite pubblicazione.
Nella parte motiva della sentenza il Giudice delle leggi aveva affermato che la graduazione e l’individuazione del bilanciamento fra tutela dei dati personali e interesse pubblico alla loro conoscenza nella materia in questione, deve essere prerogativa del legislatore. Sostiene infatti la Consulta che: «Non spetta a questa Corte indicare la soluzione più idonea a bilanciare i diritti antagonisti, rientrando la scelta dello strumento ritenuto più adeguato nella ampia discrezionalità del legislatore».
E il legislatore fra contenuti del decreto legge e quelli della sua conversione è passato da un estremo all’altro: dalla inibizione della divulgazione, per tutti i dirigenti, delle informazioni oggetto di pronuncia della Corte, alla conferma della previsione di una integrale divulgazione, per quanto, appunto, limitatamente ai soggetti individuati dall’articolo 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001.
La questione principale, come nella sentenza ha infatti più volte sottolineato la Consulta, evidenziando il contrasto della normativa censurata con l’art. 3 della Carta fondamentale, è stata l’assenza di distinzioni all’interno della categoria dei dirigenti pubblici, col vincolo per tutti i titolari di tali incarichi, senza alcuna distinzione fra di essi, a pubblicare le dichiarazioni e le attestazioni di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013. Infatti il legislatore non ha a suo tempo previsto alcuna differenziazione in ordine al livello di potere decisionale o gestionale fra i dirigenti pubblici mentre è palese che tale livello non può che influenzare, sia la gravità del rischio corruttivo che le conseguenti necessità di trasparenza e informazione. La norma avrebbe invece, perlomeno dovuto operare distinzioni rispetto alla pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare, in rapporto al grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle relative funzioni.
In sostanza la Corte osserva che la disposizione in questione finisce per risultare in contrasto con il principio per cui, «nelle operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango» (sentenza Corte Cost. n. 143 del 2013). Nel caso in questione, alla compressione – indiscutibile – del diritto alla protezione dei dati personali non corrisponde un paragonabile incremento né della tutela del contrapposto diritto dei cittadini ad essere correttamente informati, né dell’interesse pubblico alla prevenzione e alla repressione dei fenomeni di corruzione.
E questo accade, in primo luogo, e sempre secondo la Corte, perché i dati oggetto della norma non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato come è invece per i dati di cui alle lettere c), d) ed e) dell'articolo 14, comma 1. Essi infatti offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare. E neppure può costituire viatico alla pubblicazione l’eliminazione di dati personali sensibili, sussistendo comunque la divulgazione indiscriminata di un pur sempre ampio ventaglio di informazioni e dati personali di natura reddituale e patrimoniale contenuti nella documentazione oggetto di pubblicazione senza che ciò appaia necessario e proporzionato rispetto alle finalità perseguite dalla legislazione sulla trasparenza. In sostanza gli esiti della normazione censurata, piuttosto che ad una reale efficacia anticorruttiva, sono decisamente più ascrivibili al soddisfacimento di un interesse ben lontano da quello della partecipazione politica. Come ha ricordato la giurisprudenza europea «The public interest cannot be reduced to the public’s thirst for information about the private life of others, or to an audience’s wish for sensationalism or even voyeurism» (1).
E questo accade, in primo luogo, e sempre secondo la Corte, perché i dati oggetto della norma non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato come è invece per i dati di cui alle lettere c), d) ed e) dell'articolo 14, comma 1. Essi infatti offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare. E neppure può costituire viatico alla pubblicazione l’eliminazione di dati personali sensibili, sussistendo comunque la divulgazione indiscriminata di un pur sempre ampio ventaglio di informazioni e dati personali di natura reddituale e patrimoniale contenuti nella documentazione oggetto di pubblicazione senza che ciò appaia necessario e proporzionato rispetto alle finalità perseguite dalla legislazione sulla trasparenza. In sostanza gli esiti della normazione censurata, piuttosto che ad una reale efficacia anticorruttiva, sono decisamente più ascrivibili al soddisfacimento di un interesse ben lontano da quello della partecipazione politica. Come ha ricordato la giurisprudenza europea «The public interest cannot be reduced to the public’s thirst for information about the private life of others, or to an audience’s wish for sensationalism or even voyeurism» (1).
Sono state espresse dunque dalla Corte, con elegante linearità argomentativa, censure sulle tare ben evidenti nella norma fin dal suo esordio (avvenuto con l’inserimento del comma 1 bis all’art. 14 del D.lgs. 33/2013 operato dal D.lgs. 97/2016), nonostante abbia goduto e continui a godere di sostegno ad opera di certa stampa più incline a stimolare i borborigmi di platee semplici che a soffermarsi sulle asperità di un terreno nel quale risultano in connessione – e talvolta anche in visibile tensione – diritti delle persone e principi fondamentali, contemporaneamente tutelati sia dalla Costituzione italiana che dal diritto europeo, primario e derivato (2).
Alla luce di ciò, il delicato compito demandato dal legislatore alla attività regolamentare, tenendo anche conto delle modifiche al testo normativo in sede di conversione, sarà dunque identificare e graduare gli incarichi dirigenziali affinché gli obblighi di trasparenza contemperino in modo equilibrato il diritto dei cittadini alla conoscenza a fini di controllo democratico con una adeguata tutela dei dati personali senza che la compressione di questi ultimi sia priva di adeguata giustificazione e integri un contrasto con il principio di proporzionalità giacché non può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali. (3)
In particolare dovrà essere individuata per i titolari amministrativi di vertice e i titolari di incarichi dirigenziali e assimilabili, la graduazione delle informazioni da pubblicare relative al curriculum e agli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica compresa l’indicazione dei compensi spettanti. Tale graduazione sarà basata sul rilievo esterno dell'incarico svolto, sul livello di potere gestionale e decisionale esercitato correlato all'esercizio della funzione dirigenziale tenuto anche conto della complessità della struttura cui è preposto il titolare dell'incarico. Restano quindi fuori dall’intervento regolamentare, non avendo subito variazione alcuna, l’obbligo di integrale pubblicazione: dell’atto di nomina, dei compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica con gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici, dei dati relativi alla assunzione di altre cariche presso enti pubblici o privati ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti. E resta fermo per tutti i titolari di incarichi dirigenziali l'obbligo di comunicazione dei dati patrimoniali e reddituali al relativo ente di appartenenza.
Appare invece il prodotto di una maldestra interpolazione nel testo originario, la modifica introdotta dal legislatore, sempre in sede di conversione del decreto legge 162/2019, secondo la quale, nel redigendo regolamento, i dati di cui all'articolo 14, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, potranno essere oggetto anche di sola comunicazione all'amministrazione di appartenenza.
Comunque la si voglia interpretare questa disposizione confligge o con quanto in precedenza affermato dallo stesso legislatore oppure con la sentenza della Corte costituzionale 20/2019. Come già ricordato infatti è stato previsto, in sede di conversione del decreto legge 162/20019, che continui a trovare piena applicazione la disciplina sugli obblighi di pubblicazione di cui all’articolo 14 del decreto legislativo n. 33 del 2013, per l’altissima dirigenza individuata dall’articolo 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001. Se per tali figure trovano piena applicazione tutti gli obblighi di pubblicazione quindi anche quelli del comma 1, lettera f) non si comprende come, poche righe dopo, nello stesso testo legislativo, questi ultimi possano divenire facoltativi.
Né si può pensare che il riferimento alla facoltà in questione possa essere riferita alle altre tipologie dirigenziali perché ciò confliggerebbe con la pronuncia della Corte costituzionale che, è il caso di ribadirlo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, aggiungendo altresì, con riferimento a questi ultimi, come anche rispetto ad essi appaia «non irragionevole», una temperata e rivista forma di pubblicazione.
A confermare la regola su tutti gli obblighi di pubblicazione per l’altissima dirigenza, e quindi l’evidente antinomia di cui sopra, è l’attenzione particolare posta dal legislatore nell’indicare e circoscrivere le possibili eccezioni, attraverso la lettera c) del comma 7, art. 1 del d.l. 30/12/2019, n. 162 con deroghe su un’ampia platea di dirigenti dell'amministrazione dell'interno, degli affari esteri e della cooperazione internazionale, delle forze di polizia, delle forze armate e dell'amministrazione penitenziaria.
Sullo sfondo del contradditorio scenario normativo ridisegnato dal legislatore, si collocano le deliberazioni n. 586, n. 1126 e n.1202 inopportunamente assunte fra il giugno e il dicembre 2019 dall’Autorità nazionale anticorruzione nonostante la Corte Costituzionale il, cui intervento è peraltro più volte richiamato negli atti in questione, avesse con estrema chiarezza ricordato che la graduazione e il bilanciamento della disciplina in siffatta delicata materia sia prerogativa del legislatore. Testualmente ha affermato infatti il giudice delle leggi: «Appartiene alla responsabilità del legislatore, nell’ambito dell’urgente revisione complessiva della materia, sia prevedere eventualmente, per gli stessi titolari degli incarichi dirigenziali indicati dall’art. 19, commi 3 e 4, modalità meno pervasive di pubblicazione, rispetto a quelle attualmente contemplate dal d.lgs. n. 33 del 2013, sia soddisfare analoghe esigenze di trasparenza in relazione ad altre tipologie di incarico dirigenziale, in relazione a tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali».
Il caso poi della deliberazione 1202 del 18 dicembre 2019 costituisce testimonianza emblematica di un approccio fondato su una superficiale valutazione di ruolo e funzioni del Segretario comunale.
ANAC giunge infatti alla conclusione che le funzioni del Direttore e del Segretario comunale o provinciale implicano l’esercizio di compiti propositivi, organizzativi, di gestione di risorse umane e strumentali, di elevatissimo rilievo, tipici delle figure dirigenziali di livello apicale, analogamente a quelle di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 19 del d.lgs. 165/2001, che, nell’ottica della sentenza della Corte Costituzionale n. 20/2019, sono presupposto per l’applicazione dell’art. 14, co. 1, lett. f). E ritiene di trovare una conferma a tale tesi nella sentenza della Corte Costituzionale n. 23/2019 che ha confermato l’apicalità della figura del Segretario comunale e il suo delicato ruolo istituzionale. Con l’eccezione significativa dei Segretari comunali operanti nei comuni inferiori ai 15.000 abitanti.
Nelle argomentazioni ANAC, al di là del riferimento ai 15.000 abitanti, quale soglia demografica sotto la quale i Segretari comunali verrebbero esclusi dall’applicazione dell’art. 14, co. 1, lett. f), la tesi sostenuta a giustificazione degli obblighi più estesi di pubblicazione per assimilazione dei Segretari comunali agli altissimi dirigenti dello Stato, è che essi sarebbero titolari di compiti propositivi, organizzativi, di gestione di risorse umane e strumentali, di elevatissimo rilievo.
Occorre allora interrogarsi su cosa si debba intendere per compiti propositivi e di gestione di risorse umane e strumentali. Negli enti di grandi dimensioni il Segretario generale sovraintende alla dirigenza con funzioni di alta organizzazione, di coordinamento, controllo, garanzia e raccordo con gli organi politici ma sono i dirigenti ad avere la titolarità diretta della gestione di risorse umane e strumentali senza essere sottoposti ad alcuna dipendenza gerarchica nei confronti del Segretario generale il quale peraltro, conseguentemente, non è titolare dei poteri di avocazione tipici del rapporto gerarchico nei confronti della dirigenza dell’ente locale (4).
E’ per questo che, ancorchè il Segretario generale rappresenti il soggetto dirigenziale apicale quindi di massimo rilievo degli enti locali (si trascura qui la figura numericamente marginale del Direttore generale presente nel solo 0,3% dei Comuni italiani) esso non è un dirigente sovrapponibile o assimilabile ai dirigenti di cui ai commi 3 e 4, art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. E pertanto, essendo in gioco proprio quelle esigenze di ragionevolezza e proporzionalità su cui si è magistralmente soffermata la Corte costituzionale, sono decisamente da respingere disinvolte equiparazioni e assimilazioni fra figure e ruoli molto diversi come invece ha fatto ANAC.
Ciò dovrà indurre, in sede di redazione del regolamento previsto dall’ art. 1 c. 7 del d.l. 162/2019, ad una valutazione molto attenta ed equilibrata della posizione dei Segretari comunali essendo, fra l’altro, compito del legislatore, come ha ricordato la Consulta, valutare modalità meno pervasive di pubblicazione, anche per quegli incarichi dirigenziali, relativi a pubbliche amministrazioni non statali, fra cui si collocano appunto i Segretari comunali.
Daniele Perotti
(1) Grande camera della Corte EDU, sentenza 8 novembre 2016, Magyar contro Ungheria.
(2) Per tutti, di Gian Antonio Stella: “La battaglia per dare meno dati sui beni: stop alla trasparenza” Corriere della Sera del 14 aprile 2017. Per completezza si fa rinvio ad una replica: https://www.segretaricomunalivighenzi.it/16-04-2017-articolo-di-stella-le-considerazioni-del-collega-daniele-perotti
(3) Corte di giustizia dell’Unione europea, Sentenza 9 novembre 2010, nelle cause riunite C-92/09 e 93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert.
(4) La questione è stata trattata in modo articolato ed esaustivo dalla Corte la Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Puglia nella sentenza 489/2019 del 21 marzo 2019. Vedasi in proposito https://www.segretaricomunalivighenzi.it/26-08-2019-sull2019illegittima-attribuzione-di-funzioni-di-amministrazione-attiva-ai-segretari-comunali