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05/06/2020 - I contratti di swap stipulati dal Comune devono essere approvati dal Consiglio Comunale

tratto da quotidianopa.leggiditalia.it
I contratti di swap stipulati dal Comune devono essere approvati dal Consiglio Comunale
di Federico Gavioli - Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
 
I contratti di interest rate swap stipulati da un Comune con un importante istituto di credito sono nulli perché non hanno ricevuto l'approvazione del consiglio comunale; la Corte di Cassazione, sezione civile, con la sentenza n. 8770, del 12 maggio 2020, ha respinto il ricorso di una banca nei confronti di un ente locale.
Il contenzioso
Il Tribunale aveva respinto le domande che il Comune aveva proposto nei confronti di banca in riferimento ad alcuni contratti di interest rate swap, conclusi fra le menzionate parti in tre diverse date (il 15 maggio 2003, il 1° dicembre 2003 e il 22 ottobre 2004), e rivolte alla declaratoria della nullità, all'annullamento, o all'accertamento dell'inefficacia sopravvenuta ex D.M. 1° dicembre 2003, n. 389, dei predetti negozi.
La Corte di appello accogliendo il gravame dell'Ente ed in riforma dell'anzidetta decisione, ha dichiarato la nullità e l'inefficacia dei contratti menzionati, che pure ha annullato, e ha disposto, poi, la ripetizione degli importi, di tempo in tempo, corrisposti dalla Banca al Comune fino al 30 gennaio 2010.
La Corte territoriale ha:
a) ritenuto fondato il rilievo del Comune per il quale il contratto di swap ed in particolare - ma non solo - quello che prevede una clausola di iniziale upfront, costituisse, proprio per la sua natura aleatoria, una forma di indebitamento per l'ente pubblico, attuale o potenziale;
b) aggiunto che in nessuno dei contratti al suo esame figurava la determinazione del valore attuale degli stessi al momento della stipulazione (cd. mark to market), che un'attenta e condivisibile giurisprudenza di merito riteneva «elemento essenziale dello stesso ed integrativo della sua causa tipica (un'alea razionale e quindi misurabile) da esplicitare necessariamente ed indipendentemente dalla sua finalità di copertura (hedging) o speculativa»;
c) osservato che la potenziale passività insita in ogni contratto di swap trova una sua evidenza concreta ed attuale nella clausola di upfront, in fatto presente in due dei tre rapporti sostanziali oggetto di giudizio.
Ha ritenuto poi fondato il rilievo del Comune per il quale, ex art. 42, comma 2, lett. i), TUEL (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con D.Lgs. n. 267 del 2000), le delibere di accensione degli swap dovessero essere assunte dal consiglio comunale, in quanto prevedevano spese che impegnano i bilanci per gli esercizi successivi. E, a tale ultimo proposito, ha rilevato che la speciale delibera consiliare del 27 marzo 2003 prevedeva una mera «linea di indirizzo», successivamente posta in atto dalla giunta e dal dirigente, quanto al primo contratto; e solo da determinazione dirigenziale, per i successivi.
Contro la sentenza sfavorevole la Banca ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, contro cui ha resistito il Comune che, a sua volta, ha spiegato ricorso incidentale condizionato, basato su di un motivo.
L'analisi della Cassazione
La Cassazione osserva che il ricorso pone due questioni, strettamente connesse, che sono centrali per vagliare la validità dei contratti di swap conclusi, in generale, dai Comuni:
- quella relativa alla possibilità di qualificare l'assunzione dell'impegno dell'ente locale che stipuli il contratto avente ad oggetto il nominato derivato come indebitamento finalizzato a finanziare spese diverse dall'investimento;
- quella concernente l'individuazione dell'organo chiamato a deliberare un'operazione siffatta (che nel caso in esame è stata disciplinata dal consiglio comunale solo attraverso «linee di indirizzo»);
- e che, con riguardo al primo dei temi indicati, ci si deve chiedere se, nel periodo che interessa, fosse consentita la conclusione di contratti derivati da parte degli enti locali.
La Cassazione osserva che la materia dei derivati, che interessa varie branche del diritto, è oggetto dell'attenzione di dottrina e giurisprudenza da anni, risultando controversa anche l'esistenza di una definizione unificante del fenomeno dei derivati. Infatti, la mancanza nel nostro ordinamento di una definizione generale di «contratto derivato» si spiega con la circostanza che i derivati sono stati creati dalla prassi finanziaria e, solo in seguito, sono stati in qualche misura recepiti dalla regolazione del sistema giuridico. La notevole varietà delle fattispecie che concorrono a formare la categoria dei derivati rende, però, complessa l'individuazione della ricercata nozione unitaria, dovendosi tenere conto che il fenomeno è forse comprensibile in maniera globale solo in un'ottica economica.
L'interest rate swap è definito come un derivato cd. over the counter (OTC) ossia un contratto:
a) in cui gli aspetti fondamentali sono dati dalle parti e il contenuto non è eteroregolamentato come, invece, accade per gli altri derivati, cd. standardizzati o uniformi, essendo elaborato in funzione delle specifiche esigenze del cliente (per questo, detto bespoke);
b) perciò non standardizzato e, quindi, non destinato alla circolazione;
c) consistente in uno strumento finanziario rispetto al quale l'intermediario è tendenzialmente controparte diretta del proprio cliente.
Come per molti derivati, soprattutto quelli OTC, lo swap, non ha le caratteristiche intrinseche degli strumenti finanziari, e particolarmente non ha la cd. negoziabilità, cioè quella capacità di rappresentare una posizione contrattuale in forme idonee alla circolazione, in quanto esso tende a non divenire autonomo rispetto al negozio che lo ha generato. Inoltre, benché siano stipulati nell'ambito della prestazione del servizio di negoziazione per conto proprio, ex art. 23, comma 5, Tuf, nei derivati OTC l'intermediario stipula un contratto (con il cliente) ponendosi quale sua controparte.
In ordine all'organo comunale tenuto ad autorizzare il ricorso a tali strumenti , osserva la Cassazione, la dottrina e la giurisprudenza attribuiscono, in grande prevalenza e condivisibilmente, la relativa competenza al Consiglio comunale.
Più in generale, si tratta di valutare sia il caso della ristrutturazione dei debiti da parte dei Comuni e sia quello del loro finanziamento mediante la previsione di una clausola di upfront: se in entrambi i casi si tratti o meno di una forma d'indebitamento e, quindi, di materia di competenza consiliare. Poiché, com'è noto, l'art. 42, comma 2, lett. i), TUEL, stabiliva che «Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (...) spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi, escluse quelle relative alle locazioni di immobili ed alla somministrazione e fornitura di beni e servizi a carattere continuativo».
A favore della scelta consiliare, oltre che le condizioni sostanziali di tali forme di finanziamento, depone anche la necessità di assicurare il coinvolgimento degli schieramenti assembleari di minoranza, i quali sono chiamati ad esercitare un controllo sull'operazione finanziaria. Infatti, la possibilità che i contratti derivati oggetto del contendere, seppur pattuiti da un Comune con lo scopo di rinegoziare in termini più favorevoli i mutui precedenti, comportino spese per l'amministrazione che li stipula e che tali spese gravino a carico degli esercizi successivi a quello di sottoscrizione del contratto è un'eventualità non remota, ma connaturata alla natura aleatoria del negozio.
L'organo consiliare deve valutare la convenienza di operazioni che porranno vincoli all'utilizzo di risorse future, precisando che l'attività negoziale dell'ente territoriale deve avvenire secondo le regole della contabilità pubblica che disciplinano lo svolgimento dei compiti propri dell'ente che utilizza risorse della collettività. Pertanto, ove il Comune intenda procedere ad un'operazione di ristrutturazione del debito, deve individuare le principali caratteristiche e le modalità attuative di essa e, poi, selezionare con una gara la migliore offerta in relazione non solo allo scopo che mira a raggiungere, ma anche alle modalità che vuole seguire, dovendo la P.A. conformare la sua azione ai principi di economicità e convenienza economica.
La Cassazione evidenzia che deve tenersi conto che gli enti locali erano obbligati a concludere swaps con fini di copertura dichiarati. Ciò significa che era presente un collegamento negoziale ex lege e che tale circostanza rendeva necessario l'intervento del Consiglio comunale, poiché il contratto precedente era comunemente un mutuo e, dunque, il collegamento in questione riguardava atti che costituivano indebitamento.
Per la Cassazione non è censurabile la sentenza impugnata che ha ritenuto pienamente fondato il rilievo del Comune per il quale il contratto di swap ed in particolare - ma non solo - quello che prevedeva una clausola di iniziale upfront, costituisse, proprio per la sua natura aleatoria, una forma di indebitamento per l'ente pubblico, attuale o potenziale.
In conclusione il ricorso principale, complessivamente infondato deve essere respinto.
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