22/04/2020 - L’esecuzione dei contratti ai tempi del coronavirus
tratto da quotidianogiuridico.it
L’esecuzione dei contratti ai tempi del coronavirus
martedì 21 aprile 2020
di Bergamaschi Marco - Avvocato in Milano
L’emergenza epidemiologica causata dal Covid-19 in Italia e la conseguente legislazione con cui il Governo ha imposto misure restrittive volte a contenere la diffusione del contagio stanno avendo significative ripercussioni sui contratti in corso di esecuzione. Dopo avere ripercorso le discipline codicistiche della impossibilità sopravvenuta, della eccessiva onerosità e della presupposizione, l’autore offre alcune prime riflessioni, arricchite da spunti dottrinali e precedenti giurisprudenziali, con specifico riguardo alla vendita, all’appalto e alla locazione, nel tentativo di delineare le conseguenze giuridiche della predetta emergenza su tali tipologie contrattuali in corso di esecuzione.
La situazione contingente in Italia
Sulla scorta del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e dei successivi provvedimenti legislativi, il Governo Italiano ha imposto sull’intero territorio nazionale l’adozione di misure restrittive volte a contenere la diffusione del cosiddetto “Coronavirus” (di seguito “Covid-19”). Benché la situazione epidemiologica e dunque legislativa, sociale ed economica sia in evoluzione, la predette misure restrittive – quali, ricordiamo, la limitazione degli spostamenti delle persone fisiche, l’obbligo di mantenere la distanza interpersonale di un metro, la chiusura degli esercizi commerciali diversi da quelli indicati nell’Allegato 1 al DPCM 11 marzo 2020 e delle attività produttive non essenziali (DPCM 22 marzo 2020) – e, più in generale, la psicosi da contagio ingeneratasi fra i consumatori, la minore propensione al consumo e il crollo del flusso turistico internazionale si configurano come avvenimenti di carattere straordinario e imprevedibile anche noti come “entelechiani”, ossia fatti nuovi il cui verificarsi non è predicibile, né tanto meno dipendente dalla volontà dell’uomo (Demaria, Trattato di logica economica, Padova, 1974, 39-40 secondo cui, appunto, “in sostanza, vi sono sempre, in natura, dei fatti nuovi che accadono, la cui determinazione a priori è del tutto impossibile. Tali, nel mondo economico, le guerre, le carestie, le epidemie, i terremoti, le invenzioni, i mutamenti della moda, […Omissis…]. Chiamiamo questi fatti nuovi, fatti entelechiani”), scientificamente rilevanti per il diritto.
Ai fini del presente lavoro – frutto di preliminari e provvisorie riflessioni in attesa di proficui sviluppi dottrinali e giurisprudenziali – il Covid-19 e il conseguente apparato normativo emergenziale verranno considerati nello spettro della sola materia contrattuale, con particolare riguardo all’incidenza degli stessi sui contratti in corso di esecuzione. Si conclude la disamina con specifico riguardo ai più comuni schemi causali: vendita (con cenni anche alla concessione e alla somministrazione), appalto e locazione (e affitto d’azienda).
Forza maggiore, caso fortuito, factum principis
La normativa introdotta dal Legislatore a seguito dell’emergenza epidemiologica non disciplina gli effetti che l’emergenza stessa ha generato sui contratti in corso di esecuzione, eccezion fatta per:
(i) i contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo nelle acque interne e terrestre (art. 28, D.L. 2 marzo 2020, n. 9) e
(ii) i contratti di soggiorno e i contratti per l’acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi di cultura (art. 88 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18) dichiarati risolti di diritto con conseguente obbligo di rimborso ai clienti di quanto già eventualmente pagato.
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Per il resto, occorre rifarsi alla disciplina generale del Codice Civile; e proprio in questo senso è da interpretarsi l’art. 91, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 che ha introdotto il comma 6-bis all’art. 3 del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 secondo cui “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardi o omessi adempimenti”. La norma in esame, il cui contenuto appare tutto sommato ovvio, funge da (mero) indicatore della potenziale applicabilità della disciplina dell’impossibilità sopravvenuta (su cui ci si soffermerà nel paragrafo successivo) nelle fattispecie che verranno portate alla cognizione dell’Autorità Giudiziaria (Cfr. Dolmetta, Rispetto delle misure di contenimento della pandemia e disciplina dell’obbligazione, in IlCaso.it, 2020).
Ciò premesso, l’art. 1218 cod. civ., norma di portata generale giustamente richiamata dal predetto comma 6-bis di cui sopra si è fatto cenno, prevede che “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. In sintesi, è noto che il debitore vada esente da responsabilità se prova che
(i) la prestazione dovuta è divenuta oggettivamente impossibile e
(ii) tale impossibilità dipende da una causa “esterna” alla volontà del debitore stesso; ed è parimenti noto che la “causa impeditiva dell’adempimento” vada ricercata in un evento di carattere straordinario, imprevedibile e inevitabile, che può essere classificato, di volta in volta, come (a) caso fortuito (i.e. la fatalità, come un terremoto o una frana), (b) forza maggiore (i.e. la forza della natura, come nel caso del vento che ribalta un natante, o il fatto del terzo) o (c)factum principis (i.e. un provvedimento della Pubblica Autorità).
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L’impossibilità sopravvenuta ad adempiere
L’art. 1218 c.c. deve essere letto in uno con l’art. 1256, comma 1, c.c. che idealmente lo affianca prevedendo la conseguenza del verificarsi dell’impossibilità ad adempiere determinata da causa non imputabile, ovverossia l’estinzione dell’obbligazione nonché, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1463 e 1458 c.c., la risoluzione de iure del contratto. La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che entrambe le parti sono legittimate a far valere la risoluzione del contratto ex art. 1463 c.c.: il debitore, prestatore della prestazione divenuta impossibile per il verificarsi di una “causa esterna”; e il creditore della prestazione altrui, impossibilitato a utilizzarla (cfr. in ambito locatizio, fra le varie, Cass. 2 ottobre 2014, n. 20811; nell’ambito della vendita di pacchetto turistico, Cass. 20 dicembre 2007, n. 26958; Parola, Risoluzione del contratto turistico e impossibilità di utilizzazione della prestazione, in Obbl. Contr., 2009, 29 e, recentemente, Cass. 10 luglio 2018, n. 18047 e anche Cass. 24 luglio 2007, n. 16315. Con riguardo al residuale tema dell’onere della prova, esso è a carico della parte che invochi l’impossibilità sopravvenuta quale esimente del proprio inadempimento (cfr. Cass. 12 maggio 2005, n. 9795; Trib. Genova, 18 ottobre 2005)).
Se l’impossibilità ad adempiere fosse solo temporanea (perché altrettanto temporanea è la causa da cui essa trae origine, come potrebbe in effetti riscontrarsi nelle fattispecie contrattuali connesse al Covid-19) (Se l’impossibilità, invece, fosse solo parziale, l’art. 1464 c.c. prevede un riequilibrio sinallagmatico in ragione del quale la parte non colpita da impossibilità ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione dovuta, salvo il recesso dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale. Se, infine, l’impossibilità fosse sia parziale che temporanea, le parti restano vincolate alle obbligazioni ancora eseguibili, mentre quelle temporaneamente impossibili restano sospese e quiescenti (cfr. Trib. Taranto, 14 giugno 2019)), l’adempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto si intende “sospeso” (sulla sospensione degli effetti del contratto derivante da impossibilità temporanea, cfr. Cass. 10 gennaio 1995, n. 1037 e, meno chiaramente anche Cass. 27 settembre 1999, n. 10690). In particolare, il debitore non è tenuto all’adempimento finché perduri la causa impeditiva dell’esecuzione della prestazione, e potrà adempiervi in seguito, ossia cessata la causa predetta. Tuttavia, la sospensione non può protrarsi sine die, e ciò in quanto
(i) il creditore, fruitore della prestazione altrui, potrebbe ad un certo punto non avere più interesse a ricevere la prestazione stessa oppure
(ii) il debitore, prestatore della prestazione, in relazione al contratto o alla natura della stessa, potrebbe non essere più ritenuto obbligato a darvi esecuzione.
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Ciò posto, pur al verificarsi di una causa di non imputabilità, non tutte le prestazioni divengono per ciò solo oggettivamente impossibili. Occorre, in altri termini, valutare la causa declinandone gli effetti in ragione dell’oggetto dell’obbligazione; perché se è vero che l’impossibilità può operare generaliter con riguardo alle obbligazioni di facere (sia di mezzi che di risultato) e di dare un bene infungibile, ciò non può dirsi per le obbligazioni di dare un bene fungibile. Anzi, a questo proposito, la regola generale è che le obbligazioni di dare un bene fungibile, quali sono ad esempio le obbligazioni di pagamento, non divengono mai oggettivamente impossibili; per restare all’esempio citato, il pagamento di una somma di denaro può essere sempre eseguito perché è possibile, almeno in via teorica, procurarsi la somma necessaria per farvi fronte (anche a prestito, se occorre) (cfr. Breccia, Le obbligazioni, Milano, 1991, 475; Galgano, Manuale di Diritto Privato, Padova, 2006, 207).
Tuttavia, in letteratura giuridica si è introdotto, a titolo di correttivo della regola generale sopra illustrata, il concetto di “inesigibilità” della prestazione: vi possono essere casi, infatti, in cui, alla luce degli obblighi di correttezza e buona fede in executivis (artt. 1175 e 1375 c.c.), non è lecito domandare la prestazione alla controparte (cfr. Breccia, Le obbligazioni, Milano, 1991, 475; Galgano, Manuale di Diritto Privato, Padova, 2006, 207), con la conseguenza che se quest’ultima è tenuta ad adempiere un’obbligazione di pagamento non le si può chiedere l’adempimento (anche perché, di converso, la stessa potrebbe a quel punto sollevare l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. e il relativo rifiuto non apparirebbe contrario a buona fede) (cfr. Cass. 19 ottobre 2007, n. 21973). Tale correttivo non è ovviamente predicabile qualora la controprestazione a cui l’obbligazione di pagamento si riferisce sia stata eseguita anteriormente al verificarsi della “causa di non imputabilità”: qui si assiste semplicemente all’insorgenza di un debito, di per sé insensibile a qualsiasi avvenimento che si verificasse nel prosieguo del rapporto contrattuale (tale è il caso dell’inadempimento verificatosi anteriormente all’insorgere della causa di non imputabilità. E di esso se ne occupa l’art. 1221 c.c. secondo cui il debitore costituito in mora ex art. 1219 c.c. non è liberato per la sopravvenuta impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (salva la prova che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito nelle mani del creditore).
La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità
Spesso accade che la “causa esterna” di cui si è detto ai fini dell’esonero da responsabilità da parte del debitore e della (conseguente) estinzione o sospensione della relativa obbligazione integri la figura dell’avvenimento straordinario e imprevedibile, di rilievo giuridico qualora il suo verificarsi, nell’ambito dei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, comporti che la prestazione di una delle parti sia divenuta eccessivamente onerosa, al punto da legittimare tale parte a domandare la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1467 c.c. Si tratta di un rimedio che, a differenza dell’istituto della impossibilità sopravvenuta
(i) ha natura prettamente giudiziale (la risoluzione contrattuale, cioè, deve essere dichiarata dall’Autorità Giudiziaria e non opera de iure)
(ii) può essere invocato solo dalla parte la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa (cfr. Cass. 26 gennaio 2018, n. 2047; Cass. 5 gennaio 2000, n. 46); l’altra parte ha il diritto di evitare la risoluzione offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. Come si vedrà nei paragrafi successivi, tali limiti potrebbero rendere l’istituto in esame di minore utilità pratica rispetto all’impossibilità sopravvenuta, avuto riguardo all’incidenza del Covid-19 e del conseguente apparato normativo sui contratti in corso di esecuzione.
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La presupposizione
Infine, appare utile ricordare anche l’istituto della presupposizione, rimedio suppletivo di origine giurisprudenziale secondo cui una parte può domandare la risoluzione del contratto qualora, in fase di esecuzione dello stesso, sia venuto meno il presupposto – obbiettivo e indipendente rispetto alla volontà delle parti – di cui si era tenuto implicitamente conto al momento della stipula (cfr. ex pluribus, Cass. 21 novembre 2001, n. 14629. Recentemente, cfr. anche Cass. Sez. Un. 20 aprile 2018, n. 9909; Cass. 5 marzo 2018, n. 5112; Cass. 13 ottobre 2016, n. 20620; Cass. 14 giugno 2013, n. 15025).
Ora, in ragione del Covid-19 e, soprattutto, degli effetti distorsivi del mercato che tale avvenimento ha causato e sta tuttora causando, effetti peraltro non predicibili se non nel periodo contingente, non è peregrino affermare che qualsiasi contratto, a prescindere dal proprio schema causale, possa essere dichiarato risolto per difetto di presupposizione. Infatti, lo scenario economico che, al momento della conclusione del contratto, fungeva da presupposto implicito (condizione inespressa) delle parti, è in seguito radicalmente mutato, e ciò a causa non solo delle misure restrittive introdotte successivamente dai provvedimenti governativi, ma anche dalla generale psicosi di contagio nonché dalla ridotta propensione all’acquisto dei consumatori. Sul punto, rinviamo alle riflessioni affidate al paragrafo che segue.
Covid-19 e vendita
Nella vendita, gli effetti sul contratto derivanti dalla diffusione del Covid-19 e dalle relative misure di contenimento dello stesso si atteggiano in differente misura a seconda che ad invocarne l’esimente sia il venditore o, viceversa, il compratore.
Anzitutto, il produttore-venditore non potrà essere ritenuto inadempiente se la propria attività produttiva rientra fra quelle sospese ai sensi del DPCM 11 marzo 2020 e, in ragione di tale sospensione, egli non fosse in grado di rispettare i termini di consegna dei beni pattuiti con il compratore; e lo stesso dicasi anche per il venditore-produttore la cui attività, pur non essendo sospesa dal predetto DPCM, non possa essere proseguita perché, in base ad un’obiettiva valutazione della propria organizzazione aziendale, egli non possa garantire il rispetto delle misure previste per la salvaguardia dell’integrità della salute dei lavoratori (ad esempio, perché il luogo di produzione o di stoccaggio dei beni non consenta di preservare la distanza interpersonale di almeno un metro fra i dipendenti ivi addetti).
Non si può, inoltre, escludere che anche il venditore-produttore la cui attività non rientri fra quelle obbligatoriamente sospese possa andare esente da responsabilità per avere volontariamente sospeso la produzione e commercializzazione dei propri prodotti. Infatti, se è vero che la sospensione, in tal caso, rappresenta un atto di volontà imputabile al venditore-produttore, è pur vero però che detta scelta è stata assunta in stato di necessità (per quanto risalente, cfr. Cass. 7 febbraio 1952, n. 287 in Foro It., 1952, I, 301; App. Firenze, 23 ottobre 1964. Contra, nel senso della non estensibilità della norma di cui all’art. 2045 c.c. in materia contrattuale, cfr. Cass. Sez. Un. 21 febbraio 1953, n. 427, in Foro It., 1953, I, 798), ossia per evitare di mettere in pericolo se stesso o altri (i propri dipendenti) e, comunque, a tutela di beni di valore supremo e costituzionalmente garantiti come il diritto alla salute.
Sempre con specifico riguardo alla posizione del venditore, di rilievo appare anche la disciplina della risoluzione contrattuale per eccessiva onerosità ex art. 1467 c.c. (per l’eccessiva sopravvenuta gravosità della prestazione come causa non imputabile, cfr. Trib. Milano, 5 dicembre 1974, con riferimento all’embargo sui prodotti petroliferi). Il Covid-19 e le misure restrittive imposte dai provvedimenti governativi, infatti, appaiono in grado di rendere “eccessivamente onerosa” la prestazione a suo carico, a causa, ad esempio, della sostanziale irreperibilità (con probabile conseguente incremento generale dei prezzi) dei costi delle materie prime o dei servizi di trasporto e logistica.
Lato compratore, quest’ultimo, in via generale, è sempre tenuto ad adempiere al pagamento del prezzo, trattandosi di obbligazione avente ad oggetto la consegna di un bene fungibile per antonomasia (il denaro) la cui reperibilità non appare per il momento impedita dal Covid-19 e dalle misure assunte in contrasto alla diffusione del Covid-19 stesso. E certamente eventuali difficoltà economiche e finanziarie del compratore, pur eventualmente avendo una qualche attinenza con l’emergenza epidemiologica, non possono fondare una valida ragione di rifiuto dell’adempimento; in altri termini, si verserebbe in ipotesi di prestazione soggettivamente impossibile, di per sé giuridicamente irrilevante.
Nondimeno, qualora il venditore-produttore non fosse in grado di rispettare i termini di consegna dei beni compravenduti, neppure può pretendere che il compratore adempia al pagamento del prezzo: il contratto risulterà temporaneamente “sospeso” fino a quando il compratore non avrà più interesse a ricevere i predetti beni. Si pensi, ad esempio, al caso di prodotti facilmente deteriorabili ovvero di carattere “stagionale”, il cui valore intrinseco sia fortemente ancorato ad un predeterminato (e talvolta breve) periodo di tempo: qui il compratore, in relazione alla natura dell’oggetto contrattuale, decorso un certo lasso temporale, potrà ritenere risolto de iure il contratto di vendita ex art. 1463 c.c. Ed alla medesima conclusione si perviene qualora il compratore sia impossibilitato ad utilizzare il bene (non ancora consegnato all’epoca in cui è venuta in essere la normativa emergenziale derivata dal Covid-19); è il caso, ad esempio, del compratore la cui attività di commercio al dettaglio sia stata sospesa per effetto del DPCM 11 marzo 2020 e che, per tale ragione, sia impossibilitato a commerciare i beni vendutigli dal venditore-produttore. Una valutazione caso per caso consentirà di valutare l’emergenza epidemiologica in termini di impossibilità sopravvenuta temporanea ovvero definitiva (come potrebbe essere, per restare all’esempio citato, qualora la vendita abbia ad oggetto beni deteriorabili o stagionali). In tale seconda ipotesi, il contratto si intende risolto di diritto ex art. 1463 c.c. e il venditore è liberato dal proprio obbligo di consegnare il bene al compratore. Ovviamente, quale conseguenza della risoluzione, anche il compratore è liberato dal proprio obbligo di pagare il prezzo della vendita (Cass. 20 dicembre 2004, n. 23618; Trib. Salerno 31 marzo 2009).
A corollario di quanto finora esposto, si ritiene che il compratore possa legittimamente rifiutarsi di compiere le attività atte a consentire al venditore di adempiere, quali ad esempio la ricezione dei beni compravenduti: il Covid-19 (e quanto ne consegue) potrebbe in effetti essere qualificato come “motivo legittimo” che, ai sensi dell’art. 1206 c.c., giustifica il rifiuto, da parte del compratore, di ricevere la consegna della merce da parte del venditore.
Inoltre, un ulteriore rimedio in favore del compratore potrebbe essere rappresentato, come anticipato, anche dalla risoluzione del contratto per difetto di presupposizione. Si pensi al caso della fornitura di un determinato quantitativo di merce prodotta in base ad ordini conclusi ante emergenza epidemiologica con la consapevolezza di ambo le parti che tale merce sarebbe stata a sua volta rivenduta dal compratore tramite attività di commercio al dettaglio poi sospesa per effetto del DPCM 11 marzo 2020 o fortemente difficoltata in ragione del divieto imposto ai cittadini di uscire dalle proprie abitazioni se non per comprovate esigenze. Il compratore, in tal caso, potrebbe invocare la risoluzione del contratto venendo meno il presupposto tenuto in considerazione da entrambi i contraenti in sede di formazione degli ordini, ossia la rivendita dei prodotti oggetto degli ordini predetti.
Le considerazioni finora illustrate in tema di vendita (di beni mobili) valgono anche per i contratti di commissione e concessione di vendita e di somministrazione, salvi naturalmente i diversi effetti disciplinati dall’art. 1458 cod. civ. in caso di risoluzione contrattuale (ex tunc, nella vendita; ex nunc, nella somministrazione).
Covid-19 e appalto
Il contratto di appalto presenta una propria disciplina in caso di impossibilità di esecuzione dell’opera. L’art. 1672 c.c., infatti, prevede che il committente, nei limiti in cui la parte di opera compiuta gli sia utile, deve versare all’appaltatore la corrispondente quota-parte di prezzo proporzionata al corrispettivo pattuito per l’opera intera. Quindi, ferma la derogabilità della norma (Cass. 24 maggio 2010, n. 12623), il committente nulla deve all’appaltatore per la parte dell’opera non eseguita (tanto che le materie prime eventualmente acquisite per la realizzazione di tale parte restano di proprietà dell’appaltatore), oppure in caso di sospensione temporanea dei lavori (cfr. Cass. 9 giugno 1998, n. 5677); e nulla deve anche per la parte eseguita se essa non risponde ad una sua utilità (Trib. Bologna, 3 giugno 2016. Inoltre, le spese generali che l’appaltatore avesse già sostenuto anche per la parte non eseguita dell’opera, in base al principio di assunzione del rischio d’impresa ex art. 1655 c.c., restano a carico dell’appaltatore stesso (Cass. 28 novembre 1986, n. 7022)).
Di rilievo, è la norma specifica dell’appalto di cui all’art. 1664 c.c. secondo cui:
(i) al primo comma, appaltatore e committente possono chiedere una revisione del prezzo qualora si siano verificati aumenti (o diminuzioni) nel costo dei materiali o della mano d’opera per effetto di circostanze imprevedibili;
(ii) al secondo comma, il solo appaltatore ha diritto a un equo compenso se si manifestino difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili. L’attuale emergenza epidemiologica potrebbe configurarsi come “circostanza imprevedibile” di cui al primo comma ovvero rientrare nei similia di cui al secondo comma (cfr. Cass. 28 marzo 2001, n. 4463) e, ferme naturalmente le valutazioni caso per caso, assumere di conseguenza la funzione di causa giustificatrice di eventuali aumenti del costo dei materiali o dei servizi (ad esempio perché divenuti difficilmente reperibili in conseguenza del blocco delle attività produttive disposto dal DPCM 11 marzo 2020) o della mano d’opera. Alle medesime conclusioni si ritiene di poter pervenire con riguardo alla disciplina generale della risoluzione per eccessiva onerosità ex art. 1667 c.c.
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Covid-19 e locazione
Nella locazione, tanto il locatore quanto il conduttore possono far valere l’impossibilità sopravvenuta della prestazione: il primo, perché non è più in grado di garantire il pacifico godimento del bene; il secondo, perché è impossibilitato ad utilizzare il bene stesso (ex pluribus, cfr. la già citataCass. 2 ottobre 2014, n. 20811). Con riferimento all’attuale emergenza epidemiologica, ciò naturalmente vale per le locazioni aventi ad oggetto immobili ad uso non abitativo in cui viene esercitata un’attività obbligatoriamente sospesa dal DPCM 11 marzo 2020 ovvero dalle ordinanze regionali che sono fiorite al riguardo. Ne deriva che, fintantoché perduri la sospensione dell’attività imposta dalla Pubblica Autorità, il conduttore è legittimato a sospendere il pagamento del canone locatizio nei confronti del locatore, e quest’ultimo, di converso, non è legittimato a pretenderne il pagamento.
Un ulteriore rimedio consentito al conduttore potrebbe consistere nel recesso dalla locazione avente ad oggetto un immobile ad uso non abitativo qualora ricorrano i “gravi motivi” di cui all’art. 27, L. 27 luglio 1978, n. 392. Nondimeno, come appare ingiustificata la risoluzione del contratto per impossibilità definitiva ex art. 1463 c.c., risultando per il momento più congeniale la mera sospensione degli effetti contrattuali in ragione della impossibilità temporanea, così il rimedio del recesso – ferme le valutazioni caso per caso – non appare al momento legittimo.
Inoltre, si può forse ipotizzare l’applicazione, in favore del conduttore, dell’art. 1623 c.c. in via di analogia legis dettato in tema di affitto di cosa produttiva, secondo cui se, in conseguenza di una disposizione di legge o di un provvedimento di un’autorità il rapporto contrattuale risulti notevolmente modificato in modo che il conduttore ne risenta una perdita, quest’ultimo può richiedere una diminuzione del canone di affitto ovvero, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto. Si tratta di una norma di carattere speciale rispetto alla disciplina, già esaminata, della risoluzione per eccessiva onerosità ex art. 1467 c.c., la quale non può escludersi che possa anch’essa essere utilmente invocata dal conduttore qualora, a seguito dell’emergenza epidemiologica, derivi una grave crisi economica, la cui portata e i cui effetti, tuttavia, non sono al momento predicibili.
Alle medesime considerazioni si deve pervenire con riguardo ai contratti di affitto di azienda qualora l’attività esercitata dall’azienda stessa rientri fra quelle obbligatoriamente sospese da un provvedimento della Pubblica Autorità. Si pensi, a tale proposito, alla concessione di spazi nei centri commerciali, per i quali sovente si impiega l’improprio schema causale dell’affitto di azienda in luogo di quello della locazione; ad ogni modo, si tratta di contratti i cui effetti devono ritenersi sospesi in ragione del blocco delle attività di commercio al dettaglio di cui al DPCM 11 marzo 2020, con la conseguenza che non potrà ritenersi inadempiente il conduttore che, per il periodo strettamente necessario, avesse omesso il pagamento del canone di affitto.