13/08/2020 - Giurisdizione – Cittadinanza – Per matrimonio – Diniego – Impugnazione - Giurisdizione del giudice amministrativo
tratto da giustizia-amministrativa.it
Alla giurisdizione del giudice amministrativo il diniego di cittadinanza per matrimonio
Giurisdizione – Cittadinanza – Per matrimonio – Diniego – Impugnazione - Giurisdizione del giudice amministrativo
Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di provvedimenti di diniego della cittadinanza italiana richiesta dallo straniero per matrimonio, ai sensi dell’art. 5, l. 5 febbraio 1992, n. 91 in quanto la valutazione in ordine alla sussistenza nel caso specifico di comprovati motivi inerenti la sicurezza della Repubblica presuppone una attività di giudizio e ponderazioni di interessi, quello privato dello straniero richiedente e quello di matrice pubblicistica alla sicurezza della Repubblica, quest’ultimo considerato dalla legge in ogni caso prevalente sul primo. Di talché ove l’accoglimento della domanda di acquisto della cittadinanza per matrimonio, secondo l’apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione procedente, entrasse in insanabile conflitto con quest’ultimo interesse, mettendolo irrimediabilmente a rischio, è lo stesso legislatore a risolvere il potenziale conflitto, imponendo il rigetto della domanda (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che costituisce principio giurisprudenziale ormai sedimentato, a più riprese enunciato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (cfr. Ad. Pl. 5 luglio 1999, n. 18; Id., 24 maggio 2007, n. 8; Id. 26 ottobre 1979, n. 25), quello secondo cui “la posizione di interesse legittimo si collega all'esercizio di una potestà amministrativa rivolta, secondo il suo modello legale, alla cura diretta ed immediata di un interesse della collettività; il diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione trova, invece, fondamento in norme che, nella prospettiva della regolazione di interessi sostanziali contrapposti, aventi di regola natura patrimoniale, pongono a carico dell'amministrazione obblighi a garanzia diretta ed immediata di un interesse individuale. Donde il principio che, la distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi va fatta con riferimento alla finalità perseguita dalla norma alla quale l'atto si collega, giacché quando risulti, attraverso i consueti processi intepretativi, che l'ordinamento abbia inteso tutelare l'interesse pubblico, alle contrapposte posizioni sostanziali dei privati non può che essere riconosciuta una protezione indiretta, che, da un lato, passa necessariamente attraverso la potestà provvedimentale dell'amministrazione e, dall'altro, si traduce nella possibilità di promuovere, davanti al giudice amministrativo, il controllo sulla legittimità dell'atto”. Pertanto, a fronte di norme che perseguono in via diretta ed immediata finalità di interesse pubblico e, nel contempo, definiscono in modo puntuale i presupposti ed il contenuto dell’azione amministrativa, “anche in tal caso l'attività con la quale l'organo competente effettua, in modo unilaterale, il raffronto fra la fattispecie concreta e il suo modello legale è espressione, in quanto funzionale alla cura di un interesse della collettività, di un potere autoritativo ed esclusivo dell'amministrazione, con la conseguenza che l'atto soggiace al regime proprio del provvedimento amministrativo (presunzione di legittimità, inoppugnabilità dopo il decorso del termine di decadenza, soggezione alla potestà di autotutela) e la posizione di chi aspira a ricevere un'utilità sostanziale dal corretto esercizio del potere assume la configurazione dell'interesse legittimo”. Di qui la conclusione che costituisce “un postulato privo di qualsiasi fondamento... che, di regola, al carattere vincolato del provvedimento corrispondano situazioni giuridiche qualificabili quali diritti soggettivi e, per converso, all'area della discrezionalità amministrativa quelle definibili come interessi legittimi" (così, Ad Pl. n. 18 del 1999, che richiama C. Cost., 16 aprile 1998, n.127).
Ha ancora chiarito la Sezione che mettendo a fuoco la disciplina scolpita nell’art. 5 della legge n. 91 del 1992, il legislatore àncora la possibilità di acquisto della cittadinanza italiana non solo al matrimonio dello straniero con un cittadino, bensì ai requisiti ulteriori della residenza legale per un determinato periodo nel territorio della Repubblica ovvero al decorso di un lasso temporale minimo dal matrimonio per i residenti all’estero, purché al momento del decreto ministeriale di accoglimento della domanda non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e se non sussista la separazione personale dei coniugi.
Ma pur in presenza dei suesposti requisiti, la domanda di acquisto della cittadinanza per matrimonio non può essere accolta, laddove l’Amministrazione accerti la ricorrenza di una delle tre cause ostative elencate dall’art. 6, comma 1, della legge n. 91 del 1992, le prime due relative a sentenze penali di condanna subite dallo straniero, la terza concernente la sussistenza, nel caso specifico, “di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica”.
L’esame complessivo delle suesposte previsioni legislative dimostra che il legislatore, da un lato, ha inteso enunciare analiticamente i requisiti che legittimano la presentazione della domanda di acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio, senza lasciare in questa fase margini discrezionali di apprezzamento all’Amministrazione procedente, dall’altro ha imposto alla medesima Amministrazione di accertare l’eventuale ricorrenza di cause ritenute ope legis ostative dell’acquisto, di cui una connotata da una ampia discrezionalità.
Difatti, mentre l’accertamento della intervenuta condanna dello straniero per determinati reati integra una attività priva di qualsiasi margine di apprezzamento, la valutazione in ordine alla sussistenza nel caso specifico di comprovati motivi inerenti la sicurezza della Repubblica presuppone non solo un’istruttoria complessa, coincidente con un’attività puntuale di raccolta di dati ed informazioni, ma soprattutto una conseguente attività di giudizio e ponderazioni di interessi, quello privato dello straniero richiedente e quello di matrice pubblicistica alla sicurezza della Repubblica, quest’ultimo considerato dalla legge in ogni caso prevalente sul primo. Di talché ove l’accoglimento della domanda di acquisto della cittadinanza per matrimonio, secondo l’apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione procedente, entrasse in insanabile conflitto con quest’ultimo interesse, mettendolo irrimediabilmente a rischio, è lo stesso legislatore a risolvere il potenziale conflitto, imponendo il rigetto della domanda.
L’esame delle pertinenti disposizioni legislative concernenti l’acquisto della cittadinanza per matrimonio scolpite negli artt. 5 e 6 della legge n. 91 del 1992 disvela quindi un quadro normativo in cui coesistono in capo all’Amministrazione procedente, e competente all’adozione del provvedimento finale, attività di mero accertamento di fatti, documenti e comportamenti, ed attività valutative connotate da margini piuttosto ampi di apprezzamento e da ponderazioni di interessi.
Le rassegnate conclusioni in punto di giurisdizione trovano poi conferma nell’art. 6, comma 1, lett. c), della legge n. 91 del 1992, che impone all’Amministrazione procedente di respingere la domanda di acquisto di cittadinanza italiana per matrimonio a fronte di “comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica”.
Si è già evidenziato che, per un indirizzo giurisprudenziale recentemente seguito dal Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 2768 del 2019), laddove l’Amministrazione procedente eserciti quel potere ampiamente discrezionale di valutazione di motivi ostativi all’acquisto della cittadinanza italiana inerenti la sicurezza della Repubblica, la posizione di diritto soggettivo del richiedente affievolirebbe ad interesse legittimo, con conseguente spostamento della giurisdizione sull’eventuale provvedimento di diniego dal giudice ordinario a quello amministrativo.
Tale argomentazione non risulta convincente, e non solo perché induce, nell’ambito dell’unitario procedimento amministrativo attivato dalla domanda dello straniero, uno spostamento della giurisdizione tra i due plessi, a seconda che l’Amministrazione procedente decida o meno di esercitare il potere discrezionale di valutazione dei motivi ostativi all’acquisto della cittadinanza italiana di cui all’art. 6, comma 1, lett. c) della legge n. 91 del 1992.
Ciò che invece massimamente rileva è che la normativa di fonte primaria, sia nella parte in cui rimette all’Amministrazione di esercitare un’attività vincolata di apprezzamento di fatti, documenti ed informazioni, sia laddove disciplini la ponderazione di interessi pubblici e privati per garantire la salvaguardia della sicurezza della Repubblica, persegue un obiettivo finale unitario di chiara matrice pubblicistica. In entrambi i casi, l’Amministrazione, all’esito dell’istruttoria procedimentale imposta dalla legge, deve in ultima istanza accertare se lo straniero possieda i requisiti essenziali rientranti nella specifica fattispecie di acquisto della cittadinanza per matrimonio e se risulti quindi pronto per lo stabile inserimento nella comunità nazionale e l’esercizio, senza pregiudizio per l’ordinamento democratico della Repubblica, dei diritti e delle prerogative attribuiti dalla Carta costituzionale e dalle leggi ordinarie ai cittadini italiani: quanto sopra, sulla base della valutazione di un complesso di circostanze, atte sostanzialmente a dimostrare l'integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale, anche in termini di irreprensibilità di condotta.
Traslando i superiori principi all’odierno gravame, deve essere quindi respinta l’eccezione di inammissibilità proposta dal Ministero riferente e conseguentemente affermata la giurisdizione del giudice amministrativo.
Risulta invero per tabulas che il decreto impugnato reca il rigetto della domanda di acquisto della cittadinanza per matrimonio presentata dalla ricorrente per la mancata produzione nel termine fissato con il preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 del “certificato penale britannico in corso di validità, con apostille e traduzione”.
La mancata produzione del certificato penale, rilasciato dalle autorità competenti dello Stato straniero di residenza della ricorrente, ha difatti reso impossibile l’accertamento del requisito essenziale per l’acquisto della cittadinanza per matrimonio costituito dalla assenza di condanne penali ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. a) e b), della legge n. 91 del 1992.