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27/09/2019 - Commercio in zone produttive e disciplina inibitoria: come applicare i principi delle liberalizzazioni

tratto da quotidianopa.leggiditalia.it
Commercio in zone produttive e disciplina inibitoria: come applicare i principi delle liberalizzazioni
di Michele Deodati - Responsabile SUAP Unione Appennino bolognese e Vicesegretario comunale
La complessa vicenda approdata al Consiglio di Stato riguarda il diniego di un'autorizzazione al trasferimento di un esercizio commerciale al dettaglio con contestuale ampliamento della superficie di vendita. Il Tribunale amministrativo regionale ha accolto il ricorso presentato dalla società commerciale che ha incassato il diniego da parte del competente Comune. In sostanza, il provvedimento impugnato conteneva una dichiarazione di inefficacia rispetto alla comunicazione dell'impresa circa il trasferimento e l'ampliamento.
Alla base del divieto, una norma locale che disponeva l'incompatibilità della funzione commerciale in aree a destinazione produttiva. Il tema si inserisce nell'ambito del filone giurisprudenziale maturato a fronte delle violazioni della concorrenza dovute a limiti quantitativi o ad altre restrizioni di tipo territoriale, che ha trovato un punto di riferimento proprio nella sentenza della Corte costituzionale, la n. 38/2013, che ha deciso una questione emersa all'interno di questa vicenda giudiziaria. Il quadro normativo di riferimento è quello inaugurato dalla stagione delle liberalizzazioni messa in atto nel 2011 dai decreti del Governo Monti (n. 138/2011n. 201/2011n. 1/2012n. 5/2012). L'indirizzo, come si vedrà tra un attimo, è stato poi ulteriormente precisato e affinato dalla Giurisprudenza successiva.
La disciplina locale giudicata incostituzionale: i divieti
Nelle more del giudizio davanti al T.A.R., la sentenza della Corte costituzionale n. 38/2013 dichiarava incostituzionale la norma locale citata, per contrasto con la disciplina nazionale stabilita dall'art. 31, comma 2, del D.L. n. 201/2011, che ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. e) Cost., attribuisce la materia della tutela della concorrenza all'esclusiva competenza legislativa statale. La citata norma di legge provinciale, consentiva nelle zone produttive la prosecuzione delle attività di vendita al dettaglio già autorizzate o già iniziate prima dell'entrata in vigore della legge provinciale, ma aveva vietato che le relative strutture destinate alla vendita al dettaglio potessero essere ampliate, trasferite o concentrate. In altri punti, anch'essi dichiarati costituzionalmente illegittimi, aveva previsto che il commercio al dettaglio nelle zone produttive fosse ammesso soltanto come eccezione, per le categorie merceologiche indicate e per i relativi accessori determinati ed ammessi da una successiva deliberazione della Giunta provinciale. A seguito della declaratoria di incostituzionalità, il T.A.R. aveva accolto il ricorso. Successivamente, il Comune emanò un nuovo provvedimento inibitorio, fondato su di una nuova norma di legge provinciale che in sostanza ha reiterato le limitazioni al commercio al dettaglio in aree produttive, sebbene in forma eccezionale. A sostenere questo nuovo indirizzo normativo, le stesse disposizioni contenute nell'art. 31, comma 2, del D.L. n. 201/2011, come modificato dal D.L. n. 69/2013, a mente del quale si afferma la possibilità per regioni ed enti locali di prevedere, a determinate condizioni e senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree per l'insediamento di attività produttive e commerciali.
A fronte dei giudizi pendenti in sede costituzionale, il Tribunale ha dapprima rinviato la causa e poi ha ritenuto di esaminare preliminarmente la censura relativa alla violazione della disciplina in materia di Segnalazione certificata di inizio attività, Scia, in quanto il provvedimento inibitorio sarebbe intervenuto dopo la scadenza del termine di sessanta giorni dalla presentazione della relativa comunicazione da parte dell'impresa ricorrente. In merito, il Tribunale accoglieva questo motivo di ricorso e annullava il provvedimento impugnato per violazione dell'art. 19 L. n. 241/1990. In proposito, entra in gioco il rapporto tra legislazione statale e locale, in questo caso provinciale, in materia di procedimenti autorizzativi semplificati, ed appunto assoggettati al regime della segnalazione certificata di inizio attività (S.c.i.a.), che la sentenza della Corte costituzionale n. 121/2014 ha risolto affermando la supremazia della legislazione statale su quella regionale, in quanto la S.c.i.a. attiene ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, comma 2, lett. m) Cost.). Dunque, l'atto dell'amministrazione emanato successivamente allo spirare del termine è risultato illegittimo in quanto tale termine non ammette interruzione o sospensione. Inoltre, si è rilevato come l'atto inibitorio medesimo non potesse qualificarsi alla stregua di un atto assunto in autotutela, in mancanza dei relativi requisiti.
Inibitoria successiva ai 60 giorni: le precisazioni
Con sentenza non definitiva, il Collegio d'appello ha smentito l'appellata sentenza del Tribunale, sostenendo che al caso concreto non si poteva applicare il regime della S.c.i.a., né secondo la stessa L. n. 241/1990, che all'art. 29, comma 2-quinquies contempla una clausola di salvaguardia del regime di autonomia speciale, né secondo la normativa locale. quanto allo spirare del termine di sessanta giorni per l'eventuale inibitoria, il collegio ha affermato che avrebbe potuto decorrere dalla segnalazione certificata di inizio attività solo in caso di inizio effettivo dell'attività (o, se non coevo, di correlativa comunicazione successiva, secondo la disciplina all'epoca in vigore), in quanto soltanto l'inizio effettivo avrebbe consentito una verifica dell'Amministrazione comunale sui requisiti e presupposti legittimanti l'attività nei termini preannunciati.
Corte costituzionale n. 200/2012: liberalizzazioni come “razionalizzazione della regolazione”
Si è stabilito nella sentenza del Consiglio di Stato n. 6312 del 23 settembre 2019 che la possibilità rimessa al legislatore regionale di regolare le zone adibite alle attività commerciali attraverso gli strumenti di governo del territorio è conforme a quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 200/2012, secondo cui la liberalizzazione è da intendersi come «razionalizzazione della regolazione», compatibile con il mantenimento dei limiti e/o oneri necessari alla tutela di superiori beni costituzionali. La Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che l'art. 31 del decreto n. 201/2011 consente di introdurre limiti alla apertura di nuovi esercizi commerciali per ragioni di tutela dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e attribuisce alle Regioni la possibilità di prevedere anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali, sicché la previsione, per gli insediamenti di maggiore dimensione (in particolare, per le grandi strutture di vendita), di zonizzazioni commerciali negli strumenti urbanistici generali e nei piani attuativi rientra proprio in quegli spazi di intervento regionale che lo stesso legislatore statale, con il citato art. 31 del decreto n. 201/2011, ha salvaguardato a condizione che tale zonizzazione non si traduca nell'individuazione di aree precluse allo sviluppo di esercizi commerciali in termini assoluti e che le finalità del dimensionamento della funzione commerciale e dell'impatto socio-economico siano volte alla cura di interessi di rango costituzionale, indicati nella medesima disposizione (v., per tutte, Corte cost. n. 239/2016).
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