28/03/2019 - Salamone, Il sistema della documentazione antimafia - normativa e giurisprudenza, 27 marzo 2019
Salamone, Il sistema della documentazione antimafia - normativa e giurisprudenza, 27 marzo 2019
Il sistema
della documentazione antimafia
normativa e giurisprudenza.
Testo elaborato in occasione del seminario tenuto a Roma il 5 dicembre 2018
presso la Scuola di perfezionamento per le Forze di Polizia.
Sommario
Capitolo 1
La tipologia della documentazione antimafia.
1.1 Le Fonti; 1.2 Finalità; 1.3 La dualità della documentazione antimafia; 1.4 La comunicazione; 1.5 L’informazione; 1.6 L’istituto della white list; 1.7 La banca dati nazionale unica della documentazione antimafia; 1.8 La competenza prefettizia; 1.9 Il c.d. sistema pattizio delle misure antimafia: i protocolli di legalità.
Capitolo 2
Il contenuto delle informative ed il ruolo della giurisprudenza.
2.1 la funzione svolta nel sistema dalle informative antimafia; 2.2 Il principio civilistico del “più probabile che non”; 2.3 Le figure sintomatiche di infiltrazioni e condizionamenti; 2.4 Il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa; 2.5 Le situazioni rilevanti; 2.6 La casistica; 2.7 I provvedimenti del giudice penale; 2.8 Gli atti relativi alla applicazione delle misure di prevenzione; 2.9 I rapporti parentali; 2.10 I contatti ed i rapporti di frequentazione; 2.11 Le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; 2.12 La condivisione del sistema di illegalità; 2.13 La valutazione non atomistica delle circostanze; 2.14 Orientamenti (in parte) divergenti.
Capitolo 3
Procedimento e contenzioso.
3.1 Documentazione antimafia e procedimento amministrativo: peculiarità; 3.2 Il contenuto motivazionale dell’informativa; 3.3 L’efficacia temporale; 3.4 Disciplina processuale; 3.5 Risarcimento danni per adozione di informativa antimafia annullata in sede giurisdizionale.
Capitolo 4
Gli effetti della documentazione antimafia.
4.1 Informativa antimafia ed effetti sui contratti e sui rapporti in corso nel codice antimafia; 4.2 La disciplina degli effetti nei due codici dei contratti; 4.3 Interdittive antimafia e raggruppamenti temporanei di imprese; 4.4 L’estensione di efficacia delle interdittive ad opera dell’art. 89 bis del codice antimafia: le attività private soggette a potestà autorizzatoria; 4.5 Incapacità ad intrattenere rapporti con la P.A..
Capitolo 5
La disciplina in tema di commissariamento delle imprese.
5.1 L'articolo 32 del decreto legge 24 giugno 2014 n. 90; 5.2 I presupposti per le misure straordinarie; 5.3 Competenza territoriale del Prefetto e procedimento; 5.4 La tipologia dei provvedimenti adottabili; 5.5 La cessazione degli effetti delle misure straordinarie; 5.6 I rapporti con la disciplina del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231; 5.7 La casistica giurisprudenziale.
Capitolo 6
L’amministrazione ed il controllo giudiziario (artt. 34 e 34 bis codice antimafia).
6.1. Le ragioni della disciplina innovativa della legge del 17 ottobre 2017, n. 161; 6.2 L’amministrazione giudiziaria; 6.3 Il controllo giudiziario; 6.4 La prima giurisprudenza applicativa; 6.5 Il rapporto tra il controllo giudiziario e l’efficacia dell‘interdittiva antimafia.
Capitolo 7
La compatibilità del sistema con i principi costituzionali e dei trattatti che tutelano i diritti fondamentali.
7.1 La compatibilità con i principi costituzionali e con la disciplina dei trattati internazionali che tutelano i diritti fondamentali; 7.2 La giurisprudenza CEDU attinente; 7.3 Quadro riassuntivo.
Capitolo 1
La tipologia della documentazione antimafia
1.1 Le Fonti
Il sistema della documentazione antimafia, previsto dal c.d. Codice antimafia (d. lgs. n. 159 del 2011), in attuazione della legge delega n. 136 del 13 agosto 2010 (art. 2), si fonda sulla distinzione tra le comunicazioni antimafia e le informazioni antimafia (art. 84 del d. lgs. n. 159 del 2011)[1], che costituiscono le fondamentali misure di prevenzione amministrative previste dal Codice nel libro II e tuttora confermate, nel loro impianto, anche dalla modifica del Codice antimafia, di cui alla l. n. 161 del 17 ottobre 2017, entrata in vigore il 19 novembre 2017[2].
Le comunicazioni antimafia mantengono un legame di tipo almeno formale con tale apparato, per il loro contenuto vincolato, poiché il presupposto della loro emissione consiste nell’attestazione che a carico di determinati soggetti, individuati dall’art. 85 del d. lgs. n. 159 del 2011, non siano state emesse dal Tribunale misure di prevenzione personali definitive.
Le informazioni antimafia, invece, si distinguono per uno spiccato momento di autonomia valutativa da parte del Prefetto, nel soppesare il rischio di permeabilità mafiosa dell’impresa, di contenuto discrezionale, poiché ben possono prescindere dagli esiti delle indagini preliminari o dello stesso giudizio penale, che comunque la Prefettura ha il dovere di esaminare in presenza dei cc.dd. delitti spia (art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011), non vincolanti per l’apprezzamento che, a fini preventivi, la Prefettura è chiamata a compiere in ordine al rischio di condizionamento mafioso[3].
1.2 Finalità
La nuova legislazione antimafia persegue, per finalità di sicurezza pubblica e di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso, l’obiettivo di prevenire le infiltrazioni mafiose nelle attività economiche non solo nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni (contratti pubblici, concessioni e sovvenzioni), mediante lo strumento delle informazioni antimafia (art. 90-95 del d. lgs. n. 159 del 2011), ma anche quello di inibire l’esercizio dell’attività economica, nei rapporti tra i privati stessi, mediante lo strumento delle comunicazioni antimafia (artt. 87-89 del d. lgs. n. 159 del 2011), richieste per l’esercizio di qualsivoglia attività soggetta ad autorizzazione, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi, o anche alla segnalazione certificata di inizio attività (c.d. s.c.i.a) e alla disciplina del silenzio assenso (art. 89, comma 2, lett. a) e lett. b) del d. lgs. n. 159 del 2011).
La collocazione sistematica della documentazione antimafia – nel libro II del Codice, dedicato appositamente alle “Nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia” – ne rivela, nell’intendimento del legislatore, l’estraneità già solo formale rispetto all’apparato di misure aventi carattere penale o parapenale e, dunque, anche al sistema delle misure di prevenzione personali, separatamente regolato dal libro I del Codice antimafia.
Per quanto riguarda la ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, va precisato che si tratta di una misura volta – ad un tempo – alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: nella sostanza, l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge.
Va richiamato a tal proposito quanto il Consiglio di Stato ha chiarito nella sentenza n. 565 del 9 febbraio 2017 e, cioè, che l’ordinamento positivo in materia, dalla legge-delega (l. n. 153 del 2010) al Codice antimafia sino alle più recenti integrazioni di quest’ultimo negli anni successivi e recenti, ha voluto apprestare, per l’individuazione del pericolo di infiltrazione mafiosa nell’economia e nelle imprese, strumenti sempre più idonei e capaci di consentire valutazioni e accertamenti tanto variegati e adeguabili alle circostanze, quanto variabili e diversamente atteggiati sono i mezzi che le mafie usano per cercare di moltiplicare i loro illeciti profitti.
Nella ponderazione degli interessi in gioco, infatti, «non può pensarsi che gli organi dello Stato contrastino con armi impari la pervasiva diffusione delle organizzazioni mafiose che hanno, nei sistemi globalizzati, vaste reti di collegamento e profitti criminali quale “ragione sociale” per tendere al controllo di interi territori»[4]
1.3 La dualità della documentazione antimafia
Fondamentale è la distinzione tra le comunicazioni antimafia e le informazioni (o informative) antimafia.
Va precisato che devono ormai ritenersi definitivamente escluse dall’attuale sistema le cc.dd. informative atipiche, in precedenza previste dall’art. 1-septies del d.l. n. 629 del 1982, conv. in l. n. 726 del 1982, per quanto non formalmente abrogato, e dall’art. 10, comma 9, del d.P.R. n. 252 del 1998, come del resto pare confermare la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul punto[5].
1.4 La comunicazione
La comunicazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza, o meno, di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67 (art. 84, comma 2, del d. lgs. n. 159 del 2011) e, cioè, l’applicazione, con provvedimento definitivo, di una delle misure di prevenzione personali previste dal libro I, titolo I, capo II, del d. lgs. n. 159 del 2011 e statuite dall’autorità giudiziaria, ovvero Condanne penali con sentenza definitiva o confermata in appello per taluno dei delitti consumati o tentati elencati all'art. 51, comma 3- bis c.p.p. è di competenza delle Direzioni distrettuali antimafia 3-bis.
Si tratta di condanne definitive per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto e settimo comma, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all'articolo 12, commi 3 e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474, 600, 601, 602, 416-bis, 416-ter, 452-quaterdecies e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall'articolo 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, dall'articolo 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e [dall'articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152,] le funzioni indicate nel comma 1, lettera a), sono attribuite all'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente.
Al riguardo la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che per “definitivo”, ai sensi dell’art. 84, comma 2, del d. lgs. n. 159 del 2011, nel sistema del Codice antimafia, alla luce di una interpretazione sistematica delle disposizioni in materia, si deve intendere il provvedimento non impugnato o non più impugnabile, che ha acquisito, quindi, la stabilità connessa o, comunque, equivalente al giudicato[6].
La comunicazione antimafia descrive, quindi, il cristallizzarsi di una situazione di permeabilità mafiosa contenuta in un provvedimento giurisdizionale ormai definitivo, con il quale il Tribunale ha applicato una misura di prevenzione personale prevista dal Codice antimafia, ed ha un contenuto vincolato, di tipo accertativo, che attesta l’esistenza, o meno, di tale situazione tipizzata nel provvedimento di prevenzione.
Il legislatore ha espressamente previsto che le comunicazioni antimafia, come si è accennato, hanno efficacia interdittiva rispetto a tutte le iscrizioni e ai provvedimenti autorizzatori, concessori o abilitativi per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati, nonché a tutte le attività soggette a segnalazione certificata di inizio attività (c.d. s.c.i.a.) e a silenzio assenso (art. 89, comma 2, lett. a) e b), del d. lgs. n. 159 del 2011), a differenza di quanto ordinariamente la legge prevede per le informazioni antimafia (di cui si dirà), e comportano, altresì, il divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti, compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera (art. 84, commi 1 e 2, del d. lgs. n. 159 del 2011)[7].
1.5 L’informazione
L’informazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza, o meno, di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’art. 67 (l’esistenza, come detto, di un provvedimento di prevenzione definitivo), nonché nell’attestazione della sussistenza, o meno, di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare la scelte o gli indirizzi della società o delle imprese interessate (art. 84, comma 3, del d. lgs. n. 159 del 2011).
Detta forma di documentazione antimafia, dunque, ha un duplice contenuto, di tipo vincolato, da un lato, e analogo a quello della comunicazione antimafia, nella parte in cui attesta o meno l’esistenza di un provvedimento definitivo di prevenzione personale emesso dal Tribunale, e di tipo discrezionale, dall’altro, nella parte in cui, invece, il Prefetto ritenga la sussistenza, o meno, di tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa, desumibili o dai provvedimenti e dagli elementi, tipizzati nell’art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, o dai provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata.
A differenza delle comunicazioni antimafia, il cui effetto interdittivo, come visto, è esteso non solo ai contratti e alle concessioni, ma anche alle autorizzazioni, le informazioni antimafia, normalmente, esplicano i loro effetti solo in rapporto ai contratti pubblici, alle concessioni e alle sovvenzioni salvo quanto si dirà a seguito dell’introduzione dell’art. 89 bis del codice antimafia.
Con riguardo alla natura giuridica e degli effetti dell’interdittiva antimafia, va precisato che:
1) si tratta di un provvedimento di natura cautelare e preventiva, espressione del bilanciamento tra tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.;
2) costituisce una misura volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione;
3) mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della pubblica amministrazione;
4) preclude all’imprenditore di essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni ovvero destinatario di titoli abilitativi o di contributi, finanziamenti, mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo;
5) determina una particolare forma di incapacità giuridica, parziale e tendenzialmente temporanea, in quanto comporta l’inidoneità del destinatario ad essere titolare di talune situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi).
1.6 L’istituto della white list
Il Legislatore con l’art. 29, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014 è intervenuto in modo organico sul sistema delle c.d. white list e, cioè, su quell’apposito elenco «di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa operanti» in delicati settori delle opere pubbliche, tenuto dalla Prefettura, il cui provvedimento negativo si fonda sugli stessi elementi che devono essere posti a base dell’informazione antimafia, in quanto la Prefettura “effettua verifiche periodiche circa la perdurante insussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa e, in caso di esito negativo, dispone la cancellazione dell’impresa dall’elenco»[8].
Il potenziamento della c.d. white list, modulo ormai generalizzato nella legislazione antimafia, dopo le recenti esperienze delle ricostruzioni postsismiche in Abruzzo e in Emilia, e l’“accreditamento” antimafia degli operatori economici in appositi elenchi, tenuti dalle Prefetture, marginalizza la problematica dei protocolli di legalità e del sistema pattizio delle misure antimafia, che purtuttavia mantiene una propria vitalità, in quanto scongiura a priori il rischio di infiltrazioni mafiose in imprese chiamate a svolgere attività di particolare rilievo, tenute, per svolgere la loro attività (anche nei rapporti con privati, laddove sovvenzionati dallo Stato, come per la ricostruzione postsismica), ad essere iscritte in appositi elenchi, previa verifica, appunto, della loro impermeabilità mafiosa da parte delle Prefetture.
L’equivalenza dei presupposti legittimanti il diniego della iscrizione nella white list con quelli che comporta la adozione della interdittiva determina una sostanziale equiparazione con la differenza che il primo consegue ad un procedimento promosso dal privato, la seconda ad un procedimento avviato d’ufficio.
La principale questione da affrontare riguarda la necessaria presupposizione che il diniego di iscrizione di un’impresa in una delle white list sia sempre preceduto dall’emissione di un’informazione interdittiva ovvero possa essere adottato anche in assenza di tale preliminare informazione ostativa, potendo prescinderne.
Il problema sorge poiché tanto l’esito della domanda di iscrizione quanto il rilascio dell’informativa antimafia sono adempimenti rientranti nelle competenze della Prefettura, ma non necessariamente della medesima Prefettura.
Spesso accade, infatti, che la Prefettura competente al rilascio della certificazione antimafia non corrisponda alla Prefettura di presentazione della domanda di iscrizione nella white list.
Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 18 ottobre 2011, alla cui disciplina rinvia espressamente l’art. 5-bis del DL n. 74 del 2012, dispone che le verifiche circa la sussistenza di situazioni ostative ai sensi della normativa antimafia vengono condotte dalla Prefettura ove ha sede l’impresa interessata all’iscrizione nelle white list (art. 3, comma 2) e che, se l’impresa ha sede in un’altra provincia, occorre attivare «il Prefetto competente» (art. 4, comma 2) ad eseguire le predette verifiche antimafia.
Inoltre, nel caso in cui emergano situazioni di controindicazione, il Prefetto che ha ricevuto la domanda di iscrizione ne dispone il rigetto, dandone «contestualmente» comunicazione al prefetto competente (art. 4, comma 4).
Pertanto, può accadere che la Prefettura competente all’effettuazione delle verifiche antimafia, e dunque preposta alla fase istruttoria, sia quella dove ha sede l’impresa (e nel caso di persone giuridiche per sede si intende quella indicata nell’atto costitutivo o nello statuto).
La Prefettura investita dalla domanda di iscrizione, sia nel caso di accoglimento che di rigetto, deve darne contestuale comunicazione anche al Prefetto competente per l’istruttoria al fine di integrare il quadro delle risultanze istruttorie, non essendo la sua attività decisoria del tutto vincolata[9].
L’art. 4, commi 3 e 4 del DPCM 18 ottobre 2011, infatti, impone un efficace e soprattutto tempestivo collegamento tra le due autorità provinciali di pubblica sicurezza.
L’esigenza primaria è che venga assicurato un esito coerente tra le statuizioni conclusive dei due distinti procedimenti, l’uno innescato da una domanda d’iscrizione nelle white list, l’altro riferibile ad una richiesta di informazione antimafia, in ossequio al principio di unitarietà dell’azione amministrativa.
Infine, anche nel caso di inoltro di una pluralità di domande d’iscrizione presso più Prefetture, si rende necessario uno stretto coordinamento dell’attività istruttoria, considerato che l’art. 3, comma 1, del DPCM, non prevede forme o criteri di unificazione dei procedimenti, che, pertanto, restano formalmente distinti.
Pertanto, a fronte di domande multiple, l’eventuale sussistenza di situazioni meritevoli di approfondimento dovrà essere oggetto in linea di massima di una valutazione collegiale, che veda coinvolti tutti i responsabili dei Gruppi interforze delle diverse Prefetture interessate dagli interventi[10].
1.7 La banca dati nazionale unica della documentazione antimafia
Una importante innovazione è stata rappresentata dall’istituzione, in attuazione dell’art. 2 della legge delega (la l. n. 136 del 13 agosto 2010), della Banca dati nazionale unica della documentazione amministrativa (art. 98, comma 1, del d. lgs. n. 159 del 2011), operativa per effetto dell’adozione del d.P.C.M. n. 193 del 2014, che consente all’autorità prefettizia «di avere una cognizione ad ampio spettro e aggiornata della posizione antimafia di una impresa» e di potere venire a conoscenza, nella consultazione della Banca dati per il rilascio della comunicazione, di ulteriori elementi che la inducano a più seri approfondimenti circa la possibile permeabilità mafiosa dell’impresa e al rilascio di una informazione antimafia[11].
La Banca dati nazionale unica, come è stato rilevato, costituisce anche sotto tale profilo il punto più incisivo della riforma in materia di legislazione antimafia e uno dei “perni del nuovo sistema”[12].
Non a caso nella sentenza n. 4 del 18 gennaio 2018 la Corte costituzionale, anche con riferimento all’art. 3 Cost., ha valorizzato il fondamentale rilievo informativo della Banca dati ed ha affermato non essere manifestamente irragionevole che, secondo l’interpretazione dell’art. 89-bis del d. lgs. n. 159 del 2011 seguita dalla giurisprudenza amministrativa, «a fronte di un tentativo di infiltrazione mafiosa, il legislatore, rispetto agli elementi di allarme desunti dalla consultazione della banca dati, reagisca attraverso l’inibizione, sia delle attività contrattuali con la pubblica amministrazione, sia di quelle in senso lato autorizzatorie, prevedendo l’adozione di un’informazione antimafia interdittiva che produce gli effetti anche della comunicazione antimafia».
1.8 La competenza prefettizia
Nell’attribuire il relativo potere ad un organo periferico del Ministero dell’Interno e nel prevedere il dovere di tutte le altre Amministrazioni di emanare i relativi atti consequenziali, il Legislatore ha tenuto conto sia delle competenze generali delle Prefetture in ordine alla gestione dell’ordine pubblico ed al coordinamento delle Forze dell’ordine, sia dell’esigenza che non sia ciascuna singola Amministrazione – di per sé non avente i necessari mezzi ed esperienze – a porre in essere le relative complesse attività istruttorie e ad emanare singoli provvedimenti ad hoc sulla perdurante sussistenza o meno del «rapporto di fiducia».
Un singolo provvedimento ad hoc – avente per oggetto un solo «rapporto» – rischierebbe, infatti, anche di porsi in contrasto con provvedimenti di altre Amministrazioni che intrattengano rapporti con il medesimo imprenditore.
Il decreto legislativo 13 ottobre 2014, n. 153, ha introdotto alcune importanti disposizioni integrative al Codice delle leggi antimafia.
Particolarmente rilevante è la revisione del principio che individua la competenza territoriale della Prefettura ai fini del rilascio della documentazione antimafia.
La documentazione antimafia è rilasciata dal Prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la propria sede legale ovvero dal Prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato, per le società costituite all'estero di cui alI'art. 2508 c.c., oppure ancora dal Prefetto della provincia in cui i soggetti richiedenti hanno la propria sede, per le società costituite all'estero e prive di una .sede secondaria con rappresentanza stabile net territorio dello Stato.
L’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011 ha imposto una rivisitazione della tesi sugli effetti territorialmente limitati dell’interdittiva al luogo in cui ha sede la stazione appaltante o l’ente che ha concesso i benefici economici, ove si consideri che l’art. 91 del d.lgs. predetto collega alla misura di prevenzione una pluralità di effetti rimessi alla competenza ed all’iniziativa dell’autorità cui essa è comunicata, che travalicano il luogo in cui ha sede l’ente con cui intercorre il rapporto che ha dato origine all’acquisizione della certificazione antimafia.
Infatti, l’art. 91 del d.lgs. n. 159 del 2011 prevede che l’informazione interdittiva è provvedimento da cui possono sorgere una serie di provvedimenti ulteriori, adottati da altri enti, e non tutti predeterminabili a priori nel loro contenuto.
L’art. 91, co. 7 bis recita: “ai fini dell’adozione degli ulteriori provvedimenti di competenza di altre amministrazioni, l’informazione antimafia interdittiva, anche emessa in esito all’esercizio dei poteri di accesso, e’ tempestivamente comunicata anche in via telematica:
- alla Direzione nazionale antimafia e ai soggetti di cui agli articoli 5, comma 1, e 17, comma 1;
- al soggetto di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, che ha richiesto il rilascio dell’informazione antimafia;
- alla camera di commercio del luogo dove ha sede legale l’impresa oggetto di accertamento;
- al prefetto che ha disposto l’accesso, ove sia diverso da quello che ha adottato l’informativa antimafia interdittiva;
- all’osservatorio centrale appalti pubblici, presso la direzione investigativa antimafia;
- all’osservatorio dei contratti pubblici relativi ai lavori, servizi e forniture istituito presso l’Autorità nazionale anti corruzione
- Ai fini dell’inserimento nel casellario informatico di cui all’articolo 7, comma 10, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici di cui all’articolo 62-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82;
- all’Autorità garante della concorrenza e del mercato per le finalita’ previste dall’articolo 5-ter del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27;
- al Ministero delle infrastrutture e trasporti;
- al Ministero dello sviluppo economico;
- agli uffici delle Agenzie delle entrate, competenti per il luogo dove ha sede legale l’impresa nei cui confronti e’ stato richiesto il rilascio dell’informazione antimafia”.
Da quanto detto discende che l’informativa prefettizia spieghi i propri effetti su tutto il territorio nazionale.
[13].
1.9 Il c.d. sistema pattizio delle misure antimafia: i protocolli di legalità
Nella nostra esperienza giuridica, accanto al sistema legislativo delle misure antimafia si affianca il c.d. sistema pattizio espresso dalla prassi dei cc.dd. Protocolli di legalità o Patti di integrità[14], che ha trovato un riconoscimento legislativo adesso nell’art. 1, comma 17, della l. n. 190 del 2012, secondo cui «le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara», e nell’art. 176, comma 3, del d. lgs. n 163 del 2006, ora abrogato, per le cc.dd. opere strategiche.
I protocolli di legalità traggono origine dal patto di integrità sviluppato negli anni ’90 del secolo scorso da Transparency International Italia per aiutare il Governo italiano nella lotta alla corruzione nel settore degli appalti pubblici[15].
Lo sviluppo della legislazione antimafia, anche in funzione di contrasto alla corruzione che inscindibilmente si lega alle infiltrazioni mafiose, ha condotto al riconoscimento legislativo dei protocolli o patti di legalità, nell’art. 1, comma 17, della l. n. 190 del 2012, e alla consacrazione della loro (eventuale) efficacia espulsiva, se prevista dalla lex specialis, nell’ipotesi del loro mancato rispetto.
Al riguardo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sez. X, 22 ottobre 2015, in C-425/14) con una pronuncia relativa proprio alla previsione dei cc.dd. Protocolli di legalità, ma la cui portata sistematica “impatta” sull’intero impianto della legislazione antimafia, ha rilevato che «va riconosciuto agli Stati membri un certo potere discrezionale nell’adozione delle misure destinate a garantire il rispetto del principio della parità di trattamento e dell’obbligo di trasparenza, i quali si impongono alle amministrazioni aggiudicatrici in tutte le procedure di aggiudicazione di un appalto pubblico», perché «il singolo Stato membro è nella posizione migliore per individuare, alla luce di considerazione di ordine storico, giuridico, economico o sociale che gli sono proprie, le situazioni favorevoli alla comparsa di comportamenti in grado di provocare violazioni del rispetto del principio e dell’obbligo summenzionati»[16].
La Corte di Giustizia ha ricordato un importante limite alla loro operatività e, cioè, la soggezione al principio di proporzionalità, sicché gli impegni assunti e le dichiarazioni contenute nei protocolli non possono oltrepassare i limiti di ciò che è necessario al fine di salvaguardare i principî di concorrenza, parità di trattamento e di non discriminazione nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva.
Anche il Consiglio di Stato si è espresso sulla portata dei protocolli di legalità in una nota vicenda, legata ai lavori di Expo 2015.
Nella sentenza della IV sezione, 20 gennaio 2015, n. 143, il Consiglio di Stato ha, infatti, negato, sulla scorta di diversi argomenti di carattere letterale e sistematico, che vi fossero elementi tali per ritenere violato, da parte dell’aggiudicatario dei lavori pubblici di Expo, il protocollo di legalità, e ciò in ragione anche del fatto che nessuna violazione emerse né fu accertata durante la fase selettiva, essendo le notizie delle indagini penali e gli arresti di molto successivi all’aggiudicazione ed alla stessa stipulazione del contratto d’appalto[17].
La sentenza del Consiglio di Stato, tuttavia, ha posto l’accento anche sulla normativa sopravvenuta del d.l. n. 90 del 2014, convertito con mod. nella l. n. 114 del 2014, che, riformando radicalmente la materia dell’anticorruzione, ha inciso notevolmente sulla normativa antimafia (e di cui si dirà nel capitolo 5)[18].
Capitolo 2
Il contenuto delle informative ed il ruolo della giurisprudenza
2.1 la funzione svolta nel sistema dalle informative antimafia
Sino al 2016 si erano registrati in questa materia diversi orientamenti, talvolta più rigorosi, talvolta più flessibili, in particolare nell’apprezzare il grado dimostrativo degli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa posti a base dei provvedimenti interdittivi.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, nella pronuncia n. 1743 del 3 maggio 2016[19] della III sezione, competente sui provvedimenti emessi dal Ministero dell’Interno, ha fornito indicazioni interpretative tendenzialmente univoche e chiare per consentire alle Prefetture e ai Tribunali Amministrativi Regionali di orientarsi in questa materia.
Si è chiarito che le situazioni sintomatiche di infiltrazione mafiosa, tipizzate dal Legislatore comprendono una serie di elementi del più vario genere e, spesso, eterogenei se non, addirittura, di segno contrario, «frutto e cristallizzazione normativa di una lunga e vasta esperienza in questa materia», situazioni che, tra quelle previste dal Codice antimafia.
Spaziano, ad esempio, dalla condanna, anche non definitiva, per taluni delitti da considerare sicuri indicatori della presenza mafiosa (art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011), alla mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione, da parte dell’imprenditore vessato dagli abusi mafiosi, dalle condanne da questo riportate per reati strumentali alle organizzazioni criminali (art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011), alla sussistenza di vicende organizzative, gestionali o anche solo operative che, per le loro modalità, evidenzino l’intento elusivo della legislazione antimafia.
Tali situazioni, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono «forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento»[20].
Il legislatore, ben consapevole di questa mutevolezza della fenomenologia mafiosa nello spazio e nel tempo, ha previsto un catalogo di situazioni sintomatiche del condizionamento “aperto” al costante “aggiornamento” della prassi.
Il Consiglio di Stato, nel passare in rassegna le principali e più ricorrenti di tali situazioni, ha comunque evidenziato che l’impianto motivazionale dell’informazione antimafia (ex se o col richiamo agli atti istruttori) deve fondarsi su una rappresentazione complessiva, imputabile all’autorità prefettizia, degli elementi di permeabilità criminale che possano influire anche indirettamente sull’attività dell’impresa, la quale si viene a trovare in una condizione di potenziale asservimento – o comunque di condizionamento – rispetto alle iniziative della criminalità organizzata di stampo mafioso.
Il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa posto a base dell’informativa deve dar conto in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del “più probabile che non”[21], il giudice amministrativo, chiamato a verificare l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole che tale rischio sussiste.
È, infatti, estranea al sistema delle informazioni antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio, poiché simile logica, propria del giudizio penale, vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informazione antimafia, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante.
2.2 Il principio civilistico del “più probabile che non”.
Secondo il Consiglio di Stato occorre valutare il rischio di inquinamento mafioso in base al criterio del “più probabile che non”, alla luce di una regola di giudizio di tipo probabilistico, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso.
In questo senso, il criterio civilistico del “più probabile che non” si pone quale regola, garanzia e, insieme, strumento di controllo, fondato anche su irrinunciabili dati di esperienza, della valutazione prefettizia e, in particolare, consente di verificare la correttezza dell’inferenza causale che da un insieme di fatti sintomatici, di apprezzabile significato indiziario, perviene alla ragionevole conclusione di permeabilità mafiosa, secondo una logica che nulla ha a che fare con le esigenze del diritto punitivo e del sistema sanzionatorio, laddove vige la regola della certezza al di là di ogni ragionevole dubbio per pervenire alla condanna penale[22].
Quest’ultima regola si palesa consentanea alla garanzia fondamentale della “presunzione di non colpevolezza” di cui all’art. 27, comma 2, Cost., alla quale è ispirato anche l’art. 6 CEDU, cosicché è evidente che l’istituto dell’informativa antimafia non possa in alcun modo ricondursi all’alveo della garanzia anzidetta, in quanto non attiene ad ipotesi di affermazione di responsabilità penale, ma riguarda la prevenzione amministrativa antimafia[23].
L’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco – la libertà di impresa, da un lato, e la salvaguardia della legalità sostanziale delle attività economiche dalle infiltrazioni mafiose, d’altro lato – richiede, piuttosto, all’autorità prefettizia un’attenta valutazione degli elementi indiziari acquisiti, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di condizionamento da parte della criminalità organizzata, e impone, nel contempo, al giudice amministrativo un altrettanto approfondito esame di tali elementi, singolarmente e nella loro intima connessione, per assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte dell’organo governativo nell’esercizio del suo ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale.
I cennati valori costituzionali trovano, peraltro, nella previsione dell’aggiornamento, ai sensi dell’art. 91, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011, un punto di equilibrio fondamentale e uno snodo della disciplina di settore, sia in senso favorevole che sfavorevole all’impresa, nella misura in cui si impone all’autorità prefettizia di considerare i fatti nuovi, laddove sopravvenuti, o anche precedenti – se non noti – e si consente all’impresa stessa di rappresentarli all’autorità stessa, laddove da questa non conosciuti (Cons. St., sez. III, n. 4121 del 2016).
L’ordinamento ha voluto apprestare, per l’individuazione del tentativo di infiltrazione mafiosa nell’economia e nelle imprese, strumenti sempre più idonei e capaci di consentire valutazioni e accertamenti tanto variegati e adeguabili alle circostanze, quanto variabili e diversamente atteggiati sono i mezzi che le mafie usano per cercare di moltiplicare i loro illeciti profitti.
Nella ponderazione degli interessi in gioco – tra cui quello del soggetto ‘indiziato’ a godere delle proprie garanzie di libertà e di difesa – non può pensarsi che l’autorità statale contrasti con ‘armi impari’ la pervasiva diffusione delle organizzazioni mafiose, che hanno, nei sistemi globalizzati, vaste reti di collegamento e profitti criminali quale ‘ragione sociale’ per tendere al controllo di interi territori.
2.3 Le figure sintomatiche di infiltrazioni e condizionamenti
Per questo gli elementi posti a base dell’informazione antimafia possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione.
I fatti che l’autorità prefettizia deve valorizzare prescindono, infatti, dall’atteggiamento antigiuridico della volontà mostrato dai singoli e finanche da condotte penalmente rilevanti, non necessarie per la sua emissione, ma sono rilevanti nel loro valore oggettivo, storico, sintomatico, perché rivelatori del condizionamento che la mafia, in molteplici, cangianti e sempre nuovi modi, può esercitare sull’impresa anche al di là e persino contro la volontà del singolo.
Tra questi fatti la sentenza n. 1743 del 2016 (ma anche le successive) ha indicato, nell’esemplificazione della vasta casistica giurisprudenziale, l’esistenza di legami affettivi che rivelino una regia familiare dell’impresa, considerata anche la struttura “familiare” o clanica delle associazioni mafiose; le vicende societarie anomale, come i walzer nelle cariche sociali occupate e rivestite, a rotazione, sempre dai medesimi soggetti o da prestanome; le frequentazioni ripetute con soggetti malavitosi disvelanti una costante vicinanza alle locali cosche, i rapporti di cointeressenza economica e di compartecipazione societaria con soggetti malavitosi o imprese già colpite da provvedimenti antimafia, secondo la nota teoria del contagio[24]; la c.d. contiguità soggiacente e, ovviamente, le condanne per i cc.dd. delitti-spia, tra i quali, da ultimo, hanno assunto una particolare rilevanza, per lo sviluppo delle cc.dd. ecomafie e il crescente interesse delle associazioni criminali nella gestione del territorio, delle risorse energetiche e dei rifiuti, quelli ambientali, come il traffico illecito di rifiuti (art. 260 del d. lgs. n. 152 del 2006)[25].
Va segnalato che, successivamente alla sentenza n. 1743 del 2016, molte Prefetture hanno recepito le principali indicazioni, provenienti dall’orientamento interpretativo ormai costantemente seguito dal Consiglio di Stato, e si sono impegnate in un maggiore sforzo motivazionale dei provvedimenti antimafia in coerenza con le linee dettate in detta sentenza, al punto che la percentuale di annullamento di tali provvedimenti, nel secondo e definitivo grado del giudizio amministrativo, risulta allo stato molto bassa e, sostanzialmente, inferiore al 10%.
La giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato, dunque, si è attestata su una interpretazione per la quale la finalità preventiva dell’istituto e la conseguente necessità di valutarne la motivazione secondo un criterio di probabilità logica devono misurarsi con il quadro indiziario, sovente eterogeneo a seconda delle realtà locali e comunque sempre mutevole nel tempo, del fenomeno infiltrativo mafioso nel mondo imprenditoriale, dovendo porsi al passo con la rapida evoluzione dell’economia nell’ambito di un sistema ormai improntato alla c.d. globalizzazione e alla dimensione internazionale dei flussi finanziari e degli scambi economici.
Proprio questa necessità, finalizzata ad evitare che la mafia si insinui nell’economia legale in forme e situazioni nuove che sfuggono ai controlli antimafia, ha indotto il legislatore, ad opera del decreto correttivo (d. lgs. n. 153 del 2014), ad introdurre l’art. 89-bis del d. lgs. n. 159 del 2011, il cui comma 1 prevede che, «quando in esito alle verifiche di cui all’articolo 88, comma 2, venga accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, il prefetto adotta comunque un’informazione interdittiva antimafia e ne dà comunicazione ai soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, senza emettere la comunicazione antimafia», e in tal caso, come espressamente sancisce il comma 2, «l’informazione antimafia adottata ai sensi del comma 1 tiene luogo della comunicazione antimafia richiesta».
Va ribadito, infatti, che la valutazione circa il pericolo di infiltrazione mafiosa fa venir meno quella imprescindibile fiducia che l’Amministrazione deve riporre nell’affidabilità dell’imprenditore, allorché entra in rapporto con essa, poiché questa affidabilità è data dalla capacità di questi, oggettivamente verificabile, di non cooperare né di prestarsi in alcun modo, con la sua attività economica, ai disegni della criminalità mafiosa.
E’ stata enucleata a titolo esemplificativo, un’ampia casistica di tali elementi.
Essi, come sopra rilevato, non costituenti, infatti, un numerus clausus, non consistono solo nelle circostanze desumibili dalle sentenze di condanna per particolari delitti e dalle misure di prevenzione antimafia, ma anche da tutti gli altri provvedimenti giudiziari, qualunque sia il loro contenuto dispositivo, recanti motivazioni che lumeggino le situazioni di infiltrazione mafiosa; dai più molteplici e diversi rapporti di parentela, amicizia, colleganza, frequentazione, collaborazione, che per intensità e durata indichino un verosimile pericolo di condizionamento criminale; da vicende anomale nella formale struttura o nella concreta gestione dell’impresa, sintomatiche di cointeressenza o di condiscendenza dell’impresa e dei suoi soci, amministratori, gestori di fatto con il fenomeno mafioso nelle sue più varie forme.
L’informativa antimafia, ai sensi degli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, del d. lgs. n. 159/2011, presuppone «concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».
Sia in sede amministrativa che in sede giurisdizionale, rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione ‘parcellizzata’ di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri.
2.4 Il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa
Il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa posto a base dell’informativa deve dar conto in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del «più probabile che non» (Cons. St., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 4657; Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2011, n. 15709), il giudice amministrativo, chiamato a verificare l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole che tale rischio sussista, valutatene e contestualizzatene tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona.
Va ribadito che è estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né – tanto meno – occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il «concorso esterno» o la commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante.
I fatti che l’autorità prefettizia deve valorizzare prescindono, infatti, dall’atteggiamento antigiuridico della volontà mostrato dai singoli e finanche da condotte penalmente rilevanti, non necessarie per la sua emissione, come meglio si dirà, ma sono rilevanti nel loro valore oggettivo, storico, sintomatico, perché rivelatori del condizionamento che la mafia, in molteplici, cangianti e sempre nuovi modi, può esercitare sull’impresa anche al di là e persino contro la volontà del singolo.
Anche soggetti semplicemente conniventi con la mafia (dovendosi intendere con tale termine ogni similare organizzazione di stampo criminale «comunque localmente denominata»), per quanto non concorrenti, nemmeno esterni, con siffatta forma di criminalità, e persino imprenditori soggiogati dalla sua forza intimidatoria e vittime di estorsioni sono passibili di informativa antimafia.
Infatti, la mafia, per condurre le sue lucrose attività economiche nel mondo delle pubbliche commesse, non si avvale solo di soggetti organici o affiliati ad essa, ma anche e sempre più spesso di soggetti compiacenti, cooperanti, collaboranti, nelle più varie forme e qualifiche societarie, sia attivamente, per interesse, economico, politico o amministrativo, che passivamente, per omertà o, non ultimo, per il timore della sopravvivenza propria e della propria impresa[26].
2.5 Le situazioni rilevanti
Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa, tipizzate dal legislatore, comprendono dunque una serie di elementi del più vario genere e, spesso, anche di segno opposto, frutto e cristallizzazione normativa di una lunga e vasta esperienza in questa materia, situazioni che spaziano dalla condanna, anche non definitiva, per taluni delitti da considerare sicuri indicatori della presenza mafiosa (art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011), alla mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione, da parte dell’imprenditore, dalle condanne per reati strumentali alle organizzazioni criminali (art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011), alla sussistenza di vicende organizzative, gestionali o anche solo operative che, per le loro modalità, evidenzino l’intento elusivo della legislazione antimafia.
Esistono poi, come insegna l’esperienza applicativa della legislazione in materia e la vasta giurisprudenza formatasi sul punto nel corso di oltre venti anni, numerose altre situazioni, non tipizzate dal legislatore, che sono altrettante ‘spie’ dell’infiltrazione (nella duplice forma del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa).
2.6 La casistica -
Quello voluto dal legislatore, ben consapevole di questo, è dunque un catalogo aperto di situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso.
Va valutato perciò il rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale, sulla base dei seguenti elementi:
a) i provvedimenti ‘sfavorevoli’ del giudice penale;
b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione;
c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011;
d) i rapporti di parentela;
e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia;
f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa;
g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa;
h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’;
i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
2.7 I provvedimenti del giudice penale
Innanzitutto rilevano i provvedimenti del giudice penale che dispongano una misura cautelare o il giudizio o che rechino una condanna, anche non definitiva, di titolari, soci, amministratori, di fatto e di diritto, direttori generali dell’impresa, per uno dei delitti-spia previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011.
Tra questi delitti (rilevanti pur se ‘risalenti nel tempo’), un particolare rilievo hanno quelli di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), turbata libertà di scelta del contraente (art. 353-bis c.p.), estorsione (art. 629 c.p.), truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), usura (art. 644 c.p.), riciclaggio (art. 648-bis c.p.) o impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.), e quelli indicati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., cioè, tra gli altri, i delitti di associazione semplice (art. 416 c.p.) o di associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) o tutti i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. o per agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché l’art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992, convertito con modificazioni dalla l. n. 356 del 1992.
Rilevano anche tutti i provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, di cui all’art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011.
Le sentenze di proscioglimento o di assoluzione hanno una specifica rilevanza, ove dalla loro motivazione si desuma che titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa, pur essendo andati esenti da condanna, abbiano comunque subìto, ancorché incolpevolmente, un condizionamento mafioso che pregiudichi le libere logiche imprenditoriali.
Può rilevare, più in generale, qualsivoglia provvedimento del giudice civile, penale, amministrativo, contabile o tributario, quale che sia il suo contenuto decisorio, dalla cui motivazione emergano elementi di condizionamento, in qualsiasi forma, delle associazioni malavitose sull’attività dell’impresa o, per converso, l’agevolazione, l’aiuto, il supporto, anche solo logistico, che questa abbia fornito, pur indirettamente, agli interessi e agli affari di tali associazioni.
2.8 Gli atti relativi alla applicazione delle misure di prevenzione
Rileva anche la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011, siano esse di natura personale o patrimoniale, nei confronti di titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e dei loro parenti, proprio in coerenza con la logica preventiva e anticipatoria che sta a fondamento delle misure in esame.
2.9 I rapporti parentali
Quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, sempre per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto.
Ai rapporti di parentela l’autorità amministrativa, in presenza di altri elementi univoci e sintomatici, può anche assimilare quei «rapporti di comparaggio», derivanti da consuetudini di vita.
Infatti, specialmente nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza.
Una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione.
Sotto tale profilo, hanno rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito).
In materia, possono risultare utili anche i principi formulati in materia di revoca delle licenze di polizia, quando abbiano ad oggetto armi e munizioni, e cioè in una materia in cui similmente si pongono – sia pure sotto distinti profili – aspetti di protezione dell’ordine pubblico.
Infatti, l’autorità di polizia può ragionevolmente disporre la revoca quando il titolare della licenza sia un congiunto di un appartenente alla criminalità organizzata e sia con questi convivente: si può senz’altro ritenere sussistente un pericolo di abuso, quando un’arma sia custodita nella stessa abitazione di un appartenente alla criminalità organizzata, non solo perché è concretamente ipotizzabile che vi sia la possibilità di utilizzare l’arma senza il consenso del titolare della licenza, ma anche perché il legame familiare e la convivenza comportano reciproci condizionamenti.
Similmente, il provvedimento del Prefetto può ritenere sussistente il pericolo di condizionamento mafioso, quando l’imprenditore conviva con un congiunto, risultato appartenente ad un sodalizio criminoso.
Il condizionamento mafioso è stato ricavato dalla presenza anche di un solo dipendente “infiltrato”.
Con la decisione del Consiglio di Stato sezione III 14 settembre 2018 numero 5410 si è affermato il principio che il condizionamento mafioso, che porta all’interdittiva, può derivare dalla presenza di soggetti che non svolgono ruoli apicali all’interno della società, ma siano o figurino come meri dipendenti, entrati a far parte dell’impresa senza alcun criterio selettivo e filtri preventivi.
Il condizionamento mafioso si può desumere anche dalla presenza di un solo dipendente “infiltrato”, del quale la mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno l’impresa, nonché dall’assunzione o dalla presenza di dipendenti aventi precedenti legati alla criminalità organizzata, nonostante non emergano specifici riscontri oggetti sull’influenza nelle scelte dell’impresa.
Le imprese possono effettuare liberamente le assunzioni quando non intendono avere rapporto con le pubbliche amministrazioni: ove intendano avere, invece, tali rapporti devono vigilare affinché nella loro organizzazione non vi siano dipendenti contigui al mondo della criminalità organizzata.
Ha aggiunto il Consiglio di Stato che quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia.
Il Consiglio di Stato con la sentenza III 20 settembre 2018 n. 5480 ha affrontato la problematica dell’impresa a conduzione familiare.
La società a conduzione familiare assume particolare rilievo nell’ambito della prevenzione antimafia, poiché proprio quando dietro la singola realtà d’impresa vi è un nucleo familiare particolarmente compatto e coeso è statisticamente più facile che coloro i quali sono apparentemente al di fuori delle singole realtà aziendali possono curarne (o continuare a curarne la gestione) e, comunque interferire in quest’ultima facendo leva sui più stretti congiunti; proprio il nucleo familiare “allargato”, ma unito nel curare gli “affari” di famiglia, è uno degli strumenti di cui più frequentemente si serve la criminalità organizzata di stampo mafioso per la penetrazione legale nell’economia.
Il dato relativo alla parentela non deve essere assunto nella sua rigida materialità, ma per le implicazioni logico-presuntive che lo stesso, attentamente esaminato anche alla luce di tutte le circostanze caratterizzanti lo specifico contesto societario e familiare, così come enucleate (più o meno esplicitamente) dall’organo prefettizio, è suscettibile di generare: implicazioni che compete in primo luogo al giudice, in sede di sindacato sulla legittimità dell’informativa interdittiva, attentamente estrapolare dal provvedimento impugnato e dagli atti istruttori che ne hanno preceduto l’adozione.
In via di ulteriore sviluppo dei rilievi che precedono, la “famiglia”, anche da un punto di vista sociologico, in quanto gruppo di persone caratterizzato, in linea tendenziale, dalla condivisione di valori e finalità, costituisce il “naturale” canale di trasmissione di eventuali “propensioni” criminali, le quali finiscono per propagarsi dall’uno all’altro dei suoi membri, da un lato, in virtù dell’appartenenza degli stessi ad un unico habitat socio-economico, dall’altro lato, in forza del legame di solidarietà che, in misura più o meno marcata, li avvince.
2.10 I contatti ed i rapporti di frequentazione
Con riguardo ai contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci, amministratori, dipendenti dell’impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia, l’Amministrazione può ragionevolmente attribuire loro rilevanza quando essi non siano frutto di casualità o, per converso, di necessità.
Se di per sé è irrilevante un episodio isolato ovvero giustificabile, sono invece altamente significativi i ripetuti contatti o le ‘frequentazioni’ di soggetti coinvolti in sodalizi criminali, di coloro che risultino avere precedenti penali o che comunque siano stati presi in considerazione da misure di prevenzione.
Tali contatti o frequentazioni (anche per le modalità, i luoghi e gli orari in cui avvengono) possono far presumere, secondo la logica del «più probabile che non», che l’imprenditore – direttamente o anche tramite un proprio intermediario – scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi.
Quand’anche ciò non risulti punibile (salva l’adozione delle misure di prevenzione), la consapevolezza dell’imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità (che lo Stato deve invece demarcare e difendere ad ogni costo) deve comportare la reazione dello Stato proprio con l’esclusione dell’imprenditore medesimo dal conseguimento di appalti pubblici e comunque degli altri provvedimenti abilitativi individuati dalla legge.
In altri termini, l’imprenditore che – mediante incontri, telefonate o altri mezzi di comunicazione, contatti diretti o indiretti – abbia tali rapporti (e che si espone al rischio di esserne influenzato per quanto riguarda le proprie attività patrimoniali e scelte imprenditoriali) deve essere consapevole della inevitabile perdita di ‘fiducia’, nel senso sopra precisato, che ne consegue (perdita che il provvedimento prefettizio attesta, mediante l’informativa).
Con riguardo all’adozione di interdittive antimafia in conseguenza della vicinanza dei titolari o degli amministratori ad ambienti mafiosi va richiamata la sentenza del Consiglio di Stato sezione III 13 aprile 2018 numero 2231.
Si riconosce, infatti, la legittimità dell’interdittiva antimafia adottata sul rilievo che il titolare di impresa individuale immune da pregiudizi penali, ha significativi legami con una famiglia vicina alla cosca mafiosa, operante in zona in cui è particolarmente presente il fenomeno mafioso.
Si afferma, infatti, che pur essendo necessario che siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la Pubblica amministrazione - non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.
2.11 Le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa
Rilevano altresì le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa, sia essa in forma individuale o collettiva, nonché l’abuso della personalità giuridica.
Tali vicende e tale abuso non sono altrimenti spiegabili, secondo la logica del «più probabile che non», se non con la permeabilità mafiosa dell’impresa e il malcelato intento di dissimularla, come, ad esempio, nei casi previsti dall’art. 84, comma 4, lett. f), del d. lgs. n. 159 del 2011 e, cioè, le sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società, nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva con soggetti destinatari di provvedimenti di cui alle lettere a) e b) dello stesso art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011.
Operazioni realizzate con modalità che, per i tempi in cui vengono poste in essere, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti e le qualità dei subentranti, «denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia».
Rilevano, più in generale, tutte quelle operazioni fraudolente, modificative o manipolative della struttura dell’impresa, che essa esercitata in forma individuale o societaria:
– scissioni, fusioni, affitti di azienda o anche solo di ramo di azienda, acquisti di pacchetti azionari o di quote societarie da parte di soggetti, italiani o esteri, al di sopra di ogni sospetto, spostamenti di sede, legale od operativa, in zone apparentemente ‘franche’ dall’influsso mafioso;
– aumenti di capitale sociale finalizzati a garantire il controllo della società sempre da parte degli stessi soggetti, patti parasociali, rimozione o dimissioni di sindaci o controllori sgraditi;
– walzer di cariche sociali tra i medesimi soggetti, partecipazioni in altre società colpite da interdittiva antimafia, gestione di diverse società, operanti in settori diversi, ma tutte riconducibili alla medesima governance e spostamenti degli stessi soggetti dalle cariche sociali dell’una o dell’altra, etc.
Tali operazioni vanno considerate fraudolente, quando sono eseguite al malcelato fine di nascondere o confondere il reale assetto gestionale e con un abuso delle forme societarie, dietro il cui schermo si vuol celare la realtà effettiva dell’influenza mafiosa, diretta o indiretta, ma pur sempre dominante.
Rilevano inoltre le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, riscontrate dal Prefetto anche mediante i poteri di accesso e di accertamento di cui alle lettere d) ed e) dell’art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, consistenti in fatti che lasciano intravedere, nelle scelte aziendali, nelle dinamiche realizzative delle strategie imprenditoriali, nella stessa fase operativa e nella quotidiana attività di impresa, evidenti segni di influenza mafiosa.
Tale casistica è assai varia, potendo avere rilievo, a solo titolo esemplificativo:
– le cc.dd. teste di legno poste nelle cariche sociali, le sedi legali con uffici deserti e le sedi operative ubicate presso luoghi dove invece hanno sede uffici di altre imprese colpite da antimafia;
– l’inspiegabile presenza sul cantiere di soggetti affiliati alle associazioni mafiose;
– il nolo di mezzi esclusivamente da parte di imprese locali gestite dalla mafia;
– il subappalto o la tacita esecuzione diretta delle opere da parte di altre imprese, gregarie della mafia o colpite da interdittiva antimafia;
– i rapporti commerciali intrattenuti solo con determinate imprese gestite o ‘raccomandate’ dalla mafia;
– le irregolarità o le manomissioni contabili determinate dalla necessità di camuffare l’intervento e il tornaconto della mafia nella effettiva esecuzione dell’appalto;
– gli stati di avanzamento di lavori ‘gonfiati’ o totalmente mendaci;
– l’utilizzo dei beni aziendali a titolo personale, senza alcuna ragione, da parte di soggetti malavitosi;
– la promiscuità di forze umane e di mezzi con imprese gestite dai medesimi soggetti riconducibili alla criminalità e già colpite, a loro volta, da interdittiva antimafia;
– l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali;
– i rapporti tra impresa e politici locali collusi con la mafia o addirittura incandidabili.
2.12 La condivisione del sistema di illegalità
Quanto alla condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’, la perdita di ‘fiducia’ – giustificativa della interdittiva – si può legittimamente basare anche sulla manifestata disponibilità dell’imprenditore a far parte di un sistema di gestione di un settore, caratterizzato da illegalità, con ‘scambi di favori’ (riferibili, ad es., ad una volontaria mancata partecipazione ad una gara, ‘in cambio’ di successivi vantaggi).
Può avere un rilievo decisivo – per escludere la fiducia necessaria perché vi siano i contatti con la pubblica Amministrazione – anche l’inserimento dell’imprenditore in un contesto di illegalità o di abusivismo, reiterato e costante o anche solo episodico, ma particolarmente allarmante, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità, sintomatiche di una sostanziale impunità.
In tali casi, il Prefetto può desumere ulteriori argomenti per ritenere che l’imprenditore possa contare in loco su ‘coperture’ e connivenze, anche presso gli uffici pubblici, valendosi del clima tipico di una realtà pervasa e soggiogata dall’influenza mafiosa.
Il Consiglio di stato (Sez. III Sent., 26 maggio 2017, n. 2510) ha affermato il principio che le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa, tipizzate dal legislatore, comprendono una serie di elementi del più vario genere e, spesso, anche di segno opposto, frutto e cristallizzazione normativa di una lunga e vasta esperienza in questa materia, situazioni che spaziano dalla condanna, anche non definitiva, per taluni delitti da considerare sicuri indicatori della presenza mafiosa (art. 84, comma 4, lett. a), d.lgs. n. 159/2011, Codice antimafia) alla mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione, da parte dell'imprenditore, dalle condanne per reati strumentali alle organizzazioni criminali (art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159/2011, Codice antimafia), alla sussistenza di vicende organizzative, gestionali o anche solo operative che, per le loro modalità, evidenzino l'intento elusivo della legislazione antimafia.
2.13 La valutazione non atomistica delle circostanze
Può essere sufficiente a giustificare l’emissione dell’informativa anche uno dei sopra indicati elementi indiziari: la valutazione del provvedimento prefettizio si può ragionevolmente basare anche su un solo indizio, che comporti una presunzione, qualora essa sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli elementi di giudizio ad essa contrari.
Ciò in quanto, come afferma la consolidata giurisprudenza, il ragionamento indiziario può fondarsi anche su un unico elemento presuntivo, purché non contrastato da altro ragionamento presuntivo di segno contrario, con la conseguenza che il requisito della concordanza, previsto dall’art. 2729 c.c., perde il carattere di requisito necessario e finisce per essere elemento eventuale della valutazione presuntiva, destinato ad operare solo laddove ricorra una pluralità di presunzioni (v., ex plurimis, Cass., sez. I, 26.3.2003, n. 4472).
2.14 Orientamenti (in parte) divergenti
In parte divergente è l’orientamento espresso (tra le altre) nella sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana 9 luglio 2018, n. 385, secondo cui in sede di applicazione dell'interdittiva antimafia, che è una tipica misura di prevenzione, l'Amministrazione procedente deve sempre evidenziare qual è la condotta, obiettivamente percepibile, che induce a ritenere che vi sia stato un tentativo di infiltrazione mafiosa.
Si ritiene nella pronuncia che le norme che impongono alle Amministrazioni, agli Enti pubblici ed alle società comunque da essi controllate di acquisire la "documentazione antimafia" (di cui all'art. 84 del codice antimafia) prima di stipulare contratti relativi a lavori e/o servizi pubblici o a pubbliche forniture e/o prima di adottare determinati provvedimenti concessori o autorizzatori (nella specie: quelli indicati dall'art. 67 del predetto codice), sono norme di ordine pubblico che comprimono, in funzione di prevenzione anticrimine, libertà e diritti fondamentali.
Le statuizioni in esse contenute sarebbero, pertanto, inderogabili, tanto in favore che anche in pregiudizio di chicchessia (e cioè tanto al fine e per l'effetto di escludere, quanto al fine e per l'effetto di includere, taluni soggetti e/o talune fattispecie dal loro raggio di efficacia), e tassative. Sicché (e perciostesso), esse non sono estendibili analogicamente a casi simili, né applicabili oltre i casi descritti, anche se al solo scopo di colmare eventuali lacune.
Poiché tali norme incidono su libertà fondamentali e su diritti costituzionalmente garantiti, limitandone l'esercizio, nessuna Amministrazione potrebbe decidere di estenderne l'applicazione oltre i casi stabiliti dal Legislatore, rendendole operative anche nei confronti ed a carico di soggetti o per fattispecie (da esse) non contemplati espressamente.
E ciò neanche nel caso in cui le Amministrazioni preposte alla tutela dell'ordine pubblico, ed alla repressione e prevenzione dei reati si accordino in tal senso con le Stazioni appaltanti. Non esiste, infatti, alcuna norma che devolva un potere di tal fatta - il potere di estendere norme impeditive e tassative a casi non espressamente menzionati - ad alcun settore, plesso o ramo dell'Amministrazione, al di fuori del caso, che qui non ricorre, delle ordinanze contingibili e urgenti alle quali è consentito - a determinate e tassative condizioni - di derogare a norme primarie.
Si rileva inoltre che se una norma di tal fatta esistesse, sarebbe lecito interrogarsi in ordine alla sua legittimità costituzionale, posto che il "principio di legalità" ne risulterebbe vulnerato; e con esso finanche l'altrettanto prezioso "principio della separazione dei poteri[27].
Capitolo 3
Procedimento e contenzioso
3.1 Documentazione antimafia e procedimento amministrativo: peculiarità
L'informazione antimafia deve essere richiesta dalle pubbliche amministrazioni e dagli enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, dagli enti e dalle aziende vigilate dallo Stato o da altro ente pubblico e dalle società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico, nonché dai concessionari di opere pubbliche e dai contraenti generali.
Gli enti locali sciolti ai sensi dell'art. 143 del D. Lgs. 18 agosto 2000, n.267 devono acquisire, nei cinque anni successivi allo scioglimento, l'informazione indipendentemente dal valore economico.
La delicatezza degli interessi sottesi alla previsione della documentazione antimafia e l’esigenza di ordine pubblico che la legislazione antimafia difende, proprio a livello preventivo, giustificano la portata derogatoria degli istituti della legislazione amministrativa antimafia rispetto alle generali regole sul procedimento amministrativo, consacrate dalla l. n. 241 del 1990 e delle successive leggi di riforma (si pensi, per tutte e da ultimo, alla l. n. 124 del 2015), e l’attenuazione delle garanzie procedimentali che, come pure il Consiglio di Stato afferma nella sua giurisprudenza più recente[28] e sulla scorta, peraltro, di un più generale e consolidato orientamento del diritto vivente in materia di provvedimenti antimafia[29], non sono un valore assoluto, da preservare ad ogni costo e in ogni caso, ma solo beni di ordine procedimentale, meritevoli di protezione se e in quanto compatibili con la tutela di valori differenti, di rango superiore, come quelli di ordine pubblico e di contrasto al crimine organizzato che qui vengono in rilievo[30].
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ribadisce, così, che in questo tipo di procedimenti non sono previsti come obbligatori né la comunicazione di avvio, di cui all’art. 7 della l. n. 241 del 1990, né le ordinarie garanzie partecipative,[31] e che il vincolo dei provvedimenti prefettizi antimafia, rispetto alle amministrazioni destinatarie della documentazione antimafia tenute a recepirne l’effetto interdittivo senza margini di residua discrezionalità[32], rende irrilevante l’esistenza da errori procedimentali da queste compiuti nell’emissione dei provvedimenti consequenziali al documento antimafia (si pensi alla doverosa revoca delle aggiudicazioni o ai recessi dai contratti già stipulati), vizi che non sortiscono efficacia c.d. invalidante ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della stessa l. n. 241 del 1990 per il contenuto vincolato dei provvedimenti stessi[33].
3.2 Il contenuto motivazionale dell’informativa
Non si richiedono all’informativa antimafia formalismi linguistici né formule sacramentali, essendo idoneo a sorreggere la valutazione discrezionale del provvedimento prefettizio anche un apparato motivazionale asciutto, scarno, finanche poco elaborato, dal quale, però, si evincano le ragioni sostanziali che giustificano la valutazione di permeabilità mafiosa dell’impresa sulla base degli elementi raccolti.
Quanto alla motivazione della informativa, essa:
a) deve «scendere nel concreto», e cioè indicare gli elementi di fatto posti a base delle relative valutazioni;
b) deve indicare le ragioni in base alle quali gli elementi emersi nel corso del procedimento siano tali da indurre a concludere in ordine alla sussistenza dei relativi presupposti e, dunque, in ordine alla «perdita di fiducia», nel senso sopra chiarito dell’affidabilità, che le Istituzioni nutrono nei confronti dell’imprenditore.
Qualora i fatti valutati risultino chiari ed evidenti o quanto meno altamente plausibili (ad es. perché risultanti da articolati provvedimenti dell’Autorità giudiziaria o da relazioni adeguatamente redatte nel corso del procedimento), il provvedimento prefettizio – che in tali casi assume quasi un carattere vincolato, nell’ottica del legislatore – si può anche limitare a rimarcare la loro sussistenza, provvedendo di conseguenza.
Ove invece i fatti emersi nel corso del procedimento risultino in qualche modo marcatamente opinabili, e si debbano effettuare collegamenti e valutazioni, il provvedimento prefettizio deve motivatamente specificare quali elementi ritenga rilevanti e come essi si leghino tra loro.
In altri termini, se gli atti richiamati nel provvedimento prefettizio – emessi da organi giudiziari o amministrativi – già contengono specifiche valutazioni degli elementi emersi, il provvedimento prefettizio si può intendere sufficientemente motivato per relationem, anche se fa ad essi riferimento.
Se invece gli atti richiamati contengono una sommatoria di elementi eterogenei non ancora unitariamente considerati (ad es., perché si sono susseguite relazioni delle Forze dell’ordine indicanti meri dati di fatto), spetta al provvedimento prefettizio valutare tali elementi eterogenei.
In materia, non rilevano formalismi linguistici, non occorrendo l’utilizzo di una terminologia tecnico-giuridica nelle relazioni redatte dalle Forze dell’ordine, chiamate al delicato compito di controllo del territorio.
È condizione necessaria e sufficiente, invece, l’effettiva sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e basta una ragionevole valutazione – pur priva di formule sacramentali – del contenuto obiettivo delle risultanze acquisite, che può anche evidenziare, se del caso, la condivisione delle conclusioni già in precedenza esplicitate nel corso del procedimento.
Quand’anche il provvedimento prefettizio contenga una motivazione poco curata e scarna (che, cioè, si sia limitata ad elencare o a richiamare le risultanze procedimentali, senza alcuna rielaborazione concettuale), profili di eccesso di potere possono risultare effettivamente sussistenti solo se, a loro volta, anche gli atti del procedimento non siano congruenti e siano carenti di effettivi contenuti, frettolosi o immotivati e, sostanzialmente, non sindacabili nemmeno nel loro valore indiziario.
Profili di inadeguatezza della valutazione vanno esclusi se – mediante una tale motivazione per relationem – negli atti risultino richiamate, in altri termini, le effettive ragioni sostanziali poste a base del provvedimento prefettizio.
Al contrario, se gli atti del procedimento risultino poco perspicui o, addirittura, imperscrutabili (e, cioè, consistano in un mero elenco di elementi eterogenei e non evidenzino una ragionata valutazione del loro significato indiziario), il provvedimento prefettizio deve desumere dagli atti istruttori quegli elementi che giustifichino la misura adottata.
In ogni caso, l’impianto motivazionale dell’informativa (ex se o col richiamo agli atti istruttori) deve fondarsi su una rappresentazione complessiva, imputabile all’autorità prefettizia, degli elementi di permeabilità criminale che possano influire anche indirettamente sull’attività dell’impresa, la quale si viene a trovare in una condizione di potenziale asservimento – o comunque di condizionamento – rispetto alle iniziative della criminalità organizzata di stampo mafioso (ovvero «comunque localmente denominata»).
Il rinvio, per relationem, alle relazioni predisposte dalle Forze di Polizia può riportare le ragioni che inducono il Prefetto a ritenere probabile che da uno o più di tali elementi, per la loro attualità, univocità e gravità, sia ragionevole desumere il pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa.
Se la valutazione unitaria non traspare dagli atti del procedimento, occorre che essa sia effettuata dal Prefetto, con una motivazione che può anche non essere analitica e diffusa, ma che richiede un calibrato giudizio sintetico su uno o anche più di detti elementi presuntivi, sopra indicati.
La valutazione della prova presuntiva, giova qui ricordare, esige che dapprima il Prefetto in sede amministrativa (come poi il giudice amministrativo nell’esercizio dei suoi poteri quale giudice di legittimità) esamini tutti gli indizi di cui disponga, non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché equivoci, così da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l’esistenza del fatto da provare.
3.3 L’efficacia temporale
L’art. 86, comma 2, del d. lgs. n. 159 del 2011, dispone che «l’informazione antimafia, acquisita dai soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, con le modalità di cui all’articolo 92, ha una validità di dodici mesi dalla data dell’acquisizione, salvo che non ricorrano le modificazioni di cui al comma 3».
La disposizione pone vari problemi applicativi.
Va premesso che l’art. 86, comma 2, benché si riferisca alla «validità» dell’informativa, regola propriamente l’efficacia dell’informazione antimafia.
La formulazione letterale del dettato normativo ha prestato il fianco ad incertezze e contrasti interpretativi poiché:
- per una prima lettura, il decorso del termine annuale determinerebbe l’«invalidità» (vale a dire l’inefficacia) ipso iure dell’informativa negativa e di quelle, successive, che su di essa esclusivamente si fondino;
- per un’altra lettura, il decorso del medesimo termine non priverebbe, comunque, di efficacia il provvedimento già emesso e di rilevanza sintomatica gli elementi posti a base dell’informativa negativa, consentendo l’emanazione di un atto di esso ricognitivo ovvero di un successivo provvedimento interdittivo che li recepisca.
La giurisprudenza ritiene decisiva la portata letterale dell’art. 86, comma 2, del d. lgs. n. 159 del 2011, che si inserisce in un quadro sistematico organico e coerente e pertanto ad una interpretazione fondata sul criterio logico sistematico.
Quale disposizione che regola una «fattispecie procedimentalmente complessa», infatti, l’art. 86, comma 2:
- non riguarda di per sé l’efficacia temporale della misura interdittiva che constata il pericolo della infiltrazione e, dunque, neppure riguarda l’ambito dei doveri della Prefettura dopo il decorso dell’anno dalla sua emanazione;
- del tutto diversamente l’art. 86, comma 2, disciplina, invece, l’ambito dei doveri delle pubbliche amministrazioni e degli enti di cui all’art. 83, i quali – in base al comma 2, quando sia comunque decorso un anno dalla acquisizione dell’informativa – devono nuovamente acquisire la documentazione antimafia, prima di emanare uno degli atti elencati dai commi 1 e 2 dell’art. 67 (come richiamati dal medesimo art. 83, comma 1), e quindi richiedere al Prefetto una nuova informativa che è pienamente legittima, anche se richiami i soli elementi di quella precedentemente emessa, confermando il pericolo di infiltrazione mafiosa, laddove non sopravvengano elementi nuovi[34].
Viene, infatti, rimarcato, sotto il profilo letterale, che l’art. 86, comma 2, del d. lgs. n. 159 del 2011 ha riferito la rilevanza del termine di dodici mesi non alla data di «emanazione» della interdittiva che rileva il pericolo della infiltrazione (e, cioè, ad un’unica data, di cui dovrebbero tenere conto i soggetti indicati nell’art. 83, commi 1 e 2), ma alla data di «acquisizione» della interdittiva, da parte dei medesimi soggetti, data che ben può variare e comunque non può essere unica in presenza di diverse amministrazioni che la richiedano, e ricevano, non contestualmente (si pensi, ad esempio, a diverse gare, svolte e concluse in diversi periodi, o all’erogazione di contributi a sostegno di numerose aziende agricole).
Occorre tener presente, per altro verso, che a seguito dell’emanazione della misura interdittiva i conseguenti atti applicativi possono essere emanati dalle singole amministrazioni, specialmente in procedure particolarmente complesse, anche a distanza di molto tempo dall’acquisizione della informazione antimafia, sicché anche sotto tale profilo appare ragionevole la previsione secondo cui la stessa efficacia nel tempo dell’informativa ricevuta dalla singola amministrazione richiedente dipende, in riferimento ad essa e solo in riferimento ad essa, dalla data in cui essa l’ha acquisita.
In altri termini, sotto il profilo letterale, l’art. 86, comma 2:
a) non si riferisce ai doveri della Prefettura ed alla durata delle sue misure ad effetto interdittivo che, dunque, hanno efficacia tendenzialmente indeterminata nel tempo, salvo quanto si dirà circa gli elementi sopravvenuti;
b) impone, invece, ai medesimi soggetti di applicare l’art. 83, cioè di acquisire la documentazione antimafia, anche dopo il decorso dell’anno dalla sua emanazione;
c) va inteso nel senso che il termine di dodici mesi, ivi previsto, per ciascuno degli soggetti destinatari comincia a decorrere dalla formale «acquisizione», singulatim, dell’informazione antimafia, con la conseguenza giuridica che – decorsi dodici mesi da essa – gli stessi soggetti devono nuovamente attivarsi ai sensi dell’art. 83;
d) il Prefetto, laddove richiesto dai soggetti di cui all’art. 83 di rilasciare una nuova informazione antimafia trascorso l’anno, potrà (e dovrà) legittimamente limitarsi ad emetterla richiamando quella precedentemente emessa, recependone i contenuti, laddove non sopraggiungano elementi nuovi capaci di modificare o superare, nell’attualità, i fatti posti a base della precedente.
Va richiamata, pertanto, la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, per cui col decorso dell’anno non perde efficacia la misura interdittiva che rileva il pericolo di condizionamento mafioso[35].
L’art. 2, comma 1, del d.P.R. n. 252 del 1998 (la cui disposizione è stata poi riportata nell’art. 86, commi 1 e 2 del d. lgs. n. 159 del 2011) deve intendersi riferito, infatti, ai casi di documentazioni che attestino l’assenza di pericolo di infiltrazione mafiosa – cc.dd. informative negative – e non già ai riscontri indicativi del pericolo, i quali ultimi conservano la loro valenza anche oltre il termine indicato nella disposizione (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 22 gennaio 2014, n. 292).
La sopravvenienza di fatti favorevoli all’imprenditore impone all’Amministrazione di verificare nuovamente se persistano ragioni di sicurezza e di ordine pubblico tali da prevalere sull’iniziativa e sulla libertà di impresa del soggetto inciso.
L’attualità degli elementi indizianti, da cui trarre la sussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa, permane tuttavia inalterata fino al sopraggiungere di fatti nuovi ed ulteriori rispetto ad una precedente valutazione di presenza di tentativi siffatti, che evidenzino il venir meno della situazione di pericolo.
Il superamento del rischio di inquinamento mafioso è, pertanto, da ricondursi non tanto al trascorrere del tempo dall’ultima verifica effettuata senza che sia emersa alcuna evenienza negativa, bensì «al sopraggiungere di fatti positivi che persuasivamente e fattivamente introducano elementi di inattendibilità della situazione rilevata in precedenza» (così la sentenza Cons. St., sez. III, 22 gennaio 2014, n. 292).
Tale ratio decidendi, come ha ulteriormente chiarito la sentenza della sez. V, 1° ottobre 2015, n. 4602, trova conforto anche in argomenti di tipo letterale e teleologico:
- in primo luogo sul piano letterale, nella decorrenza del termine di efficacia prevista dall’art. 86, comma 2, del d. lgs. n. 159 del 2011, individuata dal legislatore nell’«acquisizione» dell’informativa da parte delle Amministrazioni e, dunque, ad un evento non riferibile all’epoca degli accertamenti sulla base dei quali è stata emessa l’informativa, ma alla conoscenza che di essi hanno avuto successivamente le Amministrazioni tenute ad applicare il divieto di contrarre sancito dall’art. 94 del d. lgs. n. 159 del 2011;
- in secondo luogo, ancora sul piano letterale, dalla clausola rebus sic stantibus prevista sempre dall’art. 86, comma 2, del d. lgs. n. 159 del 2011, ad esempio in relazione ai casi di modificazioni degli assetti societari e gestionali dell’impresa, in ipotesi capaci di modificare la valutazione alla base dell’informativa emessa dalla Prefettura;
- in terzo luogo, sul piano teleologico, nella piena coerenza dell’efficacia temporale illimitata, salve successive modifiche, dell’interdittiva con la finalità preventiva delle informative antimafia, finalità che, con il conseguente obiettivo di contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel settore degli appalti pubblici, non tollera evidentemente limitazioni e interruzioni temporali.
La valutazione del rischio infiltrativo già effettuata dalla Prefettura sulla base di elementi sintomatici, pur dovendo tenere conto, nel fluire del tempo, degli elementi sopravvenuti, non può conoscere soluzione di continuità che non dipenda da fatti nuovi, di segno contrario, oggettivamente capaci di rendere irrilevanti e di rendere, essi sì, inefficace il significato indiziario degli elementi sintomatici valorizzati dall’originaria informativa anche dopo la scadenza del termine annuale.
In questa prospettiva, come pure la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito (Cons. St., sez. III, 24 luglio 2015, n. 3563), l’informativa antimafia può legittimamente fondarsi, oltre che sui fatti recenti, anche su fatti più risalenti nel tempo, quando gli elementi raccolti dalla Prefettura in passato, e ribaditi anche in altri elementi probatori acquisiti, siano sintomatici di un condizionamento attuale nell’attività di impresa.
Il bilanciamento tra i valori costituzionali rilevanti in materia – l’esigenza, da un lato, di preservare i rapporti economici tra lo Stato e i privati dalle infiltrazioni mafiose in attuazione del superiore principio di legalità sostanziale e, dall’altro, la libertà di impresa – trova proprio nella previsione dell’aggiornamento, ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d. lgs. n. 159 del 2011, un punto di equilibrio fondamentale, sia in senso favorevole che sfavorevole all’impresa, poiché impone all’autorità prefettizia di considerare i fatti nuovi, laddove sopravvenuti, o anche precedenti – se non noti – e consente all’interessato di rappresentarli all’autorità stessa, laddove da questa non conosciuti.
Va ribadito che, tenuto conto del testo e della ratio delle disposizioni sopra richiamate, pur dopo il decorso del termine di un anno dall’emanazione di un precedente atto ad effetto interdittivo, il Prefetto ben potrà e, anzi, dovrà emettere una ulteriore informativa positiva, ad effetto, cioè, interdittivo, ove non siano venute meno le circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento del tentativo di infiltrazione mafiosa, salvo sempre il potere/dovere di riesaminare i fatti nuovi, in sede di aggiornamento, anche su documentata richiesta dal soggetto interessato, come prevede l’art. 91, comma 5, del d. lgs. n. 159 del 2011.
3.4 Disciplina processuale
Anche sul piano processuale la portata derogatoria degli istituti in questione, conforme del resto alla loro peculiare funzione, non manca di far sentire il proprio effetto, sia quanto alla giurisdizione, che compete al giudice amministrativo anche quando i provvedimenti a ridotta discrezionalità emessi dalle amministrazioni sopraggiungano in una avanzata fase del rapporto contrattuale.
Va ricordata la pronuncia del Consiglio di Stato, sez. III, 26 gennaio 2017, n. 319, la quale richiama il costante orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione (v., ex plurimis, Cass., Sez. Un., 29 agosto 2008, ord. n. 21928; Cass., Sez. Un., 18 novembre 2016, ord. n. 23468), secondo cui la deliberazione di recedere dal contratto di appalto, consequenziale all’informativa prefettizia di infiltrazioni mafiose nell’impresa appaltatrice, resa in precedenza ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 e, ora, dall’art. 92, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, è espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica, diretto a soddisfare l’esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali, fra i soggetti indicati nell’art. 1 del medesimo d.P.R. n. 252 e le imprese, nei cui confronti emergano sospetti di legami con la criminalità organizzata. Resta salva, naturalmente, la facoltà, per le amministrazioni.
Quanto alla competenza, la stessa si radica, per l’esigenza del simultaneus processus propria di una tutela giurisdizionale rapida, effettiva e concentrata, in capo al tribunale amministrativo regionale, ove ha sede la Prefettura che ha emesso il provvedimento antimafia, anche nell’ipotesi in cui siano impugnati diversi atti di revoca/recesso/decadenza da parte delle singole amministrazioni dislocate sull’intero territorio nazionale[36].
Quanto, infine, al rito e alla scansione processuale, resta quella del giudizio ordinario, anche quando siano impugnati atti di revoca e/o di recesso, adottati dalle stazioni appaltanti, senza che sia quindi possibile applicare la dimidiazione dei termini prevista dall’art. 119, comma 2, c.p.a. per il rito degli appalti pubblici.
Va richiamata la sentenza del Consiglio di Stato V. sez. III, 31 agosto 2016, n. 3754, nonché la già citata sentenza di Cons. St., sez. III, 26 gennaio 2017, n. 319, la quale rileva che anche nell’ipotesi di recesso conseguente all’informazione antimafia non vengono impugnati propriamente, insieme all’informativa antimafia, atti stricto sensu inerenti alla procedura di gara, di cui all’art. art. 119, comma 1, lett. a), c.p.a., per i quali sussiste l’interesse pubblico specifico alla sollecita definizione delle relative controversie, sotteso alla disposizione che dimezza i termini processuali, poiché «il potere di recedere dal contratto, in seguito all’emissione dell’informativa, è […] l’espressione di una speciale potestà amministrativa che compete alla stazione appaltante ai sensi dell’art. 92, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, anche nella fase esecutiva del contratto, e non già del generale potere “selettivo” attribuitole dall’ordinamento per la scelta del miglior contraente»[37].
3.5 Risarcimento danni per adozione di informativa antimafia annullata in sede giurisdizionale.
La configurabilità della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni provocati dall’adozione di un provvedimento illegittimo esige, di regola, la dimostrazione del dolo o della colpa, da valersi quale elemento costitutivo del diritto al risarcimento, dell’autorità che lo ha emanato, non essendo sufficiente, per la genesi dell’obbligazione risarcitoria, il solo annullamento dell’atto lesivo (cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 11 marzo 2015, n.1272).
In ordine alla distribuzione tra le parti del relativo onere probatorio, è stato chiarito che al privato danneggiato basta allegare il mero dato dell’illegittimità dell’atto dannoso, quale indice presuntivo, ai sensi degli artt.2727 e 2729 c.c., del carattere colposo della sua adozione (e, cioè, della presunta inosservanza delle comuni regole di condotta di imparzialità, correttezza e buona fede).
Spetta all’Amministrazione la dimostrazione dell’insussistenza dell’elemento psicologico, mediante la deduzione di circostanze idonee ad integrare gli estremi dell’errore scusabile (cfr. ex multis, Cons. St., sez. III, 1 aprile 2015, n.1717).
Quanto ai fattori che valgono ad escludere la colpa e, quindi, la responsabilità dell’amministrazione per i danni causati da un provvedimento illegittimo, sono stati individuati quelli attinenti all’esistenza di contrasti giurisprudenziali nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme di riferimento, alla formulazione poco chiara o ambigua delle disposizioni che regolano l’attività amministrativa considerata, alla complessità della situazione di fatto oggetto del provvedimento e alle pertinenti difficoltà istruttorie e all’illegittimità derivante dalla successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata con l’atto lesivo[38].
In altri termini, per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione, ai fini dell’accertamento della sua responsabilità aquiliana, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata.
Se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità (Cons. Stato, Sez. III 28 luglio 2015 n. 3707).
A fronte, infatti, di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell’Amministrazione potrà essere affermata, sotto il peculiare profilo nei soli casi in cui l’azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell’imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell’errore scusabile.
Così ricostruiti, in via generale, i caratteri della colpa, occorre provvedere a declinarne i relativi principi nella peculiare attività amministrativa relativa alle informative antimafia, per come previste e regolate dagli artt. 90 e ss. d.lgs. n. 159 del 2011.
Deve, al riguardo, premettersi che la misura dell’interdittiva antimafia obbedisce a una logica di anticipazione della soglia di difesa sociale e non postula, come tale, l’accertamento in sede penale di uno o più reati che attestino il collegamento o la contiguità dell’impresa con associazioni di tipo mafioso (Cons. St., sez. III, 15 settembre 2014, n.4693), potendo, perciò, restare legittimata anche dal solo rilievo di elementi sintomatici che dimostrino il concreto pericolo (anche se non la certezza) di infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività imprenditoriale (Cons. St., sez. III, 1 settembre 2014, n.4441).
La configurabilità degli estremi della colpa dell’amministrazione nell’adozione delle informative antimafia non può, dunque, prescindere dalla considerazione del loro fine e del loro carattere, per come appena sintetizzati, e dev’essere scrutinata in coerenza con la funzione, con la natura e con i contenuti delle relative misure.
Non si potrà, in particolare, evitare di assegnare il dovuto rilievo alla portata della regola di azione, alla quale devono rispondere i Prefetti nell’esercizio della potestà in questione, che si rivela particolarmente sfuggente e di difficile decifrazione.
Come si è visto, infatti, il paradigma legale di riferimento, codificato, in particolare, dagli artt. 84 e 91 del d.lgs. n.159 del 2011, resta volutamente elastico, nella misura in cui affida al Prefetto l’apprezzamento di indici sintomatici “…di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle società…” (art.84, comma 3, d.lgs. cit.) e, quindi, la formulazione di un giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso.
L‘attività provvedimentale resta connotata da elevati profili di discrezionalità, come si desume dall’analisi del lessico usato dal legislatore per regolarla.
L’uso dell’aggettivo “eventuali” e del sostantivo “tentativi” indicano, in particolare, la configurazione di presupposti del tutto incerti, ai fini della giustificazione della misura, sicchè la delibazione prefettizia si risolve nell’analisi di indizi sintomatici del pericolo di infiltrazione della criminalità organizzata nell’amministrazione della società e nella conseguente formulazione di un giudizio probabilistico della mera possibilità del condizionamento mafioso.
Si tratta, in altri termini, di una fattispecie del tutto peculiare: mentre, infatti, l’attività provvedimentale resta, in via generale, strutturata e regolata dalla definizione esatta, ad opera della disposizione legislativa attributiva del potere nella specie esercitato, dei presupposti stabiliti per la legittima adozione dell’atto in cui si esplica la funzione, che, per quanto connotato da scelte discrezionali, resta strettamente vincolato alla preliminare verifica della sussistenza delle condizioni che ne autorizzano l’assunzione, quella attinente alle informative antimafia risulta, al contrario, configurata dallo stesso legislatore come fondata su valutazioni necessariamente opinabili, in quanto attinenti all’apprezzamento di rischi e non all’accertamento di fatti, e non, quindi, ancorata alla stringente analisi della ricorrenza di chiari presupposti, di fatto e di diritto, costitutivi e regolativi della potestà esercitata.
E’ proprio la funzione anticipatoria della soglia di contrasto alla criminalità organizzata che impedisce la previsione di parametri di azione più stringenti e cogenti e che impone, quindi, la disciplina della potestà considerata in termini così ampii, trattandosi di precludere ad imprese che rischiano di essere (e non che sicuramente sono) condizionate dai clan mafiosi di accedere a rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni.
Mentre per la generalità dei provvedimenti amministrativi le regole sopra indicate appaiono idonee a costituire un parametro valutativo adeguato ed affidabile, per la peculiare tipologia delle misure qui esaminate i suddetti canoni vanno affinati secondo le indicazioni appresso formulate.
Anche reputando accettabile la regola della sostanziale inversione dell’onere della prova sopra ricordata, si devono, nondimeno, precisare i caratteri che integrano gli estremi dell’errore scusabile nell’illegittima adozione di informative antimafia.
Il carattere (necessariamente) elastico dei presupposti dell’esercizio della potestà amministrativa in questione impedisce, infatti, di declinare pedissequamente nella fattispecie considerata le medesime cause esimenti enucleate in via generale dalla giurisprudenza per escludere la colpa dell’Amministrazione.
Occorre, quindi, adattare le conclusioni già raggiunte, in astratto, in merito agli elementi costituivi dell’errore scusabile ad una fattispecie, normativa ed amministrativa, in cui la regola di condotta è tutt’altro che chiara ed univoca (e sul cui logico presupposto è stata, invece, costruita la teoria dell’errore scusabile).
Si è allora rilevato che il beneficio dell’errore scusabile va riconosciuto (con conseguente esclusione della colpa e, quindi, della responsabilità dell’Amministrazione) nelle ipotesi in cui le acquisizioni informative, trasmesse al Prefetto dagli organi di polizia, risultano astrattamente idonee a formulare un giudizio plausibile sul tentativo di infiltrazione mafiosa, in quanto oggettivamente significative di intrecci e collegamenti tra l’organizzazione criminale e l’amministrazione dell’impresa, ancorchè vengano, in concreto, giudicate insufficienti a giustificare ed a legittimare la misura dell’interdittiva.
Dev’essere, al contrario, negato l’errore scusabile (con conseguente affermazione della colpa e della responsabilità dell’amministrazione) nel diverso caso in cui le acquisizioni istruttorie si rivelino così labili e inconsistenti (per il numero esiguo e per la scarsa significatività dei relativi indici) da non consentire, secondo le comuni regole logiche del giudizio indiziario, alcun apprezzamento serio e attendibile (neanche in astratto) circa il pericolo del condizionamento mafioso dell’impresa.
Mentre, infatti, nel primo caso, la regola di azione risulta, sì violata, ma in un contesto fattuale che non consente di giudicare infranti i canoni di correttezza e proporzionalità, avendo il Prefetto decifrato gli indici sintomatici acquisiti come significativi di un rischio di infiltrazione mafiosa, ancorchè in esito ad una valutazione giudicata carente; nella seconda ipotesi, invece, deve ritenersi inosservato proprio il parametro valutativo che costituisce il criterio di condotta al quale deve obbedire il Prefetto, che ha formulato il giudizio sul tentativo di infiltrazione mafiosa dell’impresa sulla base di indici talmente carenti ed equivoci da non permettere alcun serio apprezzamento dell’esistenza del relativo rischio e, quindi, in spregio delle comuni regole di buona fede e imparzialità, nonché di quella della coerenza della determinazione finale con le risultanze di un’istruttoria compiuta ed esauriente[39].
Capitolo 4
Gli effetti della documentazione antimafia
4.1 Informativa antimafia ed effetti sui contratti e sui rapporti in corso nel codice antimafia.
Il D. lgs. 6 settembre 2011 n. 159 agli articoli 67, 94 e 95 detta la disciplina riguardante gli effetti delle informazioni del prefetto.
L’art. 67 dispone che le persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di prevenzione non possono ottenere:
a) licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio;
b) concessioni di acque pubbliche e diritti ad esse inerenti nonche' concessioni di beni demaniali allorchè siano richieste per l'esercizio di attività imprenditoriali;
c) concessioni di costruzione e gestione di opere riguardanti la pubblica amministrazione e concessioni di servizi pubblici;
d) iscrizioni negli elenchi di appaltatori o di fornitori di opere, beni e servizi riguardanti la pubblica amministrazione, nei registri della camera di commercio per l'esercizio del commercio all'ingrosso e nei registri di commissionari astatori presso i mercati annonari all'ingrosso;
e) attestazioni di qualificazione per eseguire lavori pubblici;
f) altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati;
g) contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o dell’Unione europea, per lo svolgimento di attivita' imprenditoriali;
h) licenze per detenzione e porto d'armi, fabbricazione, deposito, vendita e trasporto di materie esplodenti.
Inoltre il provvedimento definitivo di applicazione della misura di prevenzione determina la decadenza di diritto dalle licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni ed erogazioni predette, nonche' il divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti, compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera.
Le licenze, le autorizzazioni e le concessioni sono ritirate e le iscrizioni sono cancellate ed è disposta la decadenza delle attestazioni a cura degli organi competenti.
Salvo che si tratti di provvedimenti di rinnovo, attuativi o comunque conseguenti a provvedimenti già disposti, ovvero di contratti derivati da altri gia' stipulati dalla pubblica amministrazione, le licenze, le autorizzazioni, le concessioni, le erogazioni, le abilitazioni e le iscrizioni non possono essere rilasciate o consentite e la conclusione dei contratti o subcontratti sopra indicati non può essere consentita a favore di persone nei cui confronti è in corso il procedimento di prevenzione senza che sia data preventiva comunicazione al giudice competente, il quale può disporre, ricorrendone i presupposti, i divieti e le sospensioni.
L’art. 94 del Codice antimafia estende gli effetti delle misure di prevenzione alle informazioni interdiddittive antimafia adottate dal Prefetto con riguardo alla fase di stipula del contratto (e adesso con la novella dell’art. 80 del D. Lgs. n. 50 del 2016, anche alla fase antecedente).
Va ricordato che nelle gare di appalto per l'aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all'aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell'esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità[40].
Infatti quando emerge la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa, di cui all'articolo 84, comma 4 ed all'articolo 91, comma 6, nelle società o imprese interessate, le Amministrazioni cui sono fornite le informazioni antimafia, non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, nè autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni.
Per garantire comunque che l’attività della Amministrazione rimanga sospesa in attesa delle verifiche antimafia, qualora il Prefetto non rilasci l'informazione interdittiva entro i termini previsti, ovvero nel caso di lavori o forniture di somma urgenza di cui all'articolo 92, comma 3 qualora la sussistenza di una causa di divieto indicata nell'articolo 67 o gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa, siano accertati successivamente alla stipula del contratto, le Amministrazioni revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite.
In ogni caso ancorchè siano state adottate le interdittive le Amministrazioni possono, esercitando un potere autoritativo, non procedere alle revoche o ai recessi nel caso in cui l'opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell'interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi.
Il successivo art. 95 disciplina l’ipotesi di sopravvenienza dell'interdittiva nel corso di esecuzione del contratto con riguardo a contraenti costituiti in raggruppamenti temporanei di imprese.
Infatti se taluna delle situazioni da cui emerge un tentativo di infiltrazione mafiosa interessa un'impresa diversa da quella mandataria che partecipa ad un'associazione o raggruppamento temporaneo di imprese, le cause di divieto o di sospensione non operano nei confronti delle altre imprese partecipanti quando la predetta impresa sia estromessa o sostituita anteriormente alla stipulazione del contratto.
La sostituzione può essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione delle informazioni del prefetto qualora esse pervengano successivamente alla stipulazione del contratto[41]. .
4.2 La disciplina degli effetti nei due codici dei contratti.
Le norme predette vanno coordinate con la disciplina del Codice dei contratti della Pubblica Amministrazione che estende la possibilità di sostituzione anche alla mandataria colpita da interdittiva.
La materia è stata adesso disciplinata dall’articolo 110 del Decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (recentemente modificato dall'articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 19 aprile 2017, n. 56).
Quest’ultimo articolo disciplina le procedure di affidamento in caso di fallimento dell'esecutore o di risoluzione del contratto e misure straordinarie di gestione.
Le stazioni appaltanti, in caso di fallimento, di liquidazione coatta e concordato preventivo, ovvero procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione dell'appaltatore, o di risoluzione del contratto ovvero di recesso dal contratto in applicazione della normativa antimafia, ovvero in caso di dichiarazione giudiziale di inefficacia del contratto, interpellano progressivamente i soggetti che hanno partecipato all'originaria procedura di gara, risultanti dalla relativa graduatoria, al fine di stipulare un nuovo contratto per l'affidamento dell'esecuzione o del completamento dei lavori, servizi o forniture.
L'affidamento avviene alle medesime condizioni già proposte dall'originario aggiudicatario in sede in offerta[42].
La norma predetta del Codice appalti 2016 opera un rinvio conservativo alle disposizioni previste dall'articolo 32 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, in materia di misure straordinarie di gestione di imprese nell'ambito della prevenzione della corruzione.
La normativa del Codice dei contratti, nel prevedere la facoltà per la stazione appaltante, dopo che l'originaria aggiudicazione e la stipulazione del contratto siano venute meno per ragioni tassativamente indicate (tra cui la risoluzione del contratto per intervenuta interdittiva antimafia), di interpellare gli altri concorrenti collocati in graduatoria, a partire dal secondo (c.d. scorrimento) al fine di stipulare un nuovo contratto, per i residui lavori, alle medesime condizioni contrattuali offerte dall'originario aggiudicatario, integra una vera e propria procedura di affidamento che si svolge a "circolo chiuso" sul piano soggettivo, e a condizioni precostituite, sul piano oggettivo, in quanto vengono interpellati solo i soggetti già collocati nella graduatoria della precedente gara, e in quanto non possono essere fatte nuove offerte, né "ripescate" quelle originariamente fatte dagli interpellati, dovendo il nuovo appalto per i lavori residui avvenire alle condizioni offerte dall'originario aggiudicatario[43].
Trattandosi di una vera e propria procedura di affidamento, essa necessita di provvedimenti formali e tipici, e segnatamente dell'aggiudicazione.
Non è tale né l'interpello, che è solo un sondaggio esplorativo, né la dichiarazione di disponibilità fatta dall'interpellato; né l'aggiudicazione deriva dall'incontro tra interpello e risposta all'interpello.
La risposta all'interpello ha la natura giuridica di una offerta alle condizioni indicate dalla stazione appaltante.
Pur tuttavia per la formazione di un vincolo contrattuale deve seguire l'aggiudicazione, al fine della verifica del possesso dei requisiti, e solo successivamente la stipulazione.
A fronte di una regola generale che impone di far cadere l'aggiudicazione e di conseguenza far venir meno anche gli effetti del contratto, si pone l'eccezione della prosecuzione del rapporto fondata sulla valutazione prefettizia che in concreto deve accertare l'urgente necessità di assicurare il completamento dell'esecuzione del contratto ovvero dell'accordo contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell'integrità dei bilanci pubblici ai sensi dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014.
Pertanto se l'effetto dell'informativa antimafia è di carattere generale ed investe tutti i rapporti contrattuali o concessori dell'impresa che ne risulti destinataria con l'amministrazione, quello della deroga presuppone una concreta valutazione del rapporto contrattuale, che si ritiene si debba mantenere in essere[44].
Va precisato che la potestà di decidere di recedere dal contratto di appalto, a seguito della informativa prefettizia concernente la presenza di tentativi di infiltrazioni mafiose tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell'appaltatore, è una scelta estranea alla sfera del diritto privato ed espressione di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il cui esercizio è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto[45].
Va, infine, precisato che il legislatore è intervenuto espressamente a disciplinare gli effetti delle interdittive sul possesso dei requisiti generali di partecipazione alle gare d’appalto; infatti il Decreto legislativo n. 50 del 2016 all’art. 80 (come modificato dall'articolo 49, comma 1, lettera b), del DLgs. 19 aprile 2017, n. 56, ha previsto che costituisce motivo di esclusione la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto previste dall'articolo 67 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa.
In tal caso l'esclusione va disposta se la sentenza o il decreto ovvero la misura interdittiva sono stati emessi nei confronti: del titolare o del direttore tecnico, se si tratta di impresa individuale; di un socio o del direttore tecnico, se si tratta di società in nome collettivo; dei soci accomandatari o del direttore tecnico, se si tratta di società in accomandita semplice; dei membri del consiglio di amministrazione cui sia stata conferita la legale rappresentanza ivi compresi institori e procuratori generali, dei membri degli organi con poteri, di direzione o di vigilanza o dei soggetti muniti di poteri di rappresentanza, di direzione o di controllo, del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o consorzio.
In ogni caso l'esclusione e il divieto operano anche nei confronti dei soggetti cessati dalla carica nell'anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara, qualora l'impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata.
4.3 Interdittive antimafia e raggruppamenti temporanei di imprese.
Una disciplina peculiare riguarda l’adozione di un’interdittiva antimafia nei confronti di un’impresa componente un'associazione temporanea.
Il nuovo Codice degli appalti, approvato con Decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, all’art. 48 (nel testo modificato dall'articolo 32, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 19 aprile 2017 n. 56), disciplina la materia con carattere di specialità rispetto al potere dovere di recedere dal contratto e di procedere allo scorrimento della graduatoria di gara.
Nei casi previsti dalla normativa antimafia, qualora sia colpita da interdittiva la mandataria, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal codice purchè abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire.
Nei casi previsti dalla normativa antimafia, qualora invece sia colpita da interdittiva una mandante, la mandataria ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti[46].
Alla luce del novellato art. 48 del D.Lgs n. 50 del 2016, il diritto positivo consente, ormai, anche prima della stipulazione di un contratto di appalto, l'aggiudicazione della gara a un raggruppamento temporaneo la cui mandataria o mandante, oggetto di informazione antimafia ostativa, sia stata sostituita da altro operatore economico in possesso dei requisiti.
Soltanto non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante deve recedere dal contratto.
Ciò premesso si pone il problema se nell'ambito della procedura concorsuale, posto che il Codice antimafia consente espressamente la partecipazione alla gara ai soli raggruppamenti in cui il provvedimento antimafia abbia colpito un'impresa mandante, e se ciò comporti l'inopportunità di mantenere in concorso quei raggruppamenti in cui le informazioni antimafia siano ostative alla partecipazione della capogruppo, stante il ruolo preminente della mandataria nell'ambito del raggruppamento, trattandosi di soggetto che rappresenta collettivamente l'intera associazione di imprese.
Ciò sul presupposto che l'interesse tutelato dalla legge coincide, in questa fattispecie, con il prudente apprezzamento di escludere qualsiasi pericolo di infiltrazione della criminalità organizzata nel settore dei contratti pubblici.
Nella fase di esecuzione del contratto (e adesso anche nella fase anteriore di svolgimento della gara), invece, il legislatore ha voluto consentire la continuazione del rapporto contrattuale anche nei confronti dei raggruppamenti risultati guidati da un'impresa ritenuta a rischio di condizionamento mafioso, previa sostituzione di quest'ultima, attribuendo prevalenza al diverso interesse pubblico al completamento dell'appalto.
La giurisprudenza è ormai orientata nel ritenere che quando intervenga una misura interdittiva le previsioni di modifica della struttura del r.t.i. trovano applicazione anche in fase di esecuzione del contratto a prescindere dalla natura dell’impresa colpita da interdittiva (sia se mandataria che se mandante).
E’ consentito all’Amministrazione di proseguire il rapporto di appalto con l’impresa superstite (naturalmente, alle condizioni del possesso dei necessari requisiti di qualificazione richiesti dal bando), in tal modo contemperandosi il prosieguo dell’iniziativa economica delle imprese in forma associata con le esigenze afferenti alla sicurezza e all’ordine pubblico connesse alla repressione dei fenomeni di stampo mafioso, ogni volta che, a mezzo di pronte misure espulsive, si determini volontariamente l’allontanamento e la sterilizzazione delle imprese in pericolo di condizionamento mafioso.
Dette disposizioni (mai modificate, nonostante le diverse novellazioni del Codice dei contratti successive al d.lgs. 159/2011) confermano la ratio, già insita nell'art. 12 del d.P.R. 252/1998, di contemperare il prosieguo dell'iniziativa economica delle imprese in forma associata con le esigenze afferenti alla sicurezza e all'ordine pubblico connesse alla repressione dei fenomeni di stampo mafioso, ogni volta che, a mezzo di pronte misure espulsive, si determini volontariamente l'allontanamento e la sterilizzazione delle imprese in pericolo di condizionamento mafioso[47].
Sembra corretto desumere da dette ultime disposizioni l'esclusione di qualsiasi "automatica" considerazione della sussistenza di rischi di infiltrazione mafiosa in capo ad una impresa per il solo fatto che si fosse associata ad altra impresa ritenuta controindicata.
Si deve ritenere, conseguentemente, che la "vicinanza" tra una impresa controindicata ed una impresa oggetto di valutazione nel procedimento volto alla definizione di un provvedimento interdittivo vada apprezzata caso per caso, in relazione alle concrete vicende collaborative tra le imprese, che vanno adeguatamente approfondite allo scopo di accertare la sussistenza di fattori oggettivi di condizionamento, non della impresa controindicata rispetto a quella in valutazione, ma da parte delle medesime organizzazioni criminali che hanno compromesso la posizione della prima.
4.4 L’estensione di efficacia delle interdittive ad opera dell’art. 89 bis del codice antimafia: le attività private soggette a potestà autorizzatoria.
A differenza delle comunicazioni antimafia, il cui effetto interdittivo, come visto, è esteso non solo ai contratti e alle concessioni, ma anche alle autorizzazioni, le informazioni antimafia, normalmente, esplicano i loro effetti solo in rapporto ai contratti pubblici, alle concessioni e alle sovvenzioni.
Questa rigida tradizionale ripartizione degli effetti interdittivi, propria del binomio comunicazioni/informazioni antimafia, è stata tuttavia in parte superata dal legislatore del decreto correttivo (d. lgs. n. 153 del 2014) che, proprio per evitare il pericolo di fenomeni infiltrativi mafiosi nell’economia legale anche a prescindere da eventuali contratti, concessioni o sovvenzioni pubblici e, quindi, dai rapporti dell’impresa con la pubblica amministrazione, ha esteso l’efficacia interdittiva delle informazioni antimafia anche alle autorizzazioni e, dunque, anche ai rapporti tra privati.
Una simile innovazione ha un rilevantissimo impatto di sistema, al punto che al riguardo è stata sollevata questione di costituzionalità, dubitandosi della compatibilità dell’art. 89-bis del d. lgs. n. 159 del 2011 in relazione ad un presunto eccesso di delega ai sensi degli art. 76, 77, primo comma, e 3 della Cost., questione decisa di recente dalla Corte costituzionale.
Il Consiglio di Stato si è espresso sul punto, in sede consultiva, con il parere della sez. I, 17 novembre 2015, n. 497[48], sia soprattutto, in sede giurisdizionale, con le sentenze della sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565 e 8 marzo 2017, n. 1109[49], in una linea di sostanziale continuità e di approfondimento rispetto all’indirizzo già inaugurato con la sentenza n. 1743 del 2016[50].
In questo contesto si colloca anche l’art. 25 l. 17 ottobre 2017 n. 161, recante modifiche al Codice delle leggi antimafia, che ha introdotto il comma 3 bis all’art. 83 del Codice, in base al quale la documentazione antimafia “è sempre prevista nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli e zootecnici demaniali che ricadono nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei”.
Nella sentenza n. 565 del 2017, che costituisce la “punta” più avanzata della giurisprudenza amministrativa sul tema, il Consiglio di Stato ha affermato che «lo Stato non riconosce dignità e statuto di operatori economici, e non più soltanto nei rapporti con la pubblica amministrazione, a soggetti condizionati, controllati, infiltrati ed eterodiretti dalle associazioni mafiose»[51].
Questa valutazione, che ha natura preventiva e non sanzionatoria ed è, dunque, avulsa da qualsivoglia logica penale o lato sensu punitiva (come già chiarito dalla sentenza n. 1743 del 2016 più volte richiamata), costituisce un severo limite all’iniziativa economica privata, che tuttavia è giustificato dalla considerazione che il metodo mafioso, per sua stessa ragion di essere, costituisce un «danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41, comma secondo, Cost.), già sul piano dei rapporti tra privati (prima ancora che in quello con le pubbliche amministrazioni), oltre a porsi in contrasto, ovviamente, con l’utilità sociale, limite, quest’ultimo, allo stesso esercizio della proprietà privata.
Secondo il Consiglio di Stato, «il metodo mafioso è e resta tale, per un essenziale principio di eguaglianza sostanziale prima ancora che di logica giuridica, non solo nelle contrattazioni con la pubblica amministrazione, ma anche tra privati, nello svolgimento della libera iniziativa economica»[52].
La legislazione antimafia più recente, con l’introduzione dell’art. 89-bis del d. lgs. n. 159 del 2011, muove dalla osservazione che tra l’economia pubblica e l’economia privata sussista un intreccio tanto profondo, anche nell’attuale contesto di una economia globalizzata, che «non è pensabile e possibile contrastare l’infiltrazione della mafia “imprenditrice” e i suoi interessi nell’una senza colpire anche gli altri e che tale distinzione, se poteva avere una giustificazione nella società meno complessa di cui la precedente legislazione antimafia era specchio, viene oggi a perdere ogni valore, ed efficacia deterrente, per entità economiche che, sostenute da ingenti risorse finanziarie di illecita origine ed agevolate, rispetto ad altri operatori, da modalità criminose ed omertose, entrino nel mercato con una aggressività tale da eliminare ogni concorrenza e, infine, da monopolizzarlo»[53].
L’indirizzo ermeneutico seguito dal Consiglio di Stato sia in sede consultiva che giurisdizionale ha trovato ora, come si è accennato, l’autorevole conforto della Corte costituzionale che, nel respingere la questione di costituzionalità sollevata dal T.A.R. per la Sicilia, sezione staccata di Catania, ha chiarito, nella recente sentenza n. 4 del 18 gennaio 2018, che «nel contesto del d.lgs. n. 159 del 2011, e sulla base della legge delega n. 136 del 2010, nulla autorizza quindi a pensare che il tentativo di infiltrazione mafiosa, acclarato mediante l’informazione antimafia interdittiva, non debba precludere anche le attività di cui all’art. 67, oltre che i rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, se così il legislatore ha stabilito».
In quest’ottica il giudice delle leggi, ricordando il più recente orientamento assunto dal Consiglio di Stato, ha rilevato, nella sentenza n. 4 del 2018, che la giurisprudenza amministrativa, e lo stesso giudice rimettente, hanno interpretato l’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 nel senso che esso impone di adottare l’informazione antimafia, non soltanto quando l’accertamento eseguito in base all’art. 88, comma 2, permette di riscontrare la sussistenza di una delle cause impeditive di cui all’art. 67, ma anche quando emerge una precedente documentazione antimafia interdittiva in corso di validità.
All’apertura del sistema antimafia e al superamento della tradizionale impermeabilità dei dati posti a fondamento della comunicazione antimafia con quelli posti a fondamento dell’informazione antimafia, come il Consiglio di Stato ha rilevato nelle sue ultime pronunce, è stata determinante l’istituzione, in attuazione dell’art. 2 della legge delega (la l. n. 136 del 13 agosto 2010), della Banca dati nazionale unica della documentazione amministrativa (art. 98, comma 1, del d. lgs. n. 159 del 2011), ora operativa per effetto dell’adozione del d.P.C.M. n. 193 del 2014, che consente all’autorità prefettizia «di avere una cognizione ad ampio spettro e aggiornata della posizione antimafia di una impresa»[54] e di potere venire a conoscenza, nella consultazione della Banca dati per il rilascio della comunicazione, di ulteriori elementi che la inducano a più seri approfondimenti circa la possibile permeabilità mafiosa dell’impresa e al rilascio di una informazione antimafia.
Nella citata sentenza n. 4 del 18 gennaio 2018 la Corte costituzionale, nel respingere la questione di costituzionalità sollevata, anche con riferimento all’art. 3 Cost., ha valorizzato il fondamentale rilievo informativo della Banca dati ed ha affermato non essere manifestamente irragionevole che, secondo l’interpretazione dell’art. 89-bis del d. lgs. n. 159 del 2011 seguita dalla giurisprudenza amministrativa, «a fronte di un tentativo di infiltrazione mafiosa, il legislatore, rispetto agli elementi di allarme desunti dalla consultazione della banca dati, reagisca attraverso l’inibizione, sia delle attività contrattuali con la pubblica amministrazione, sia di quelle in senso lato autorizzatorie, prevedendo l’adozione di un’informazione antimafia interdittiva che produce gli effetti anche della comunicazione antimafia».
Va qui ricordato, peraltro, che il sistema della documentazione antimafia ora rafforzato dall’istituzione della Banca dati, per sua stessa struttura mutevole nel tempo, è soggetto a costante aggiornamento (art. 91, comma 5, del d. lgs. n. 159 del 2011), perché, come prevede l’art. 86 del d. lgs. n. 159 del 2011, le comunicazioni antimafia hanno validità semestrale (comma 1) e le informazioni antimafia hanno validità annuale (comma 2).
Al riguardo il Consiglio di Stato, nella sua più recente giurisprudenza, come sospra ricordato,ha chiarito che la validità annuale dell’informazione antimafia, che va richiesta da ogni singola amministrazione in ogni singolo procedimento per il quale è prevista e deve essere rinnovata di volta in volta dalla Prefettura per ogni singolo procedimento (non essendo prevista nel nostro ordinamento una informazione antimafia c.d. erga omnes), deve intendersi riferita al valore legale del documento antimafia, che comunque mantiene i propri effetti interdittivi per una durata annuale, e non già per gli elementi indiziari posti a base dell’informativa, che non “scadono”, come è ovvio, né perdono la loro valenza sintomatica solo per il decorso del termine annuale, sicché ben potrà la Prefettura, ove richiesta dall’amministrazione interessata, emettere una nuova informativa, decorso l’anno, sulla base degli stessi elementi già posti a fondamento della precedente e purché non ne sopraggiungano di nuovi che elidano l’efficacia indiziante degli elementi pregressi[55].
In ogni caso, come pure il Consiglio di Stato ha osservato, il bilanciamento tra i valori costituzionali rilevanti in materia – l’esigenza, da un lato, di preservare i rapporti economici tra lo Stato e i privati (o tra i privati stessi) dalle infiltrazioni mafiose in attuazione del superiore principio di legalità sostanziale e, dall’altro, la libertà di impresa – trova proprio nella previsione dell’aggiornamento, ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d. lgs. n. 159 del 2011, «un punto di equilibrio fondamentale», sia in senso favorevole che sfavorevole all'impresa, poiché impone all’autorità prefettizia di considerare i fatti nuovi, laddove sopravvenuti, o anche precedenti – se non noti – e consente alla stessa parte interessata di rappresentarli all’autorità stessa, laddove da questa non conosciuti[56].
Naturalmente, come il Consiglio di Stato stesso ha precisato, più tempo trascorrerà dal verificarsi di tali fatti, maggiore dovrà essere lo sforzo motivazionale, da parte dell’autorità prefettizia, nel valutarne la loro perdurante attualità, quanto alla loro idoneità a dimostrare il concreto e persistente attuale di infiltrazione mafiosa, con l’ovvia precisazione, però, che il mero trascorrere del tempo, comunque, è un elemento in sé neutro, che da solo non elide la portata indiziante di tali fatti, se non eccessivamente risalenti, in mancanza di nuovi elementi sopraggiunti di segno contrario[57].
Ma questo è un profilo che attiene, intrinsecamente, al valore indiziario degli elementi posti a fondamento dell’informativa e non già, estrinsecamente, alla sua efficacia nel tempo.
4.5 Incapacità ad intrattenere rapporti con la P.A.
Va richiamato, inoltre, il recente arresto dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 6 aprile 2018, n. 3, per cui all’interdittiva antimafia deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.
Va infine rilevato che l’incidenza su una liberta costituzionalmente riconosciuta aggrava l’onere per l’Amministrazione di specificare il grado di condizionamento che l’impresa subisce e gli effetti sul sistema della reale concorrenza.
Il provvedimento di c.d. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto – persona fisica o giuridica – è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67 d. lgs. 6 settembre 2011 n. 159 (1).
L’art. 67, comma 1, lett. g) del d. lgs. 6 settembre 2011 n. 159, nella parte in cui prevede il divieto di ottenere, da parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, ricomprende anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa.
L’art. 67 del Codice delle leggi antimafia delimita l’ambito applicativo dell’incapacità ex lege del destinatario del provvedimento interdittivo e deve essere interpretato – in particolare, il comma 1, lett. g), della citata disposizione che si riferisce ai “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali” – nel senso di precludere all’imprenditore di ricevere somme dovutegli dall’amministrazione anche a titolo risarcitorio, in quanto l’ampia clausola contenuta nella disposizione e la ratio della norma non consentono di distinguere tra erogazioni dirette ad arricchire l’imprenditore ed erogazioni dirette a compensarlo di una perdita subita.
La finalità del legislatore è quella di evitare ogni esborso di matrice pubblicista in favore di imprese soggette a infiltrazioni criminali.
L’enunciato linguistico “erogazioni dello stesso tipo” contenuto nella disposizione deve essere inteso come riferito al genus delle obbligazioni pecuniarie poste a carico dell’amministrazione, quale che ne sia la fonte e la causa,
L’informativa antimafia,comporta, quindi, l’incapacità, per il soggetto colpito, di assumere o mantenere, per il tempo di durata dell’interdittiva, la titolarità delle posizioni giuridiche riconducibili nell’ambito applicativo dell’art. 67 d.lgs. n. 159 del 2011, anche se riconosciute da sentenza passata in giudicato e l’impossibilità, per il soggetto colpito, di far valere il credito in sede giurisdizionale.
Una volta venuta meno l’efficacia dell’interdittiva, il diritto di credito riconosciuto dalla sentenza passata in giudicato può essere fatto valere dal titolare del diritto e, ai fini della decorrenza del termine di prescrizione ai sensi dell’art. 2935 c.c., durante il periodo di tempo di efficacia dell’interdittiva, il diritto non può essere fatto valere.
Si tratta di orientamenti talmente innovativi da delineare linee di contrasto delle mafie anche in deroga a pricipi fondamentali sinra del nostro orrdinamento giuridico.
Capitolo 5
La disciplina in tema di commissariamento delle imprese.
5.1 L'articolo 32 del decreto legge 24 giugno 2014 n. 90.
Alternativa allo scorrimento della graduatoria di gara è l’applicazione dell'art. 32 comma 10, d.l. n. 90 del 2014, convertito nella l. n. 114 del 2014, che disciplina la misura della temporanea e straordinaria gestione dell'impresa che può essere adottata dal Prefetto anche nei casi in cui sia già stata dallo stesso emessa un'informazione antimafia interdittiva, ma sussista l'urgente necessità di assicurare il completamento dell'esecuzione del contratto ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell'integrità dei bilanci pubblici, ancorché ricorrano i presupposti di cui all'art. 94 comma 3, d.lg. l6 settembre 2011, n. 159 (e su cui si tornerà più diffusamente).
In tal caso la misura straordinaria prefettizia può legittimamente seguire l'emissione dell'informativa e non deve necessariamente precederla.
La ratio della norma non è quella di privare la stazione appaltante di ogni potere circa la risoluzione o la prosecuzione del rapporto una volta disposta la gestione straordinaria e temporanea dell'impresa, sia nell'ipotesi generale di cui all'art. 32, comma 1 (procedimenti o processi per taluni reati o situazioni anomale sintomatiche di condotte illecite) che in quella particolare del comma 10 (informativa antimafia), atteso che il medesimo comma 10 ha, invece, inteso consentire eccezionalmente al Prefetto di valutare l'adozione della straordinaria e temporanea gestione dell'impresa limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto o dell'accordo contrattuale o della concessione, ove l'impresa non rinnovi gli organi sociali o, nei casi più gravi, anche in via immediata e diretta, in ragione delle esigenze funzionali alla realizzazione dell'opera pubblica, al servizio o alla fornitura oggetto del contratto ovvero dell'accordo contrattuale e, comunque, non oltre il collaudo.
La decisione prefettizia è espressione di un potere discrezionale di comparazione degli interessi e fino a che essa non è adottata la stazione appaltante è vincolata a recedere dal contratto quando sia stata emessa l'informativa, salva la disciplina dell’art. 94 c. 3 del Codice antimafia che disciplina le ipotesi di completamento delle opere e delle prestazioni di servizi[58].
La norma è evidentemente finalizzata a consentire la realizzazione nei tempi programmati delle opere indispensabili per la manifestazione Expo 2015.
Ciò a seguito di una serie di inchieste penali che avevano sostanzialmente accertato, anche a seguito delle ammissioni di alcuni imprenditori, che alcune opere pubbliche erano state affidate con procedure concorsuali nelle quali erano stati commessi reati di corruzione.
A fronte del rischio di risolvere i contratti e di procedere a nuovi affidamenti, che avrebbero inevitabilmente allungato i tempi di realizzazione delle opere con la conseguenza di compromettere la manifestazione, il Governo optò per l'introduzione di un modello organizzativo che da un lato consentiva la prosecuzione delle opere da parte delle imprese, dall'altro sottoponeva le predette imprese ad amministrazione straordinaria, quanto meno con riguardo alle attività contrattuali oggetto di indagini penali anche per i sospetti di alterazione delle procedure di affidamento e comunque di gestione delle opere stesse.
A questa specifica ipotesi se ne accompagna un'altra, per certi versi più complessa, che riguarda proprio le imprese raggiunte da interdittive antimafia e che, sulla base della normativa oggi vigente avrebbe obbligato le amministrazioni appaltanti a risolvere i contratti...
Si tratta di una normativa dai caratteri emergenziali che attribuisce poteri extra ordinem ripartiti tra l'Autorità nazionale anticorruzione e l'Amministrazione dell'Interno, e segnatamente i Prefetti.
La ratio legis di tali misure consiste, pertanto, nel garantire che, in presenza di fatti che abbiano determinato discostamenti rispetto agli standard di legalità e correttezza nella procedura di aggiudicazione, l'esecuzione del contratto pubblico non ne sia pregiudicata, senza, purtuttavia, che quest'ultima esigenza si traduca in un vantaggio per l'autore dei fatti criminali consentendogli, dopo essersi aggiudicato illecitamente l'appalto, di conseguire il profitto del proprio illecito.
L'intervento del potere pubblico nei confronti dell'organizzazione e dell'attività degli operatori economici privati, qualificato di per sé come straordinario, è perciò volto unicamente alla tutela dell'integrità delle risorse pubbliche conferite in costanza del contratto pubblico, ed è perciò necessariamente limitato temporalmente all'esecuzione dello stesso, così da non ledere più del necessario il principio costituzionale dell'autonomia d'impresa (art. 41 della Costituzione).
L’istituto del “commissariamento” dell'impresa si colloca, quindi, tra gli strumenti di diritto amministrativo tramite cui si realizza un intervento pubblico nell'attività d'impresa, per esigenze di tutela di interessi sociali rilevanti o come misura di contrasto all'economia della criminalità organizzata.
All'interno della disciplina di responsabilità giuridica degli enti era d'altronde già prevista la possibilità che, a seguito di emissione di misura interdittiva conseguente alla condanna penale, fosse nominato un commissario giudiziale che presiedesse alla gestione dell'impresa (articolo 15 decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231).
La disciplina del commissariamento d'impresa per fatti di corruzione opera, invece, medio tempore, in assenza di un accertamento giudiziale, sulla base delle sole valutazioni delle autorità amministrative coinvolte, risultando, pertanto, particolarmente utile nella prospettiva di contrasto in via amministrativa e preventiva della corruzione.
5.2 I presupposti per le misure straordinarie
L'art. 32 del decreto-legge n. 90/2014 ha attribuito al Presidente dell'ANAC il potere di richiedere al Prefetto l'adozione di misure dirette ad incidere sui poteri di amministrazione e gestione dell'impresa coinvolta in procedimenti penali per gravi reati contro la pubblica amministrazione o nei cui confronti emergano situazioni di anomalia sintomatiche di condotte illecite o criminali.
Come già accennato la ratio dell'intervento legislativo appare rivolta al principale obiettivo di far sì che, in presenza di gravi fatti o di gravi elementi sintomatici, che hanno, rispettivamente, o già determinato ricadute penali o sono comunque suscettibili di palesare significativi e gravi discostamenti rispetto agli standard di legalità e correttezza, l'esecuzione del contratto pubblico non venga a soffrire di tale situazione.
La prioritaria istanza a cui ha corrisposto il legislatore è quella di porre rimedio all'affievolimento dell'efficacia dei presidi legalitari da cui appaiono afflitte le procedure contrattuali, senza che ne risentano i tempi di esecuzione della commessa pubblica, finendo col coniugare, dunque, entrambe le esigenze.
La misura che viene attivata dall'ANAC è finalizzata a garantire la continuità dell'esecuzione del contratto pubblico (del singolo contratto e non della complessiva attività di impresa) nei tempi previsti.
L'impresa viene raggiunta dalla misura strumentalmente a questo scopo, come dimostrano le espressioni letterali contenute nelle lettere a) e b) del comma 1, laddove l'intervento sull'impresa appaltatrice è sempre disposto «limitatamente alla completa esecuzione del contratto d'appalto»; sicché l'intervento legislativo si configura per quest'aspetto effettivamente come una misura ad contractum.
Ipotesi A.
Le circostanze suscettibili di dare luogo ai provvedimenti amministrativi di cui all'art. 32, comma 1, del citato decreto-legge n. 90/2014 debbono essere individuate in fatti riconducibili:
- a reati contro la pubblica amministrazione, - nel caso in cui l'Autorità giudiziaria proceda per i delitti - previsti dal codice penale - di concussione (articolo 317), corruzione per l'esercizio della funzione (articolo 318), corruzione semplice e aggravata per atto contrario ai doveri d'ufficio (articoli 319 e 319-bis), corruzione in atti giudiziari (articolo 319-ter), induzione indebita a dare o promettere utilità (articolo 319-quater), corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (articolo 320), istigazione alla corruzione (articolo 322), peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (articolo 322-bis), traffico di influenze illecite (articolo 346- bis), turbata libertà degli incanti (articolo 353) e del procedimento di scelta del contraente (articolo 353-bis);
- a vicende e situazioni che sono propedeutici sia alla commissione di questi ultimi o che comunque sono ad esse contigue (a titolo esemplificativo, ai reati di truffa aggravata di cui all'art. 640-bis c.p., di riciclaggio (art. 648-bis c.p.), a quelli di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ovvero con altri artifici, l'emissione di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti, l'occultamento o la distruzione di documenti contabili finalizzata all'evasione fiscale (articoli 2, 3, 8 e 10 del decreto legislativo n. 74/2000), i delitti di false comunicazioni sociali (articoli 2621 e 2622 c.c.).
Inoltre, non si esclude che la presenza dì situazioni anomale possa essere ricondotta a fattispecie distorsive della regolarità e trasparenza delle procedure di aggiudicazione, quali, ad esempio: la comprovata sussistenza di collegamenti sostanziali tra imprese partecipanti alla gara; la rilevata sussistenza di accordi di desistenza artatamente orientati a favorire l'aggiudicazione nei confronti di un'impresa; la accertata violazione dei principi che sorreggono la trasparenza delle procedure ad evidenza pubblica, qualora da elementi di contesto possa formularsi un giudizio di probabile riconducibilità del fatto a propositi di illecita interferenza.
Il comma l richiede, inoltre, che gli elementi riscontrati siano «sintomatici» di condotte illecite o eventi criminali.
La norma non subordina, dunque, l'applicazione delle misure all'acquisizione di una certezza probatoria, tipica del procedimento penale.
E' sufficiente, piuttosto, che gli elementi riscontrati siano indicativi della probabilità dell'esistenza delle predette condotte ed eventi: probabilità che deve essere ritenuta sulla base di una valutazione discrezionale delle circostanze emerse, le quali devono essere, comunque, connotate da tratti di pregnanza ed attualità.
Il secondo ordine di presupposti, riguarda, invece, il grado di rilevanza delle fattispecie elencate alle lettere a) e b) del ricordato comma 1.
Lo stesso comma 1 stabilisce che, perché possa essere applicata una delle misure in argomento, le predette fattispecie devono essere connotate da fatti accertati e gravi.
Nel contesto delle misure introdotte dall'art. 32 - destinate ad intervenire in un momento antecedente al giudicato - devono considerarsi «fatti accertati» quelli corroborati da riscontri oggettivi, mentre il requisito della «gravità», richiamato anche dal comma 2, implica che i fatti stessi abbiano raggiunto un livello di concretezza tale da rendere probabile un giudizio prognostico di responsabilità nei confronti dei soggetti della compagine di impresa per condotte illecite o criminali.
Il presupposto oggettivo per l'emanazione di tali misure cautelari coincide, pertanto, non solo con la commissione di reati contro la pubblica amministrazione — di cui sia anche disponibile una sola prova indiziaria — ma anche con vicende propedeutiche o contigue alla commissione di questi ultimi e, infine, con fattispecie distorsive della regolarità e trasparenza delle procedure di aggiudicazione che pure non hanno, o non hanno avuto, conseguenze penali.
Le misure di intervento nei confronti dell'impresa possono essere emanate a seguito di provvedimenti penali che abbiano accertato, anche in via cautelare, responsabilità penali della gestione dell'impresa in riferimento all'affidamento pubblico, ma anche sulla mera rilevazione da parte dell'Autorità Nazionale Anticorruzione, ora dotata anche dei poteri di accertamento e vigilanza precedentemente attribuiti all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, di una situazione anomala e deficitaria sul piano dell'integrità dell'aggiudicatario del contratto pubblico.
Non è perciò necessaria l'acquisizione di una certezza probatoria di tipo giudiziale, essendo piuttosto sufficienti elementi indicativi di tali fattispecie, secondo una valutazione discrezionale da parte dell'Autorità Nazionale Anticorruzione e del Prefetto territorialmente competente.
Devono, quindi, considerarsi fatti accertati quelli sostenuti da riscontri oggettivi tali da far ritenere probabile un giudizio prognostico di responsabilità nei confronti della governance d'impresa per condotte criminali .
L'accertamento e la valutazione delle circostanze predette non può prescindere da un passaggio procedimentale di interlocuzione con gli interessati (intesi come stazione appaltante, impresa direttamente interessata alla misura in quanto destinataria potenziale ed eventualmente imprese terze interessate a sostituire quest’ultima nell’esecuzione del contratto) e segnatamente dal rigoroso rispetto degli adempimenti procedimentali partecipativi previsti dagli artt. 7 e seguenti della legge n. 241 del 1990.
Veniamo ad esaminare i profili problematici dei presupposti delle misure in dettaglio.
La prima questione attiene a comprendere che cosa si intende per pendenza di un procedimento penale per fatti corruttivi.
Occorre innanzitutto chiedersi quale sia il significato dell'espressione "Nell'ipotesi in cui l'autorità giudiziaria proceda….”.
Il riferimento all'autorità giudiziaria (che, secondo la terminologia processual-penalistica, comprende sia il pubblico ministero che il giudice) configura come non necessaria la pendenza di un processo penale.
E', infatti, sufficiente la pendenza di un procedimento penale, anche nella fase delle indagini preliminari, a partire dall'iscrizione della notitia criminis nel registro delle notizie di reato ex articolo 335 c.p.p.
La disposizione in esame non solo non richiede, quindi, la pronuncia di una sentenza di condanna, anche non definitiva, ma neppure l'esercizio dell'azione penale e, quindi, l'acquisizione della qualifica di imputato da parte della persona coinvolta[59].
E' necessario, tuttavia, ricordare che la pendenza del procedimento penale può portare all'attivazione della procedura amministrativa solo in presenza di "fatti gravi ed accertati".
Occorre, poi, precisare quali debbano essere le persone fisiche sottoposte a procedimento penale, al fine di consentire al Presidente dell'ANAC l'attivazione della procedura.
A questi fini soccorre la lettera a) del comma 1, laddove, a proposito dell'amministrazione temporanea e straordinaria, si parla di "rinnovazione degli organi sociali mediante la sostituzione del soggetto coinvolto".
Deve, pertanto, trattarsi di soggetti che compongono organi sociali.
Il riferimento ai componenti degli organi sociali — se intesi in senso stretto - costituirebbe un importante tratto distintivo tra la norma in esame e l'art 5 del d.lg. 231/2001, che, c. 1 lett. A), contempla i c.d. soggetti apicali, i quali non necessariamente fanno parte degli organi sociali (si pensi ai titolari di funzioni di direzione) e neppure comprendono i sindaci.
Ulteriore problema sulla nozione in discorso è posto dal comma 8, per cui le misure di sostegno e monitoraggio ivi previste possono essere disposte se le indagini penali riguardano "organi societari diversi da quelli indicati nel comma 1".
L'espressione sembra doversi intendere, invece, riferita agli organi societari diversi da quelli titolari di poteri di gestione e cioè ai sindaci e ai soci.
Altro profilo problematico riguarda la individuazione delle situazioni anomale e sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali
Insufficiente in termini di definizione, in ottica di certezza del diritto e di tutela del diritto di difesa dell'impresa, è il secondo presupposto (comma 1, lett. b.) e cioè sul cosa deve intendersi per "rilevate situazioni anomale" e comunque "sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali"[60].
Infine il terzo presupposto riguarda i "fatti gravi e accertati".
Tale requisito, come detto, è da considerarsi aggiuntivo rispetto a quelli appena menzionati e si tratta di requisito pregnante.
Il D.L. lo richiama espressamente come fondamento della proposta del Presidente dell'ANAC: sia con riferimento all'ipotesi di pendenza di un procedimento penale per fatti corruttivi, sia con riguardo all'ipotesi alternativa delle situazioni anomale e sintomatiche di illecito.
Per quanto riguarda la decisione del Prefetto, l'articolo 32 riferisce la (sola) valutazione di "particolare" gravità ai fatti oggetto dell'indagine penale: tuttavia appare prevalente il riferimento alla circostanza che il Prefetto debba accertare i "presupposti indicati al comma 1".
Ipotesi B.
Veniamo all’altra ipotesi, quella connessa all’intervenuta adozione dell’interdittiva antimafia da parte del Prefetto.
Il comma 10 si basa, invece, su diversi presupposti.
Oltre all’emanazione dell’interdittiva deve sussistere (ed essere motivata senza ricorrere a formule di stile) "l'urgente necessità di assicurare il completamento dell'esecuzione del contratto, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell'integrità dei bilanci pubblici".
Tale ultimo riferimento alla necessità di assicurare l'esecuzione o la prosecuzione del contratto non è contenuto nei commi 1 e 2.
Nelle seconde linee guida dell'ANAC si legge: "Il citato comma 10 configura, …., il completamento dell'esecuzione contrattuale o la sua prosecuzione come un mezzo per soddisfare interessi pubblici di rango più elevato, tassativamente elencati dalla norma, e cioè:
19 |
- la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali. Con tale espressione il Legislatore ha voluto fare riferimento all'esigenza di evitare interruzioni nell'erogazione di prestazioni che risultano indispensabili per consentire ad una collettività o a tipologie di utenti di poter esercitare diritti primari costituzionalmente garantiti quali la libertà di circolazione, il diritto alla salute ecc.;
- la salvaguardia dei livelli occupazionali. L'espressione "livelli occupazionali" fa riferimento in questo caso alla necessità di mantenere in essere un numero consistente di posti di lavoro, la cui perdita inciderebbe sul livello complessivo della popolazione occupata in un determinato contesto geografico (ad esempio nel territorio provinciale) o in un determinato comparto produttivo. Una lettura diversa dell' art. 32, comma 10, del D.L. n. 90/2014 rischierebbe, infatti, di rivelarsi poco coerente con il principio di ragionevolezza. Essa, infatti , finirebbe per ammettere la possibilità di derogare alla regola generale della risoluzione del contratto con l'impresa contigua alla criminalità organizzata (e quindi di accettare una minore tutela dell'interesse "sicurezza pubblica") al solo fine di tutelare posizioni poco più che individuali.
— l'integrità dei bilanci pubblici. E' di tutta evidenza che la norma intende salvaguardare non la mera capacità dell'impresa di produrre reddito e, quindi, di generare un potenziale gettito tributario. Se così fosse si dovrebbe ammettere che l'esigenza di garantire "l'integrità dei bilanci pubblici" ricorrerebbe pressoché ogni qual volta un'impresa è colpita da un’informazione antimafia interdittiva. Si è, invece, dell'avviso che l'art. 32, comma 10, faccia riferimento ad un interesse più "qualificato" e concreto, consistente nella necessità di evitare che l'interruzione di determinate attività implichi un danno diretto ed immediato alle entrate fiscali e quindi alle complessive esigenze della finanza pubblica (si pensi al caso, già sperimentato nella pratica, di attività di gestione dei giochi leciti sottoposte a concessione dell'Amministrazione finanziaria). Né si può escludere, salvo verificarne in concreto l'effettività, che un tale interesse possa essere messo a rischio nel caso in cui la realizzazione di un'opera comporti un consistente impiego di risorse pubbliche che potrebbe essere compromesso da un'eccessiva dilatazione dei tempi di esecuzione (ad esempio nel caso di Expo). Da quanto detto risulta evidente che esula dalle finalità perseguite dall' art. 32, comma 10, del D.L. n. 90/2014 il mero interesse dell'impresa a vedersi applicata una delle misure straordinarie in argomento, nell'intento di continuare nel rapporto con la pubblica amministrazione, sotto controllo di legalità, evitando cosi di subire l'interruzione del contratto con le conseguenti ricadute sul piano economico ma anche del venir meno di un requisito per una futura, successiva qualificazione.
È sorto il dubbio se nel perimetro della straordinaria e temporanea gestione di cui all'art. 32, comma 1, lett. b), del d.l. 90/2014 rientri la mera aggiudicazione di una gara finalizzata alla stipula di una Convenzione ex art. 26 L. n. 488/1999 (aggiudicazione disposta prima dell'adozione dell'interdittiva antimafia, ma senza che sia intervenuta la stipula).
Infatti altro problema di estrema delicatezza riguarda il presupposto dell'esistenza di un rapporto contrattuale in corso.
In riscontro alla richiesta di parere, relativamente ai quesiti sopra richiamati, si è correttamente osservato che la fattispecie concreta sottoposta da CONSIP SpA all'esame di ANAC non è suscettibile di rientrare nell'ambito di applicazione dell'art. 32, commi 1 e 10, d.l. 90/2014, non essendo ancora intervenuta la stipula del contratto, la disciplina delle misure straordinarie presupponendo che il rapporto contrattuale tra la stazione appaltante e l'operatore economico sia in corso di esecuzione (ANAC parere 21 ottobre 2015).
5.3 Competenza territoriale del Prefetto e procedimento
Per quanto attiene al tema della competenza territoriale del Prefetto, attesa la formulazione della norma, sarebbero praticabili diverse opzioni.
Nelle more di un auspicabile chiarimento legislativo, appare prudente rimettersi ad un criterio interpretativo che agganci l'individuazione della competenza territoriale ad un elemento di sistema già presente nel diritto positivo.
Il radicamento della competenza conseguirà alla scelta effettuata dall’Autorità proponente, e, dunque, dal Presidente dell'ANAC, sulla base delle varie esigenze che emergono nelle singole fattispecie.
Il dato normativo testuale àncora però la competenza alla sede della stazione appaltante con la conseguenza che potrebbero essere più Prefetti investiti della competenza a disporre la applicazione della misura straordinaria con evidenti profili di potenziale carenza di coordinamento che potrebbe essere supplita dal ruolo che svolge il Ministro dell'Interno al fine di uniformare le scelte sul territorio[61].
La legge di conversione n, 114/2014 è intervenuta a disciplinare espressamente la materia, con un'integrazione del comma 1 dell'art. 32, in virtù del quale la competenza a disporre le misure in argomento viene attribuita in via esclusiva al Prefetto del luogo dove ha sede la stazione appaltante. Ciò nell'evidente considerazione che quest' ultimo, operando nell'ambito territoriale in cui è stato aggiudicato l'appalto, potrà. disporre di maggiori elementi valutativi sulle condizioni di illiceità che giustificano l'adozione della misura straordinaria e seguirne più agevolmente la gestione commissariale.
Diverso, invece, il caso, previsto dal comma 10 dell'art. 32, in cui l'evento a monte della misura non coincide con un fatto corruttivo o illecito riferibile ad una ipotesi contrattuale ben individuata, quanto piuttosto ad un giudizio sull’onorabilità, dal punto di vista antimafia, dell'operatore economico, che si riverbera sulla complessiva capacità a contrattare con la pubblica amministrazione.
In questo caso l'adozione dello straordinario strumento commissariale ben potrebbe, essere attivato, da parte del Prefetto, non solo a presidio dell'appalto per il quale è stato chiesto il rilascio della documentazione antimafia, ma nei confronti di tutti i contratti in atto al momento del rilascio dell'interdittiva, ove ricorressero simultaneamente per tutti le eccezionali condizioni di cui al comma 10.
In questa prospettiva si comprende la scelta operata dal legislatore, laddove, con il D. Lgs. n. 153/2014, ha inserito una specifica previsione nell'art. 92 del D. Lgs. n. 159/2011.
A differenza. di quanto previsto per il 32, comma 1, tale novella attribuisce al Prefetto, che ha emesso l'informazione antimafia interdittiva, la titolarità del potere di avviare il procedimento per l'applicazione delle misure di cui all'art. 32, comma 10, del D.L. n. 90/2014 e di adottare il relativo provvedimento finale.
A seguito delle modificazioni introdotte dal D. Lgs. n. 153/2014, il Prefetto competente al rilascio dell'informazione antimafia è quello della provincia in cui l'impresa ha la sede legale, ovvero, per le società ex art, 2508 c.c., della provincia in cui è stata stabilita la sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato[62].
L'art. 32 delinea un procedimento articolato in due fasi.
La prima consiste nella proposta che il Presidente dell'ANAC, all'esito di una valutazione delle situazioni emerse, rivolge al Prefetto competente, indicando la misura ritenuta più adeguata da adottare;
La seconda consiste nell'adozione della misura da parte del Prefetto.
I due segmenti sono collegati e l'art. 32 prefigura una procedura a formazione progressiva, in quanto alla proposta motivata del Presidente dell'ANAC segue un'autonoma fase valutativa del Prefetto che può giovarsi anche di ulteriori approfondimenti, anche attraverso momenti di interlocuzione con la stessa Autorità.
Tra i due segmenti non si può eludere il momento partecipativo degli interessati in applicazione degli artt. 7 e ss. della legge n. 241 del 1990 sul quale si regge la tenuta costituzionale dell'assetto normativo.
Come si è già accennato, l'art. 32, in attuazione del principio di proporzionalità, gradua le misure da applicare in ragione della gravità della situazione in cui versa l'impresa.
A tal fine, la disposizione distingue due ipotesi.
La prima riguarda il caso in cui le fattispecie elencate al comma 1, lettere a) e b) interessino i soggetti componenti degli «organi sociali». Anche in questo caso pare logico ritenere che tale espressione sia da intendersi riferita agli organi titolari dei poteri di amministrazione.
L'art. 32 prevede che, laddove la situazione verificatasi possa essere superata attraverso un allontanamento del soggetto titolare o componente dell'organo sociale coinvolto nelle predette vicende, il Prefetto applicherà la misura di cui al comma 1, lettera a).
Detta misura consiste nell'ordine di rinnovare l'organo sociale mediante sostituzione del soggetto coinvolto entro il termine di trenta giorni, ovvero, nei casi più gravi, di dieci giorni (comma 2).
Nel caso in cui l'impresa non abbia ottemperato all'ordine di rinnovazione dell'organo sociale ovvero nel caso in cui la rinnovazione dell'organo sociale non risulti sufficiente a garantire gli interessi di tutela della legalità e dell'immagine dell'amministrazione (ad esempio, perché le situazioni verificatesi interessano più organi o una pluralità di loro componenti), si fa luogo alla misura più penetrante della straordinaria e temporanea gestione dell'impresa, sempre limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto.
42 |
Il procedimento di cui all'articolo 32 (commi 1, 2 e 8, giova ribadirlo, richiede l'intervento necessario di due distinte Autorità amministrative: il Presidente dell'ANAC - cui è riservato l'esercizio del potere di proposta - e il Prefetto - che è l'organo decidente, cui si imputano soggettivamente, ed anche sotto il profilo della responsabilità, gli atti che definiscono il procedimento.
In buona sostanza, ci si trova di fronte ad una duplice motivazione, la prima a sostegno dell'atto propulsivo del Presidente dell'ANAC e la seconda a sostegno del decreto del Prefetto.
Il Prefetto non può, pertanto, adottare d'ufficio il provvedimento, potendo, comunque, sollecitare il Presidente dell'ANAC ad attivare formalmente la procedura.
Diversa è la procedura di cui al comma 10, che ha carattere monofasico ad iniziativa e definizione prefettizia.
La disposizione prevede che le misure in questione sono adottate in autonomia dal Prefetto, che le comunica al Presidente dell'ANAC.
Si tratta dell'ipotesi in cui sia stata emessa dal Prefetto un'informazione antimafia interdittiva e sussista l'urgente necessità di assicurare il completamento dell'esecuzione del contratto, ovvero la sua prosecuzione.
Anche in questo procedimento vale il principio di garanzia della partecipazione, che non è prevista per l’adozione dell’interdittiva, ma è doverosa per l’adozione del provvedimento di nomina degli amministratori straordinari ai sensi dell’articolo 32 del decreto-legge n. 90.
Non sussiste la necessità del previo intervento della comunicazione di avvio del procedimento in occasione dell'emissione dell'informativa interdittiva e dei conseguenti provvedimenti incidenti sul rapporto amministrativo a valle, poiché si tratta di procedimenti in materia di tutela antimafia, come tali caratterizzati intrinsecamente da riservatezza ed urgenza[63].
5.4 La tipologia dei provvedimenti adottabili
L'art. 32 consente alternativamente l'adozione di uno dei seguenti provvedimenti:
- la rinnovazione degli organi sociali mediante la sostituzione del soggetto coinvolto nelle predette vicende individuate come rilevanti ai fini qui in argomento (comma 1, lettera a);
- la straordinaria e temporanea gestione dell'attività dell'impresa appaltatrice limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto oggetto del procedimento penale (comma 1, lettera b);
- il sostegno e il monitoraggio dell'impresa, finalizzati a riportarne la gestione entro parametri di legalità (comma 8).
L'intervento sostitutivo non viene ad implicare «l'azzeramento» degli organi sociali preesistenti, ma si concretizza in un più limitato intervento di «sterilizzazione» che appare più conforme, nell'attuale fase, ad un prudenziale criterio di non invadenza e di rispetto dell'autonomia di impresa.
Pertanto, nel predetto caso gli amministratori nominati dal Prefetto sostituiranno i titolari degli organi sociali dotati di omologhi poteri soltanto per ciò che concerne la gestione delle attività di impresa connesse all'esecuzione del contratto da cui trae origine la misura.
Gli organi sociali ordinari resteranno in carica per lo svolgimento di tutti gli altri affari riguardanti lo stesso o altri eventuali settori dell'attività economica dell'azienda.
Si realizza in tal modo una forma di gestione separata e a tempo di un segmento dell'impresa, finalizzata esclusivamente all'esecuzione dell'appalto pubblico, le cui modalità di attuazione e di gestione potranno essere definite anche attraverso il ricorso agli strumenti previsti dall'ordinamento - si pensi ad esempio a quelli regolati dall'art. 2447-bis c.c. - che consentono forme di destinazione specifica del patrimonio sociale ad un determinato affare.
Con l’atto che dispone tale misura, il Prefetto provvede anche:
- alla nomina di nuovi amministratori (fino ad un massimo di tre), scelti tra soggetti in possesso dei requisiti di professionalità e moralità previsti dal decreto ministeriale 10 aprile 2013, n. 60, per coloro che vengono chiamati a ricoprire l'incarico di commissario giudiziale e commissario straordinario nelle procedure di amministrazione straordinaria di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (comma 2);
- alla determinazione del compenso spettante ai predetti amministratori, calcolato sulla base delle tabelle allegate al decreto legislativo 4 febbraio 2010, n. 14, che regola gli emolumenti da corrispondere agli amministratori giudiziari (comma 6, modalìta oggi disciplinata dalle terze e quarteLinee guida ANAC- Ministero dell'Interno);
- alla durata della straordinaria e temporanea gestione che deve essere commisurata alle esigenze connesse alla realizzazione dell'appalto pubblico oggetto del contratto.
Con la straordinaria e temporanea gestione, sono sospesi l'esercizio dei poteri di disposizione e gestione dei titolari dell'impresa, nonché i poteri dell'assemblea dei soci.
Gli amministratori nominati dal Prefetto assumono, invece, i poteri degli organi di amministrazione limitatamente al segmento di attività riguardante l'esecuzione dell'appalto pubblico da cui trae origine la misura, provvedendo per le somme introitate dall'impresa ad osservare le particolari regole stabilite al comma 7.
Una misura diversa viene, infine, prevista nell'ipotesi in cui le indagini concernenti le situazioni di cui al predetto comma 1 riguardino componenti diversi dagli organi sociali, propriamente titolari dei poteri di amministrazione.
Tale fattispecie presuppone un minor livello di compromissione dell'operatore economico e giustifica, in ragione del principio di proporzionalità, l'adozione di una misura più attenuata, consistente nella nomina di uno o più esperti con compiti di monitoraggio e sostegno dell'impresa (comunque in numero non superiore a tre), nominati dal Prefetto tra coloro che sono in possesso dei requisiti di professionalità e moralità di cui al già menzionato
Il procedimento di nomina degli esperti e quello di determinazione del loro compenso è regolato in termini coincidenti a quelli previsti per gli amministratori incaricati della straordinaria e temporanea gestione dell'impresa, per cui si rinvia a quanto già detto sopra sull'argomento.
L'obiettivo perseguito è quello di inserire all'interno della compagine di impresa un «presidio», in grado di stimolare l'avvio di un percorso finalizzato a riportare la linea gestionale su binari di legalità e trasparenza.
A tal fine, infatti, l'art. 32, comma 8, attribuisce agli amministratori il potere di fornire all'impresa prescrizioni operative, riferite ai seguenti aspetti della vita dell'azienda:
- ambiti organizzativi;
- sistema di controllo interno;
- organi amministrativi e di controllo.
5.5 La cessazione degli effetti delle misure straordinarie
Il comma 5 dell'art. 32 individua le ipotesi di cessazione anticipata della rinnovazione dell'organo sociale e della straordinaria e temporanea gestione dell'impresa.
La norma prevede, infatti, che il Prefetto debba revocare le predette misure nel caso in cui sopravvenga un provvedimento che dispone la confisca, il sequestro o l'amministrazione giudiziaria dell'impresa.
Tali ipotesi non escludono comunque la possibilità che la revoca del provvedimento possa essere disposta nell'esercizio del generale potere di autotutela disciplinato dall'art. 21 quinques della legge 7 agosto .. n. 241.
Ancorché ciò non sia espressamente previsto, la revoca dovrà essere disposta anche nel caso in cui l'Autorità Giudiziaria adotti un provvedimento che escluda ipotesi di responsabilità dell'operatore economico nelle vicende che hanno dato luogo alle misure (sentenze di non luogo a luogo a procedere adottata per motivi diversi dall'estinzione del reato, sentenze di assoluzione adottate ai sensi dell’articolo 530, comma 1, c.p.p.).
In tali ipotesi viene, infatti, meno il presupposto sulla base del quale è stato adottato il provvedimento conformativo dell'attività di impresa.
Purtuttavia la revoca dovrà essere proceduta da una valutazione discrezionale, sviluppata dal Prefetto d'intesa con il Presidente dell'ANAC, nell'ipotesi in cui sopravvengano sentenze di proscioglimento per motivi diversi da quelli sopra indicati, sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti, ovvero provvedimenti che determinano la cessazione delle misure cautelari disposte dall'Autorità Giudiziaria.
Occorrerà valutare se i provvedimenti sopravvenuti siano in grado di far ritenere che sia venuto meno il profilo di responsabilità addebitabile all'impresa o che esso si sia comunque attenuato al di sotto della soglia di certezza o gravità richiesta dal comma 1 dell'art. 32.
Analogamente la cessazione degli effetti della misura straordinaria va ricondotta all’adozione da parte del giudice amministrativo di provvedimenti cautelari che sospendono l’efficacia o di sentenza di annullamento dell’interdittiva antimafia.
In particolare l’annullamento dell’interdittiva non produce soltanto effetti vizianti sulle misure straordinarie ex articolo 32 del decreto-legge 90, bensì caducanti.
Giova ricordare che per la concreta individuazione della invalidità ad effetto caducante si deve valutare l'intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento di tale effetto solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi, estranei alla precedente vicenda contenziosa.
Nel processo amministrativo, infatti, in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma resta efficace ove non ritualmente impugnato.
La prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente[64].
Altra ipotesi di possibile cessazione degli effetti del commissariamento riguarda l’ammissione dell’impresa al controllo giudiziario ai sensi dell’art. 34 bis del codice antimafia.
Il controllo giudiziario non determina lo “spossessamento gestorio” ma consiste in una vigilanza prescrittiva condotta dal commissario nominato dal Tribunale per le misure di prevenzione, al quale viene affidato il compito di monitorare all’interno dell’azienda l’adempimento di una serie di obblighi di compliance imposti dal giudice.
In tal caso il presidio di legalità nella forma del c.d. “tutoraggio” all’azienda si fonda sul medesimo presupposto della gestione commissariale di nomina prefettizia già avviata, vale a dire la presenza di indizi di fatto rivelatori di pericoli di contiguità o di agevolazione mafiosa.
Qualora tale controllo venga disposto dal magistrato perché ritenuto adeguato alle rilevate esigenze di prevenzione in relazione alla totalità dei rapporti economici facenti capo all’azienda, è dubbio se determini il venir meno della misura ex art. 32, del decreto-legge 90/2014, analogamente a quanto previsto dal comma 5 della medesima norma per il caso in cui siano applicate le confisca, il sequestro o l’amministrazione giudiziaria dell’impresa.
Siffatta interpretazione, del resto, sarebbe avvalorata dalla circostanza che quello riservato al Prefetto è un potere conformativo e limitativo della libertà di iniziativa economica che deve essere esercitato secondo canoni rispettosi del principio di proporzionalità.
Ne discenderebbe che, se nella scala degli interventi astrattamente possibili in ragione della gravità della situazione riscontrata a carico dell’operatore economico, il Tribunale ritiene percorribile la strada del controllo giudiziario, non sembra possibile giustificare ulteriormente il mantenimento di una gestione separata “ad contractum”[65].
Purtuttavia va rilevato che la giurisprudenza amministrativa appare essere orientata in senso diverso.
Va richiamata la pronuncia del Consiglio di Stato (sezione V n. 3268 del 31 maggio 2018) nella quale si affronta la problematica degli effetti sospensivi che determina l‘ammissione di un‘impresa al controllo giudiziario con riguardo all‘interdittiva antimafia.
In linea con quanto opinato dal Consiglio di Stato, il decreto di ammissione alla procedura di cui all’art. 34 bis del d. lgs. n. 159 del 2011, non è idoneo a modificare il giudizio in ordine alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione nella società sottesa ai provvedimenti impugnati: “in primo luogo il controllo giudiziario che permette la prosecuzione dell’attività imprenditoriale sotto controllo giudiziario non ha effetti retroattivi ed in secondo luogo perché non costituisce un superamento dell’interdittiva, ma in un certo modo ne conferma la sussistenza, con l’adozione di un regime in cui l’iniziativa imprenditoriale può essere ripresa per ragioni di libertà di iniziativa e di garanzia dei posti di lavoro, sempre naturalmente in un regime limitativo di assoggettamento ad un controllo straordinario” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2018, n. 3268).
In conclusione, mentre non vengono travolti gli effetti dei provvedimenti già adottati in esecuzione dell’interdittiva antimafia e precedenti all’ammissione al controllo giudiziario ne viene preclusa l’adozione successiva.
5.6 I rapporti con la disciplina del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231
Il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 e la nuova disciplina dettata dal decreto legge 24 giugno 2014, n. 90 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114) hanno introdotto due meccanismi di intervento, rispettivamente del giudice penale e dell’amministrazione, sui reati di impresa.
Si tratta di interventi legislativi sintomatici di un’innovativa impostazione che il legislatore ha inteso imprimere al diritto anche penale delle attività economiche in ragione di diversi fattori.
Da un lato, le difficoltà del modello punitivo-repressivo per sé solo considerato e le trasformazioni che hanno finito per incidere sull’ubi consistam di interi fenomeni delinquenziali; dall’altro, la necessità di fronteggiare plurime esigenze collettive legate allo svolgimento di talune attività imprenditoriali, relative alla destinazione finalistica di talune iniziative di impresa (servizi pubblici o di pubblica necessità) ovvero alle dimensioni delle singole strutture imprenditoriali coinvolte o, ancora, alla consistenza del radicamento territoriale delle stesse e ai connessi livelli occupazionali assicurati.
Le ragioni predette hanno persuaso il legislatore dell’inadeguatezza di un sistema di contrasto affidato al solo funzionamento di classici meccanismi repressivi e, dunque, della necessità di promuovere due linee di intervento: il coinvolgimento dello stesso mondo imprenditoriale nell’approntare modelli organizzativi idonei a prevenire il verificarsi degli illeciti e l’adozione di strumenti destinati a tener conto degli interessi sovraindividuali coinvolti nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, nell’ambito della più generale tendenza dell’ordinamento a non trascurare le ragioni della continuità d’impresa pure a fronte di fenomeni delinquenziali.
La pluralità delle previsioni normative che danno atto della avvertita esigenza di conciliare il contrasto al crimine di impresa con le ragioni della continuità aziendale sollecita, peraltro, una doverosa riflessione sull’immanenza di un principio generale dell’ordinamento, ispirato alla logica della conservazione dei beni correlati alla operatività dell’impresa e in parte ricavabile, sul piano penale, ai criteri di adeguatezza e proporzionalità della pena e della misura cautelare.
Ad una logica analoga risponde la previsione dell'art. 32, comma 10, d.l. n. 90 del 2014 che consente di irrogare le predette misure anche alle imprese colpite da informazione antimafia interdittiva.
Anche in questo caso la previsione legislativa è volta ad assicurare il completamento dell'esecuzione contrattuale o la sua prosecuzione quale mezzo per soddisfare interessi pubblici di rango più elevato, tassativamente elencati dalla norma, e cioè la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, la salvaguardia di livelli occupazionali, l’integrità dei bilanci pubblici.
Misure, quindi, introdotte non tanto con finalità “terapeutica” dell’impresa quanto, piuttosto, con la finalità di salvaguardare - attraverso una conformazione della libertà d'impresa - la realizzazione di interessi pubblici superiori messi in pericolo da situazioni di contiguità o agevolazione mafiosa, ascrivibili a responsabilità dell'impresa e dei soggetti capaci di condizionarne l'andamento: è quanto confermato dalla circostanza che si tratta di presidi a garanzia di uno specifico "contratto"- quello in relazione al quale vengono in evidenza le esigenze individuate dall'art. 32 - e non della totalità delle commesse pubbliche acquisite dall’impresa al momento dell'adozione della misura.
Con riguardo ai rapporti con il commissariamento ex art. 15, d.lgs. n. 231 del 2001 e con le informazioni antimafia interdittive non è agevole la ricostruzione della linea di demarcazione tra le misure disciplinate dal citato art. 32, quelle del commissariamento ex art. 15, d.lgs. n. 231 del 2001, e delle informazioni antimafia interdittive.
Quanto ai rapporti con l’istituto del commissariamento previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001 la misura della straordinaria e temporanea gestione se ne distingue ontologicamente, essendo volta a sottoporre a controllo quella parte dell'impresa impegnata nello specifico contratto pubblico per cui viene ravvisata l'esigenza di intervenire, non anche – come il commissariamento - a realizzare un integrale e radicale "spossessamento" dei poteri gestori.
Anche con riferimento all’istituto del commissariamento ex art. 15, d.lgs. n. 231 del 2001, si impone al giudice penale che lo dispone di tener conto del principio di frazionabilità, inteso come corollario di quelli di proporzionalità ed adeguatezza.
In caso di interferenza, allora, la natura giudiziale della misura ex art. 15, d.lgs. n. 231/2001, dovrebbe indurre a ritenere la prevalenza della stessa rispetto a quella ex art. 32, d.l. n. 90/2014.
Ciò può trovare una base giuridica nel comma 5 dello stesso art. 32, a tenore del quale “Le misure di cui al comma 2 sono revocate e cessano comunque di produrre effetti in caso di provvedimento che dispone la confisca, il sequestro o l'amministrazione giudiziaria dell'impresa nell'ambito di procedimenti penali o per l'applicazione di misure di prevenzione”.
Quanto ai rapporti tra le misure disciplinate dal citato art. 32 e le informazioni antimafia interdittive, giova considerare che l'art. 32, comma 10, prevede che le misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio dell'impresa trovino applicazione “ancorché ricorrano i presupposti di cui all'articolo 94, comma 3” del d.lgs. n. 159/2011.
Ne deriva che, presenti le condizioni previste dal citato art. 32 e riscontrata quindi la necessità di salvaguardare i particolari interessi pubblici indicati al richiamato comma 10, il Prefetto dovrà necessariamente fare luogo all'applicazione delle predette misure straordinarie, tanto nel caso in cui, essendo stata l’impresa colpita da interdittiva, sia la stessa soggetta alle conseguenze di cui all’art. 94, comma 2 (revoca e recesso), quanto nel caso in cui la stazione appaltante abbia espresso la necessità di continuare nel rapporto contrattuale, in quanto l'opera è in corso di ultimazione, ovvero l'impresa, fornitrice di beni e servizi ritenuti essenziali per l'interesse pubblico, non sia sostituibile in tempi rapidi (art. 94, comma 3).
Si tratta di soluzione agevolmente spiegabile se si considera che il citato art. 94, comma 3, consente di proseguire nel rapporto contrattuale senza introdurre alcuna forma di controllo o di "presidio di legalità" nell'impresa che risulta essere infiltrata[66].
5.7 La casistica giurisprudenziale
Il primo contenzioso amministrativo ha avuto origine dall'avvio di un'indagine penale, ed è relativo all'appalto pubblico per la progettazione ed esecuzione dei lavori delle architetture di servizio per l'evento Expo 2015.
Dalle indagini della Procura di Milano per i reati di corruzione e turbativa d'asta dell'appalto in questione, concluse con l'adozione di misure cautelari personali nei confronti del direttore generale della stazione appaltante e dell'amministratore delegato dell'impresa aggiudicataria sono, infatti, emerse violazioni dei principi di concorrenza e trasparenza nello svolgimento della procedura di aggiudicazione tali da indurre le imprese classificatesi seconde in graduatoria, costituitesi in r.t.i, a formulare alla stazione appaltante richiesta di risoluzione del contratto sottoscritto con l'impresa aggiudicataria.
A seguito della risposta negativa della stazione appaltante , secondo cui non sussistevano i presupposti per la risoluzione del contratto, le imprese seconde classificate hanno presentato ricorso dinanzi al TAR Lombardia, sede di Milano, impugnando gli atti della procedura di aggiudicazione.
Ne è derivata, a opera dell'impresa aggiudicataria resistente, un'eccezione di rito relativa alla tardività del ricorso: eccezione respinta dal TAR Lombardia secondo cui il termine d'impugnazione dovesse considerarsi decorrente dalla data, successiva all'aggiudicazione, di conoscenza degli elementi emersi dalle indagini penali e dalle misure cautelari emanate per i reati commessi.
Il TAR Lombardia ha poi proceduto ad annullare l'aggiudicazione dell'appalto pubblico in considerazione della violazione del protocollo di legalità, parte integrante della lex specialis della gara, sottoscritto anche dall'aggiudicataria, con cui ogni operatore economico coinvolto nella procedura pubblica si sottoponeva a obblighi d'informazione e di denuncia della commissione di eventi criminali che potessero compromettere la legittimità della procedura nonché ad accettare il relativo sistema sanzionatorio, in forza di cui tali prescrizioni erano vincolanti a pena di esclusione dalla gara e alla cui violazione conseguiva la revoca dell’affidamento e la risoluzione automatica del contratto.
Il giudizio d'appello innanzi al Consiglio di Stato si è concluso a favore degli appellanti.
Si legge in particolare nella sentenza del Consiglio di Stato numero 143 del 2015: “Sotto tale ultimo profilo, mette conto richiamare nuovamente la sopravvenuta disciplina di cui al già citato d.l. nr. 90 del 2014, la quale secondo l’avviso di questa Sezione costituisce la miglior conferma del carattere non automaticamente viziante di fatti come quelli emersi durante l’esecuzione dell’appalto di che trattasi (come dimostrato dal fatto che il legislatore ha dovuto escogitare uno strumento ad hoc per impedire all’affidatario di continuare a percepire quello che potrebbe essere il profitto di un reato), e al tempo stesso dell’opzione normativa in favore del mantenimento in essere del rapporto contrattuale scaturito dall’originario affidamento (come dimostrato dall’avere il legislatore bilanciato unicamente i due interessi pubblici alla sollecita realizzazione dell’opera pubblica e ad impedire al possibile reo di lucrare sul proprio illecito, lasciando sullo sfondo l’interesse delle altre imprese partecipanti alla gara a monte).
Tale ultimo interesse, se del caso, potrà trovare tutela in via risarcitoria attraverso la costituzione di parte civile nel giudizio penale ovvero attraverso la proposizione di autonoma azione nei confronti di coloro che dovessero risultare responsabili di reati (laddove, quanto ai pubblici funzionari, l’effettivo e definitivo accertamento della loro responsabilità penale confermi l’interruzione del rapporto di immedesimazione organica con l’Amministrazione di appartenenza)”.
Altra pronuncia che fa applicazione dei principi desumibili dall'art. 32 del D.L. n. 90 è quella del Consiglio di Stato n. 4539 del 2015.
Nella fattispecie si lamentava che il Prefetto di Roma avesse adottato l'informativa antimafia, in violazione del disposto di cui all'art. 32 del d.l. 90/2014 e del Protocollo d'intesa ANAC/Ministero dell'Interno, i quali prevedono misure più attenuate e meno estreme di gestione, sostegno e monitoraggio, in favore dell'impresa sospetta di infiltrazioni mafiose, prima di emettere l'informativa, che paralizza di fatto la vita dell'impresa, aggiudicataria di ben 57 commesse pubbliche.
Nella sentenza si legge “È ben evidente, dalla lettura di tale ultima disposizione, che l'emissione del provvedimento interdittivo non necessariamente debba essere preceduta dall'adozione delle misure di cui al comma 1 dell'art. 32 del d.l. 90/2014, sicché il Prefetto può legittimamente emettere l'informativa, ricorrendone i presupposti di cui all'art. 91 del d. lgs. 159/2011, salvo poi, nelle ipotesi di cui al comma 10 dell'art. 32 del d.l. 90/2014, adottare successivamente le misure sostitutive di cui al comma 1 del predetto articolo.
La mancata previa adozione di tali misure non ha efficacia invalidante, dunque, sull'emissione dell'informativa né viola i canoni di adeguatezza, proporzionalità ed adeguatezza.
Dal quadro normativo sin qui descritto si desume, in altri termini, che le misure di cui all'art. 32, commi 1, 2 e 8, del d.l. 90/2014 possono essere applicate contestualmente all'adozione dell'interdittiva antimafia e che l'intervento sostitutivo dell'autorità prefettizia, in ipotesi di interdittiva già in atto, è consentito solo nelle ipotesi eccezionali, previste dal comma 10, che giustificano la prosecuzione del rapporto contrattuale, previa "bonifica" dell'assetto societario, per preminenti ragioni di interesse generale, al punto che l'attività di temporanea e straordinaria gestione dell'impresa è considerata di "pubblica utilità", come chiarisce il comma 4.
Tanto sono preminenti ed eccezionali tali ragioni e tanto esse sono di interesse generale, peraltro, che il successivo art. 92, comma 2-bis, del d. lgs. 159/2011 prevede che il procedimento, previsto dall'art. 32, comma 1, del d.l. 90/2014, debba essere avviato obbligatoriamente d'ufficio dal Prefetto, con la conseguenza che l'impresa interessata è legittimata ad esercitare, nell'ambito di esso, esclusivamente gli strumenti di partecipazione previsti dagli art. 7, 8 e 10 della 1. 241/1990 e non a chiedere l'avvio del procedimento stesso".
Recentemente è stata affrontata la questione della compatibilità tra commissariamento ex art. 32, comma 1, d.l. n. 90 del 2014 e potere di autotutela della stazione appaltante.
Il Consiglio di Stato (sentenza III 22 agosto 2018 n. 5023) ha ritenuto che l’avvenuto commissariamento ex art. 32, commi 1 e ss., d.l. 24 giugno 2014, n. 90 dell’impresa aggiudicataria non priva la stazione appaltante del potere di autotutela, di cui all’art. 21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241, in relazione all’aggiudicazione della gara.
Si è così chiarito che le misure ex art. 32, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, secondo la logica tipica del sistema normativo finalizzato a frapporre un argine alla diffusione delle condotte criminali nel delicato settore dei pubblici appalti ed a contenere i relativi effetti inquinanti sulla sua corretta gestione, assolvano ad una funzione di carattere “preventivo”, mirando alla sterilizzazione delle conseguenze dannose di quelle condotte (le quali altrimenti, dopo aver minato la fase costitutiva del rapporto, si propagherebbero a quella strettamente esecutiva), nelle more di più approfonditi accertamenti in ordine alla incidenza dei riscontrati comportamenti illeciti sulla genesi del rapporto contrattuale (suscettibili di generare, appunto, l’adozione di più penetranti misure di autotutela).
Inoltre, il fatto che le “situazioni sintomatiche di condotte illecite” integrino il presupposto applicativo della misura de qua non impedisce di riconoscere nelle stesse una (concorrente) attitudine giustificativa del provvedimento di autotutela qualora, da quelle condotte e/o da altre concomitanti circostanze, sia desumibile, oltre ai profili di illegittimità (quindi di annullabilità) del provvedimento di aggiudicazione, l’interesse pubblico alla sua caducazione.
Capitolo 6
L’amministrazione ed il controllo giudiziario (artt. 34 e 34 bis codice antimafia).
6.1. Le ragioni della disciplina innovativa della legge del 17 ottobre 2017, n. 161.
Oltre agli strumenti “tradizionali”, di consolidata acquisizione, quali il sequestro e la confisca, nella loro forma penale e preventiva, la normativa più recente ha introdotto e valorizzato le misure di tipo alternativo al sistema incentrato sulla confisca, sul presupposto di un’attitudine di pari grado nel neutralizzare i condizionamenti criminali sulle realtà economiche[67].
Il legislatore antimafia, intervenuto da ultimo in materia con la legge del 17 ottobre 2017, n. 161, si è orientato in questo senso, modificando l’impianto codicistico, ed introducendo nuovi strumenti non ablativi, nonchè novellando quelli già presenti, con il fine di contrastare l’insediamento del fenomeno criminale di stampo mafioso nel tessuto economico e sociale.
In particolare, tra le novità introdotte dalla legge n. 161 del 2017 assumono rilievo le modifiche all’istituto dell’amministrazione giudiziaria, di cui all’art. 34 del d.lgs. 159/2011, ed il controllo giudiziario delle imprese a rischio di infiltrazione mafiosa, all’art. 34-bis dello stesso codice, collocati nella sezione del codice antimafia che disciplina le misure di prevenzione diverse dalla confisca.
Si tratta di misure con le quali si autorizza un’ingerenza da parte dello Stato all’interno delle aziende che fiancheggino o siano a rischio-contaminazione con le organizzazioni mafiose, senza disporre, però, una totale estromissione dei soggetti titolari dalla gestione delle attività economiche[68].
Si garantisce, così, un duplice risultato:
- da un lato, quello di salvare le realtà imprenditoriali che rivelino un’insufficiente attitudine nel difendersi dai tentativi di commistione criminale;
- dall’altro, quello di fornire un apporto concreto nel ripristino della legalità, garantendo altresì all’impresa la continuità aziendale.
Il presupposto fattuale che accomuna i due istituti è rappresentato dalla condotta indirizzata ad agevolare gli interessi mafiosi.
6.2 L’amministrazione giudiziaria
L’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche viene disciplinata dall’art. 34 del d.lgs. 159/2011, che è stato integralmente sostituito dall’art. 10 della l. 161 del 2017.
Con tale misura di prevenzione, si privano i soggetti proposti della disponibilità e della gestione di beni e attività economiche strumentali al raggiungimento di finalità criminali.
L’art. 34 prevede come presupposti per l’adozione dell’amministrazione giudiziaria:
- gli accertamenti di cui all'articolo 19 o di quelli compiuti per verificare i pericoli di infiltrazione mafiosa, previsti dall'articolo 92, ovvero di quelli compiuti dall'Autorità nazionale anticorruzione;
- la sussiestenza di sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle di carattere imprenditoriale, sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall'articolo 416-bis del codice penale o possa comunque agevolare l'attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione personale o patrimoniale previste dagli articoli 6 e 24 del codice antimafia, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti di cui all'articolo 4, comma 1, lettere a), b) e i-bis), del codice stesso, ovvero per i delitti di cui agli articoli 603-bis, 629, 644, 648-bis e 648-ter del codice penale.
Nei casi predetti se non ricorrono i presupposti per l'applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, il Tribunale competente per l'applicazione delle misure di prevenzione nei confronti delle persone sopraindicate può disporre l'amministrazione giudiziaria, che riguarda le aziende o i beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle predette attività economiche.
La misura può essere proposta dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo del distretto ove dimora la persona, dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, dal Questore o dal Direttore della Direzione investigativa antimafia.
In tale contesto la richiesta di adozione dell’amministrazione giudiziaria può essere richiesta dal Questore anche in alternativa all’adozione di un’interdittiva antimafia, coordinando l’iniziativa con il Prefetto, qualora non sussistessero i presupposti previsti per la relativa adozione (in tale contesto assume rilevanza il coordinamento tra le iniziative dei due organi del Ministero dell’Interno).
L'amministrazione giudiziaria dei beni è adottata per un periodo non superiore a un anno e può essere prorogata di ulteriori sei mesi per un periodo comunque non superiore complessivamente a due anni, a richiesta del pubblico ministero o d'ufficio, a seguito di relazione dell'amministratore giudiziario che evidenzi la necessità di completare il programma di sostegno e di aiuto alle imprese amministrate e la rimozione delle situazioni di fatto e di diritto che avevano determinato la misura.
Il Tribunale nomina il giudice delegato e l'amministratore giudiziario, il quale esercita tutte le facoltà spettanti ai titolari dei diritti sui beni e sulle aziende oggetto della misura.
Nel caso di imprese esercitate in forma societaria, l'amministratore giudiziario può esercitare i poteri spettanti agli organi di amministrazione e agli altri organi sociali secondo le modalità stabilite dal Tribunale, tenuto conto delle esigenze di prosecuzione dell'attività d'impresa, senza percepire ulteriori emolumenti.
Il provvedimento è eseguito sui beni aziendali con l'immissione dell'amministratore nel possesso e con l'iscrizione nel registro tenuto dalla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel quale è iscritta l'impresa.
Qualora oggetto della misura siano beni immobili o altri beni soggetti a iscrizione in pubblici registri, il provvedimento di cui al comma 1 deve essere trascritto nei medesimi pubblici registri.
Entro la data di scadenza dell'amministrazione giudiziaria dei beni o del sequestro di cui al comma 7, il Tribunale, qualora non disponga il rinnovo del provvedimento, delibera in camera di consiglio la revoca della misura disposta ed eventualmente la contestuale applicazione del controllo giudiziario di cui all'articolo 34-bis, ovvero la confisca dei beni che si ha motivo di ritenere che siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.
Quando vi sia concreto pericolo che i beni sottoposti al provvedimento vengano dispersi, sottratti o alienati, nei casi in cui si ha motivo di ritenere che i beni siano frutto di attività illecite o ne costituiscano l'impiego, i soggetti che possono richiedere l’amministrazione giudiziaria possono richiedere al Tribunale di disporne il sequestro:
Secondo quanto dispone la norma che disciplina l’amministrazione giudiziaria, al fine di evitare una sua eccessiva operatività, il requisito dell’agevolazione va circoscritto grazie ad un’interpretazione rigorosa, secondo la quale per condotta agevolatrice debba intendersi quell’attitudine comportamentale atta a rivelare un’obiettiva commistione di interessi tra le attività delittuose dell’agevolato e l’attività dell’impresa agevolante.
Con tale misura di prevenzione, si privano i soggetti proposti della disponibilità e della gestione di beni e attività economiche strumentali al raggiungimento di finalità criminali.
Lo scopo della misura è quello di inibire l’espansione del fenomeno mafioso, di ferenareare quella tendenza tipicamente delinquenziale a creare canali di arricchimento tramite l’esercizio di influenze su attività economiche lecite che - pur in carenza di un collegamento diretto con il proposto (e con la sua pericolosità) - risultino agevolare l’attività di quest’ultimo.
La disciplina dell’art. 34 delinea, pertanto, una misura patrimoniale di carattere preventivo che consente all’autorità giudiziaria di intervenire sulle imprese e, più in generale, nell’ambito di qualsiasi attività economica, che rivelino situazioni di infiltrazione e di contiguità con le consorterie mafiose tali da danneggiare il regolare e libero esercizio dei ruoli imprenditoriali.
Pertanto, si tratta di aziende che mostrano una spiccata attitudine nel fiancheggiamento di contesti delinquenziali, senza essere (ancora) qualificabili come “imprese mafiose”.
Con l’applicazione del provvedimento dell’amministrazione giudiziaria si sottrae temporaneamente alla società di riferimento il controllo aziendale per attribuirlo, in un primo momento, al Tribunale, e, in una seconda fase, a un soggetto terzo, preventivamente individuato, ossia l’amministratore giudiziario, a cui sono riconosciute tutte le facoltà spettanti ai titolari dei diritti sui beni e sulle aziende oggetto della misura.
Il Tribunale può applicare la misura preventiva al ricorrere di un duplice presupposto alternativo:
- qualora sussistano indizi sufficienti da rivelare condizioni di assoggettamento o intimidazione di tipo mafioso;
- ovvero quando l’esercizio dell’attività economica si sostanzi in una condotta agevolatrice di soggetti che siano sottoposti a misure preventive patrimoniali o personali, o ancora siano imputati in un processo penale per i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso o di corruzione.
Nel primo caso, il contesto in cui agisce l’operatore economico lascia presagire un’imposizione estorsiva da parte dei contesti criminali, che relega l’imprenditore alla posizione di vittima; al ricorrere del secondo presupposto, il legame tra attività economica e criminalità mafiosa rivela, invece, una situazione di commistione.
In ogni caso, le imprese destinatarie del provvedimento non devono rientrare nella titolarità o disponibilità diretta di organizzazioni mafiosie, ma è sufficiente che si collochino in una posizione agevolatrice della loro attività illecita.
Uno degli aspetti più dibattuti ha riguardato proprio l’esatta individuazione del concetto di agevolazione dell’attività economica.
Tale questione è spesso rimasta irrisolta, riscontrandosi una tendenza tutt’altro che univoca nel delinearne i confini.
L’agevolazione può, quindi, assumersi come parametro della contiguità, come indice rivelatore di un sostanziale vantaggio economico, da parte dell’impresa - per questo colpita dalla misura di cui all’art. 34 - nei confronti del sodalizio criminale, che favorisca un incremento patrimoniale di tipo funzionale o organizzativo.
L’oggetto cui è destinata ad incidere la misura è rappresentato non da beni che si trovino nella diretta disponibilità del soggetto intraneo al sodalizio mafioso e beneficiario dell’agevolazione, bensì «beni-mezzo», che si inseriscano in peculiari rapporti con le finalità proprie dell’associazione mafiosa.
Sia che l’applicazione dell’istituto consegua al riscontro di una condotta agevolativa, sia che si proceda in tal senso per la presenza di “sufficienti indizi” di commistione mafiosa, finalità precipua dello strumento preventivo è quella di depurare l’inquinamento criminale, avuto riguardo alla diversa intensità che questo può assumere.
Le forme di condizionamento mafioso, oggetto di puntuale neutralizzazione, infatti, non pregiudicano irreparabilmente l’integrità aziendale, nel senso che non presentano elementi di capillarità tali da compromettere l’assetto imprenditoriale.
Si agisce, pertanto, in un frangente temporale idoneo a salvare e ad isolare l’azienda dal contesto criminale.
6.3 Il controllo giudiziario
L’art. 34-bis (inserito dall'art. 11, comma 1, L. 17 ottobre 2017, n. 161) introduce nell’ordinamento il nuovo istituto del controllo giudiziario delle aziende.
Dispone la norma che quando l'agevolazione prevista dall'articolo 34 per l’applicazione dell’amministrazione giudiziaria risulta “occasionale”, il Tribunale dispone, anche d'ufficio, il controllo giudiziario delle attività economiche e delle aziende, se sussistono circostanze di fatto da cui si possa desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionarne l'attività.
Il controllo giudiziario è adottato per un periodo non inferiore a un anno e non superiore a tre anni.
Il provvedimento che lo dispone può:
a) imporre nei confronti di chi ha la proprietà, l'uso o l'amministrazione dei beni e delle aziende di cui al comma 1 l'obbligo di comunicare al Questore e al Nucleo di polizia economica e finanziaria del luogo di dimora abituale, ovvero del luogo in cui si trovano i beni se si tratta di residenti all'estero, ovvero della sede legale se si tratta di un'impresa, gli atti di disposizione, di acquisto o di pagamento effettuati, gli atti di pagamento ricevuti, gli incarichi professionali, di amministrazione o di gestione fiduciaria ricevuti e gli altri atti o contratti indicati dal Tribunale, di valore non inferiore a euro 7.000 o del valore superiore stabilito dal tribunale in relazione al reddito della persona o al patrimonio e al volume d'affari dell'impresa. Tale obbligo deve essere assolto entro dieci giorni dal compimento dell'atto e comunque entro il 31 gennaio di ogni anno per gli atti posti in essere nell'anno precedente;
b) nominare un giudice delegato e un amministratore giudiziario (che ovviamente assume funzioni diverse rispetto a quella dell’articolo 34, pur mantenendo la stessa denominazione), il quale riferisce periodicamente, almeno bi-mestralmente, gli esiti dell'attività di controllo al giudice delegato e al pubblico ministero.
Con riferimento alla lettera b), si fissano i compiti dell'amministratore giudiziario finalizzati alle attività di controllo e può imporre l'obbligo:
a) di non cambiare la sede, la denominazione e la ragione sociale, l'oggetto sociale e la composizione degli organi di amministrazione, direzione e vigilanza e di non compiere fusioni o altre trasformazioni, senza l'autorizzazione da parte del giudice delegato;
b) di adempiere ai doveri informativi di cui alla lettera a) del comma 2 nei confronti dell'amministratore giudiziario;
c) di informare preventivamente l'amministratore giudiziario circa eventuali forme di finanziamento della società da parte dei soci o di terzi;
d) di adottare ed efficacemente attuare misure organizzative, anche ai sensi degli articoli 6, 7 e 24-ter del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e successive modificazioni di cui sopra si è detto;
e) di assumere qualsiasi altra iniziativa finalizzata a prevenire specificamente il rischio di tentativi di infiltrazione o condizionamento mafiosi.
Per verificare il corretto adempimento degli obblighi di cui sopra, il Tribunale può autorizzare gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria ad accedere presso gli uffici dell'impresa nonché presso uffici pubblici, studi professionali, società, banche e intermediari mobiliari al fine di acquisire informazioni e copia della documentazione ritenute utili.
Nel caso in cui venga accertata la violazione di una o più prescrizioni ovvero ricorrano i presupposti, il Tribunale può disporre l'amministrazione giudiziaria dell'impresa in applicazione dell’articolo 34.
Il titolare dell'attività economica sottoposta al controllo giudiziario può proporre istanza di revoca ed in tal caso il Tribunale fissa l'udienza entro dieci giorni dal deposito dell'istanza e provvede nelle forme di cui all'articolo 127 del codice di procedura penale.
Assume particolare importanza ai nostri fini il comma 6, il quale dispone che le imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva ai sensi dell'articolo 84, comma 4, che abbiano proposto l'impugnazione del relativo provvedimento del Prefetto dinanzi al tribunale amministrativo regionale , possono richiedere al Tribunale competente per le misure di prevenzione l'applicazione del controllo giudiziario.
Il Tribunale in questo caso, sentiti il Procuratore distrettuale competente e gli altri soggetti interessati (e tra questi il Prefetto che ha emesso l’interdittiva), nelle forme di cui all'articolo 127 del codice di procedura penale, accoglie la richiesta, ove ne ricorrano i presupposti.
Successivamente, anche sulla base della relazione dell'amministratore giudiziario, può revocare il controllo giudiziario e, ove ne ricorrano i presupposti, disporre altre misure di prevenzione patrimoniali.
Il provvedimento che dispone l'amministrazione giudiziaria prevista dall'articolo 34 o il controllo giudiziario ai sensi del comma 6 dell’art. 34 bis sospende gli effetti dell’informativa anntimafia e conseguentemente quelli di cui all'articolo 94 che si sono sopra illustrati con particolar riguardo alla attività contrattuale in corso con la pubblica amministrazione.
Nel controllo giudiziario, la condotta di agevolazione presenta contorni meno stringenti, in quanto l’art. 34-bis la correla all’elemento dell’occasionalità.
Il contributo illecito, dunque, sarà sanzionabile alla luce della nuova disposizione qualora si mostri soltanto episodico, differenziandosi, in questo modo, da quello stabile e continuativo richiesto dall’art. 34[69].
Attraverso il monitoraggio di quelle imprese in cui si ravvisino contaminazioni, più o meno intense, e che forniscano ausilio alle attività di soggetti nei confronti dei quali siano state proposte o disposte misure preventive (personali e patrimoniali) antimafia o che siano stati sottoposti a procedimenti penali per i più gravi reati di mafia o contro la PA, si realizza una funzione ausiliatrice per mano pubblica per un arco temporale limitato, e ciò a riprova del carattere meramente preventivo e non sanzionatorio dell’intervento statale, diretto a prendere in cura e a far proseguire le attività economiche suscettibili di distorsione.
La peculiarità della scelta seguita dall’ultimo intervento riformatore risiede proprio nell’aver attribuito rinnovata centralità a un aspetto nevralgico dell’azione di contrasto al crimine organizzato: quello, cioè, di promuovere un proficuo recupero e gestione dei patrimoni potenzialmente destinate a finire in mano ai gruppi criminali mafiosi. Arricchire l’impianto codicistico con istituti alternativi agli strumenti propriamente ablatori non solo ha potenziato le vie prevenzionali attivabili per un efficace contrasto antimafia, ma ha anche reso percorribile una strada più garantista rispetto a quella dello spossessamento gestorio, quella cioè che assicura tutela alla continuità aziendale.
L’aspetto più innovativo della disposizione è rappresentato dalla possibilità di attivare la vigilanza prescrittiva su istanza del soggetto interessato.
La possibilità di attivare il controllo statale in un momento in cui i condizionamenti criminali si trovino in uno stadio soltanto embrionale, di agevolazione occasionale, permette di anticipare la soglia di rilevanza penale delle condotte stigmatizzabili e di sussidiare compiutamente l’attività economica delle imprese a rischio[70].
Il comma 2 dell‘articolo 34 bis distingue una duplice facoltà in capo ai soggetti procedenti.
Alla lett. a), precisando quanto già previsto all’art. 34, comma 8, il legislatore ha confermato la facoltà dell’organo giudicante di adottare un provvedimento con cui imporre ai vertici dell’impresa a rischio infiltrazione l’obbligo di comunicare una serie di movimentazioni e atti patrimoniali aziendali.
In applicazione della lett. b), il Tribunale può adottare uno specifico provvedimento diretto a realizzare un vero e proprio “tutoraggio” mirato dell’impresa contaminata. In quest’ultimo caso, qualora cioè il tribunale non si limiti alla prescrizione di obblighi informativi, i soggetti preordinati a bonificare l’azienda per un periodo minimo di un anno e massimo di tre, procederanno a monitorare con relazioni scritte bimestrali l’andamento economico dell’azienda.
Inoltre saranno legittimati a imporre una serie di obblighi, alcuni dei quali piuttosto stringenti, ad esempio quelli di non variare la sede, la denominazione e l’oggetto sociale dell’impresa, né la composizione degli organi di amministrazione e vigilanza, senza l’autorizzazione del tutor e del giudice delegato, o quelli di attuare politiche concrete di contrasto alle infiltrazioni mafiose.
6.4 La prima giurisprudenza applicativa.
Un notevole apporto, ai fini della corretta interpretazione del nuovo istituto del controllo giudiziario, è stato fornito dalla giurisprudenza. Dall’entrata in vigore della l. 161/2017 si sono succedute una serie di pronunce sia della Corte di cassazione penale che di primo grado, su tutto il territorio nazionale, che hanno dato attuazione alla novella legislativa.
Un dato fattuale che funge da comune denominatore delle pronunce è costituito dalla circostanza che in ognuna di queste l’applicazione (o il diniego) della misura preventiva di recente introduzione, ad opera dell’autorità giudiziaria, è conseguita ad un’istanza di parte (art.34 bis c. 6).
Pertanto, è lo stesso ceto imprenditoriale che, ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6, ha avanzato la richiesta di sottoporsi al controllo giudiziario ai sensi del comma 2, lett. b).
Da questo elemento fattuale, si percepiscono gli aspetti positivi delle peculiarità dell’istituto, e nello specifico, la funzione “tutoria” della misura.
L’azienda, al ricorrere delle condizioni indicate come necessarie dal comma di riferimento, ha essa stessa interesse ad essere sottoposta a tutoraggio e ciò, principalmente, allo scopo di preservare e proseguire le proprie attività economiche - evitando l’espunzione dal mercato conseguente a una misura ablatoria - sotto la vigilanza prescrittiva di un commissario giudiziario, «con il compito di monitorare il corretto andamento della gestione societaria, nonché la condizione di legalità in cui la società verserebbe».
Un primo orientamento giurisprudenziale è quelle della Corte di Cassazione (Sez. V, Sent. Penale, 20 luglio 2018, n. 34526.
La Suprema Corte ritiene che il controllo giudiziario è inserito nel novero delle misure di prevenzione patrimoniali diverse dalla confisca e trova la sua ratio, secondo la relazione finale della Commissione Fiandaca, nell'obiettivo di promuovere il recupero delle imprese infiltrate dalle organizzazioni criminali, nell'ottica di bilanciare in maniera più equilibrata gli interessi che si contrappongono in questa materia.
Secondo la Suprema Corte è una misura che deve trovare applicazione, in luogo dell'amministrazione di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 34, nei casi in cui l'agevolazione mafiosa risulti "occasionale".
Ha come presupposto (sebbene non esclusivo) le "informazioni antimafia", disciplinate dal D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 84, che secondo la Corte appartengono al sistema della documentazione antimafia, che, unitamente alle "comunicazioni antimafia", costituiscono le fondamentali misure di prevenzione amministrative previste dal "codice antimafia" nel libro II e confermate, nel loro impianto, anche dalla recente modifica del Codice antimafia, di cui alla L. 17 ottobre 2017, n. 161.
Si condivide da parte della S.C. l’orientamento della Giurisdiziine amministrativa secondo il quale “L'informazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza, o meno, di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all'art. 67, (l'esistenza di un provvedimento di prevenzione definitivo), nonchè nell'attestazione della sussistenza, o meno, di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi della società o delle imprese interessate (D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 84, comma 3).
Sotto il secondo profilo, l'informazione antimafia ha natura discrezionale, laddove incarica il Prefetto di verificare la sussistenza, o meno, di tentativi di infiltrazione mafiosa nell'attività di impresa, desumibili o dai provvedimenti e dagli elementi, tipizzati nel D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 84, comma 4, o dai provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all'attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l'attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose ("contiguità concorrente") o esserne in qualche modo condizionata ("contiguità soggiacente").
L'informativa antimafia preclude qualunque attività nei rapporti d'impresa con la pubblica amministrazione (contratti, concessioni o sovvenzioni pubblici), incidendo anche in quelli tra privati, poichè l'effetto interdittivo si estende alle autorizzazioni, in forza del D.Lgs. n. 153 del 2014.
La attenta e costante elaborazione giurisprudenziale del Consiglio di Stato sul tema ha distillato il seguente principio: "lo Stato non riconosce dignità e statuto di operatori economici, e non più soltanto nei rapporti con la pubblica amministrazione, a soggetti condizionati, controllati, infiltrati ed eterodiretti dalle associazioni mafiose" (Cons. St., sez. 3^, 9 febbraio 2017, n. 565).
Secondo il Consiglio di Stato: "il metodo mafioso è e resta tale, per un essenziale principio di eguaglianza sostanziale prima ancora che di logica giuridica, non solo nelle contrattazioni con la pubblica amministrazione, ma anche tra privati, nello svolgimento della libera iniziativa economica" (Cons. St., sez. 3^, 9 febbraio 2017, n. 565, cit.)”.
Ad avviso della S.C. “Il controllo giudiziario e l'informativa antimafia trovano un punto di contatto nella previsione del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 34 bis, comma 6, a mente del quale le imprese destinatarie di "informazione antimafia interdittiva" ai sensi dell'art. 84, comma 4, che abbiano proposto l'impugnazione del relativo provvedimento prefettizio, possono richiedere al tribunale competente per le misure di prevenzione l'applicazione del controllo giudiziario di cui alla lettera b) del comma 2 del presente articolo, vale a dire la nomina di un giudice delegato e di un amministratore giudiziario.
L'iter procedimentale è disciplinato all'interno del medesimo comma 6: il tribunale, sentiti il procuratore distrettuale competente e gli altri soggetti interessati, nelle forme di cui all'art. 127 c.p.p., accoglie la richiesta, ove ne ricorrano i presupposti.
L'ammissione al controllo giudiziario sospende gli effetti della interdittiva prefettizia.
La stessa lettera della legge consente di superare agevolmente i quesiti giuridici sottoposti a questa Corte sui temi del mezzo di impugnazione e dei presupposti di ammissione al controllo giudiziario......
Il richiamo alle forme del procedimento in camera di consiglio di cui all'art. 127 c.p.p., fornisce l'addentellato normativo per ritenere che avverso l'ordinanza del tribunale, sia essa di accoglimento o di rigetto, i soggetti interessati possono proporre ricorso per cassazione, giusta la previsione del citato art. 127, comma 7.
Si è previsto un modello snello, idoneo a contemperare le esigenze di celerità, proprie di un procedimento a carattere para-incidentale, con la necessità di assicurare il controllo di legittimità, imposto, ex art. 111 Cost., dalla interferenza con diritti soggettivi costituzionalmente garantiti, quale è la libertà d'impresa.
Ne consegue che il provvedimento emesso dal tribunale ai sensi del citato art. 34 bis, comma 6, è impugnabile soltanto mediante ricorso per cassazione. Pertanto la scelta del ricorrente risulta processualmente corretta”.
Quanto ai presupposti la S.C. ritiene che “E' di palmare evidenza che l'ammissione al controllo giudiziario, per un'impresa raggiunta da una "interdittiva prefettizia", non può accettare alcun automatismo.
Depongono in tal senso sia il dato testuale sia quello funzionale.
Sotto il primo profilo va ricordato che l'art. 34 bis, comma 6, richiede al Tribunale di verificare la sussistenza "dei presupposti". Detti presupposti non possono limitarsi a quelli processuali - esistenza di una interdittiva prefettizia e impugnativa dinanzi al giudice amministrativo - altrimenti lo scrutinio sarebbe meramente formale e l'accesso al "controllo giudiziario" si tradurrebbe in un diritto potestativo dell'impresa, ma devono abbracciare necessariamente i caratteri dell'istituto come indicati dal comma 1.
Il controllo giudiziario è ontologicamente connotato dalla natura occasionale del "contagio mafioso".
Se non ricorresse tale condizione non si verterebbe nell'alveo del "controllo giudiziario" ma in altre fattispecie e non avrebbe allora senso l'inserimento del comma 6, nel tessuto normativo dell'art. 34 bis.
In conclusione, l'impresa raggiunta da informazione antimafia interdittiva può avere accesso alla misura del controllo giudiziario, allorchè abbia impugnato il provvedimento prefettizio e ricorra una ipotesi di agevolazione di carattere "occasionale".
Il Tribunale di Reggio Calabria, Sezione Misure di Prevenzione che, nell’accogliere positivamente l’istanza relativa alla misura in esame, ha formulato alcune considerazioni sui presupposti e sull’ambito di influenza dello strumento invocato. In particolare, a seguito di una breve premessa sui caratteri peculiari del monitoraggio giudiziario, si è soffermato su un primo fondamentale nodo da sciogliere, quello relativo, vale a dire, alla permanenza di un margine di discrezionalità, in capo al Tribunale competente una volta che sia stato destinatario di istanza ex art. 34-bis, comma 6.
In altri termini, i giudici si sono interrogati se la richiesta ivi disciplinata possa produrre «un vero e proprio automatismo», nel senso di dover necessariamente applicare l’istituto richiesto dalla parte, oppure se lasci comunque residuare un margine di autonomia decisionale all’interprete.
Il Tribunale ha ritenuto di aderire alla seconda alternativa, e ciò, innanzitutto, sulla base di un dato rintracciabile nello stesso corpo del testo, rilevando che il legislatore del 2017 non si è limitato a prevedere come unico presupposto la previa impugnativa dinanzi al Tribunale amministrativo regionale, ma ha richiesto altresì che «il Tribunale accolga la richiesta solo “ove ne ricorrano i presupposti”».
La necessaria impugnazione del provvedimento prefettizio più che qualificarsi come presupposto, viene qualificato come un requisito di ammissibilità della domanda.
In aggiunta, un secondo dato concorre a respingere l’opzione dell’automatismo applicativo.
E‘ emersa una diversa volontà legislativa che ha escluso qualsiasi automatismo e ha lasciato residuare autonomia di scelta in capo al Tribunale competente per le misure di prevenzione.
Quanto ai confini dell’accertata discrezionalità rimessa all’organo giudiziario, si è ritenuto che il Tribunale per le misure di prevenzione non può sindacare i presupposti che legittimano l’applicazione dell’interdittiva antimafia.
Diversamente opinando si determinerebbe un sindacato da parte del Giudice ordinario sul contenuto e sui presupposti per l‘adozione dell‘interdittiva antimafia il cui sindacato rientra nella giurisdizione del Giudice amministrativo.
La ratio che deve guidare il Tribunale competente per le misure di prevenzione è la ricorrenza dei presupposti applicativi della misura, correlati all‘individuazione dell’interesse pubblicistico a che si realizzino «opere di rilevanza pubblica e al correlativo interesse alla salvaguardia dei posti di lavoro».
Viene operato, pertanto, un bilanciamento di interessi divergenti, e cioè tra il bene giuridico sotteso alla misura non ablatoria come ruolo prevalente rispetto a quello dello strumento interdittivo ex art. 84, comma 4, quale l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché il buon andamento e la trasparenza della p.a. contro i pericoli di infiltrazione mafiosa.
Soltanto qualora si ravvisi tale ampia finalità si potrà “declassare” – tramite la sospensiva che si produce in automatico con il controllo giudiziario – l’interdizione prefettizia, consentendo all’impresa di continuare ad operare sul mercato.
Assume rilievo anche la natura dell’impresa destinataria del provvedimento e, nello specifico, se debba trattarsi di un’azienda con precisi connotati dimensionali o operante in determinati settori.
In assenza del dato normativo specifico si è ritenuto che un’interpretazione ampia ed estensiva dell’espressione «atecnica», utilizzata nel testo della legge, porta a ricomprendere qualsiasi attività economica[71].
Quanto alla giurisprudenza amministrativa va richiamata la pronuncia del Consiglio di Stato (sezione V n. 3268 del 31 maggio 2018) nella quale si affronta la problematica degli effetti sospensivi che determina l‘ammissione di un‘impresa al controllo giudiziario con riguardo all‘interdittiva antimafia.
Si legge “…. il controllo giudiziario che permette la prosecuzione dell'attività imprenditoriale sotto controllo giudiziario non ha effetti retroattivi e … non costituisce un superamento dell'interdittiva, ma in un certo modo ne conferma la sussistenza, con l'adozione di un regime in cui l'iniziativa imprenditoriale può essere ripresa per ragioni di libertà di iniziativa e di garanzia dei posti di lavoro, sempre naturalmente in un regime limitativo di assoggettamento ad un controllo straordinario“.
Con riguardo al rapporto tra controllo giudiziario dell'azienda ex art. 34 bis del codice antimafia e procedure di appalto va segnalata la sentenza del T.A.R. della Calabria sezione staccata di Reggio Calabria 30 ottobre 2018 n. 643.
Ha precisato il T.A.R., richiamando il precedente in termini del Consiglio di Stato, che, data la natura del controllo giudiziario e atteso che da esso discende la mera sospensione degli effetti dell’interdittiva (destinato, in quanto tale, ad operare per i rapporti futuri e non anche per il pregresso), non sarebbe neppure possibile riconoscere a tale misura una efficacia retroattiva, dalla quale discenda l’automatico travolgimento degli atti medio tempore adottati dall’amministrazione (Tar Basilicata 18 luglio 2018, n. 482).
L’esegesi delle disposizioni che disciplinano il controllo giudiziario (e, in particolare, del comma 7 dell’art. 34 bis) appare coerente con la sua ratio.
Il controllo giudiziario è stato definito, invero, “strumento di autodepurazione dalle infiltrazioni criminali” che consente all’impresa ammessa “di continuare ad operare nei rapporti con la pubblica amministrazione” (Circolare del Ministero dell’Interno n. 11001/119/20(8)-A del 22 marzo 2018).
L’esigenza sottesa alla continuità aziendale, tuttavia, deve essere conciliata con l’interesse alla realizzazione dell’opera di pubblica rilevanza.
Ciò impone, pertanto, la necessità di operare un giusto contemperamento degli interessi coinvolti.
Necessità che è tanto più forte ed immanente in una fattispecie, come quella in cui la procedura si era già conclusa con l’individuazione del nuovo aggiudicatario.
In tale situazione, ritiene il TAR, che non vi è spazio per ipotizzare che gli effetti della sospensione di cui all’art. 34 bis, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011, debbano (o possano) retroagire fino a travolgere gli atti legittimamente adottati dall’amministrazione quale automatica e doverosa conseguenza dell’informativa interdittiva intervenuta a carico dell’originaria aggiudicataria.
Un simile effetto, oltre a non risultare coerente con la ratio del nuovo istituto, risulta altresì in contrasto con lo stesso tenore letterale dalla norma che, come già sottolineato, individua un limite temporale (compreso tra uno e tre anni) di durata e collega alla misura la mera sospensione degli effetti dell’interdittiva.
Affronta la problematica dei rapporti tra giudizi amministrativi su provvedimenti interdittivi antimafia e procedimento ex art. 34 bis del codice antimafia la sentenza del Tar Campania Sede di Napoli sezione 1 2 novembre 2018 n. 6423.
Si afferma che il controllo giudiziario non è idoneo a modificare il giudizio in ordine alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione nella società colpita dall’interdittiva; ciò in quanto in primo luogo il controllo giudiziario che permette la prosecuzione dell’attività imprenditoriale sotto controllo giudiziario non ha effetti retroattivi ed in secondo luogo perché non costituisce un superamento dell’interdittiva, ma in un certo modo ne conferma la sussistenza, con l’adozione di un regime in cui l’iniziativa imprenditoriale può essere ripresa per ragioni di libertà di iniziativa e di garanzia dei posti di lavoro, sempre naturalmente in un regime limitativo di assoggettamento ad un controllo straordinario.
Ha chiarito il T.A.R., richiamando il precedente in termini del Consiglio di Stato di cui sopra (sez. V, 31 maggio 2018, n. 3268) che l’art. 34 bis del codice antimafia ammette la procedura in discorso quando i pericoli di infiltrazione comportino solo “in via occasionale l’agevolazione dell’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata” una misura antimafia, ma una tale valutazione non incide sulla sussistenza dei pericoli stessi attenendo unicamente alla possibilità di consentire, pure in via provvisoria, la prosecuzione dell’attività economica.
In altri termini la misura del controllo giudiziario costituisce un tentativo di salvaguardare, con le necessarie cautele, le realtà produttive che, per quanto incise da tentativi di infiltrazione mafiosa, manifestino un grado di autonomia gestionale (dalle consorterie criminali) non ancora totalmente compromesso e, anzi, sufficiente a consentirne un’attività economica corretta pure in forma “controllata”, sforzandosi in tal modo il Legislatore di conservare, per quanto possibile, realtà produttive che, soprattutto nelle zone in cui esistono i fenomeni associativi criminali più eclatanti, possano costituire rimedio all’assenza di credibili opportunità occupazionali.
In tale ottica non può certo opinarsi dall’ammissione alla procedura in discorso un superamento ovvero una qualche forma di attenuazione del giudizio formulato dalla Prefettura con l’informativa.
L’ammissione alla procedura in discorso attesta solo la presenza di un procedimento che gemma da quello che ha condotto all’adozione dell’interdittiva, presupponendolo, e che risponde al fine di verificare se l’impresa che ne è attinta non sia strutturalmente compromessa con la criminalità organizzata e se ne possa, quindi, consentire un regime di “operatività controllata”[72].
In conclusione, mentre non vengono travolti gli effetti dei provvedimenti già adottati in esecuzione dell’interdittiva antimafia e precedenti all’ammissione al controllo giudiziario ne viene preclusa l’adozione successiva.
6.5 Il rapporto tra il controllo giudiziario e l’efficacia dell‘interdittiva antimafia.
Come sopra rilevato assume particolare importanza ai nostri fini il comma 6 dell’articolo 34 bis, il quale dispone che le imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva ai sensi dell'articolo 84, comma 4, che abbiano proposto l'impugnazione del relativo provvedimento del prefetto dinanzi al tribunale amministrativo regionale, possono richiedere al tribunale competente per le misure di prevenzione l'applicazione del controllo giudiziario.
In primo luogo l’impugnazione del provvedimento prefettizio di adozione dell’interdittiva antimafia dinanzi agli organi di giurisdizione amministrativa da parte del soggetto destinatario costituisce un presupposto di ammissibilità della richiesta di ammissione al controllo giudiziario.
Ciò non toglie che il Tribunale per le misure di prevenzione d’ufficio possa in alternativa alla richiesta di applicazione dell’amministrazione giudiziaria disporre il controllo giudiziario con gli stessi effetti di sospensione dell’efficacia dell’interdittiva antimafia.
Un altro problema attiene al rapporto di efficacia tra l’interdittiva antimafia ed il controllo giudiziario, posto che quest’ultimo cessa di determinare effetti di sospensione del primo nel caso in cui il giudizio amministrativo sull’adozione dell’interdittiva antimafia si definisca con sentenza passata in giudicato.
Il legislatore sul punto non ha dato indicazioni specifiche; purtuttavia il riferimento all’impugnazione come presupposto per la richiesta di controllo giudiziario induce a ritenere che si determini una forma di requisito di ammissibilità costituito dalla pendenza del giudizio amministrativo rispetto alla disposizione del controllo giudiziario.
Conseguentemente nel momento in cui il giudizio amministrativo si concluda (o con l’accoglimento del ricorso e quindi con l’annullamento della interdittiva antimafia, ovvero con il rigetto e quindi con la conferma in via definitiva della legittimità della stessa) il controllo giudiziario non determina più la sospensione dell’efficacia dell’interdittiva antimafia. Quest’ultima infatti qualora annullata dal giudice amministrativo non spiega più effetti.
Qualora, invece, l’interdittiva fosse ritenuta legittima con il rigetto dericorso continuerebbe a spiegare gli affetti nei termini previsti dall’articolo 94 del codice antimafia.
Si determinerebbe, infatti, un effetto di non pendenza del giudizio introdotto con la impugnazione[73].
Va altresì considerato che la sottoposizione ad Amministrazione o a controllo giudiziario possono determinare una condizione di sopravvenienza di situazioni fattuali idonee a rivalutare da parte del Prefetto dei presupposti per valutare la adozione di una informativa positiva che possa far venire meno gli effetti della interdittive ai sensi dell’art. 94 del Codice antimafia.
Come sopra rilevato la sopravvenienza di fatti favorevoli all’imprenditore impone all’Amministrazione di verificare nuovamente se persistano ragioni di sicurezza e di ordine pubblico tali da prevalere sull’iniziativa e sulla libertà di impresa del soggetto inciso.
L’attualità degli elementi indizianti, da cui trarre la sussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa, permane tuttavia inalterata fino al sopraggiungere di fatti nuovi ed ulteriori rispetto ad una precedente valutazione di presenza di tentativi siffatti, che evidenzino il venir meno della situazione di pericolo.
Il superamento del rischio di inquinamento mafioso è da ricondursi non tanto al trascorrere del tempo dall’ultima verifica effettuata senza che sia emersa alcuna evenienza negativa, bensì «al sopraggiungere di fatti positivi che persuasivamente e fattivamente introducano elementi di inattendibilità della situazione rilevata in precedenza» (così la sentenza Cons. St., sez. III, 22 gennaio 2014, n. 292).
L’effetto sospensivo della interdittiva antiumafia in conseguenza della ammissione al controllo giudiziario cessa anche al venir meno della misura di prevenzione o per consumazione del termine di durata ovvero per la revoca da parte del Tribunale per le misure di prevenzione non seguita dalla applicazion della misura della amministrazione giudiziaria.
Capitolo 7
La compatibilità del sistema con i principi costituzionali e dei trattatti che tutelano i diritti fondamentali
7.1 La compatibilità con i principi costituzionali e con la disciplina dei trattati internazionali che tutelano i diritti fondamentali
L’interpretazione rigorosa e chiarificatrice della giurisprudenza del Consiglio di Stato, nello sforzo di evidenziare la natura preventiva e di “codificarne”, a livello pretorio delle interdittive antimafia, ha delineato i presupposti fattuali idonei a renderne prevedibile e compatibile con il dettato costituzionale la portata precettiva.
In tal modo il sistema delle misure amministrative antimafia dovrebbe ritenersi al riparo dalle censure che, pur di recente, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha mosso al sistema delle misure di prevenzione personali, nella sentenza De Tommaso c. Italia[74], per la insufficiente determinazione della fattispecie legale tipica che giustifica l’emissione di tali misure[75].
L’irrinunciabilità di questo strumento preventivo di contrasto alla mafia, nel nostro ordinamento e in un contesto eurounitario, è ben avvertita dal nostro legislatore ed è stata ribadita anche dalla recente l. n. 161 del 17 ottobre 2017, entrata in vigore il 19 novembre 2017, laddove ha previsto, all’art. 25 (che modifica l’art. 83 del d. lgs. n. 159 del 2011), come obbligatorie le informazioni antimafia nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli e zootecnici demaniali che ricadono nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei, ed ha altresì chiarito, riformulando l’art. 83, comma 3, lett. e), del d. lgs. n. 159 del 2011, che le informazioni sono obbligatorie per le sovvenzioni sempre e comunque, anche quando queste siano inferiori ad € 150.000,00[76].
L’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale e il contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso, richiedono alla Prefettura un’attenta valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro indiziario chiaro, attuale e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa[77], e a sua volta impongono al Giudice amministrativo un altrettanto approfondito esame di tali elementi, singolarmente e nella loro intima connessione, per assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del Prefetto nell’esercizio di tale ampia, ma non indeterminata, discrezionalità amministrativa che non di rado, come è stato efficacemente ricordato, per gli operatori economici determina un “ergastolo imprenditoriale”[78].
.
7.2 La giurisprudenza CEDU attinente.
Nella sentenza del Consiglio di Stato sezione III n. 5784 del 2018 si affronta la questione della compatibilità del sistema normativo che disciplina le interdittive antimafia con le norme a tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che debbono essere "concreti ed effettivi" (v. ex pluribus, CEDU, Artico c./ Italia, 13 maggio 1980, paragrafo 33).
Da ciò discende che la presunzione di innocenza può essere infranta non solo da un giudice o da un Tribunale, ma anche da altre autorità pubbliche, quali ufficiali di polizia o rappresentanti dell'esecutivo (v. CEDU, Allenet de Ribemont c./ Francia, 10 febbraio 1995, paragrafi 35 e 36).
Questo principio vale perfino per i pubblici ministeri, soprattutto quando questi ultimi esercitino funzioni quasi giurisdizionali, nella fase delle indagini preliminari, ovvero svolgano controlli assoluti in materia procedurale (v. CEDU, Samoila e Cionca c./ Romania, 4 marzo 2008, paragrafo 92; Daktaras c./ Lituania, 10 ottobre 2000, paragrafo 42).
Il Consiglio di Stato per quanto concerne la pretesa violazione del divieto di discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848), e del divieto dell’abuso di diritto di cui agli artt. 17 e 18 della predetta CEDU, nonché eccesso di potere per difetto di proporzionalità, ha ritenuto che il comma 2 dell’art. 1” Protezione della proprietà” espressamente prevede che: “Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.”
In tale ottica va inquadrato proprio l’invocato art. 18, per cui "Le restrizioni che, in base alla presente convenzione, sono posti a detti diritti e libertà possono essere applicate solo allo scopo per cui sono state previste".
È dunque fatta salva la possibilità degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso di di beni in modo conforme all’interesse generale
In sostanza, la legge nazionale può porre restrizioni ai predetti diritti per scopi comunque determinati, leciti e di interesse pubblico generale.
In tale scia ricostruttiva, a conferma delle predette conclusioni, si deve ancora ricordare che, sia pure in un differente ambito oggettivo, l’art.2, commi 3 e 4 del Protocollo n.4 estrinsecano il principio di non discriminazione specificando che: “3. L’esercizio di tali diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e che costituiscono, in una società democratica, misure necessarie alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui.
4. I diritti riconosciuti al paragrafo 1 possono anche, in alcune zone determinate, essere oggetto di restrizioni previste dalla legge e giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica”.
La normativa dell’antimafia è, infatti, espressione della potestà di cui all’art.117 lett.” h) ordine pubblico e sicurezza ed “e) …tutela della concorrenza…” in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale 1 alla CEDU, sul presupposto che la formula elastica adottata dal legislatore per la disciplina delle interdittive antimafia – che consente di procedere in tal senso anche solo su base indiziaria – deve ritenersi quale corretto bilanciamento dei valori coinvolti.
Se da una parte, infatti, è opportuno fornire adeguata tutela alla libertà di esercizio dell’attività imprenditoriale, dall’altra non può che considerarsi preminente l’esigenza di salvaguardare l’interesse pubblico al presidio del sistema socio-economico da qualsivoglia inquinamento mafioso.
L’esigenza di tutela della libertà di tutti i cittadini e di salvaguardia della convivenza democratica sono finalità perfettamente coincidenti con i principi della CEDU, ed anche la formula “elastica” adottata dal legislatore nel disciplinare l’informativa interdittiva antimafia su base indiziaria ha il suo fondamento nella ragionevole esigenza del bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost. e l’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ordine pubblico e alla prevenzione dei fenomeni mafiosi che, del resto, mediante l’infiltazione nel tessuto economico e nei mercati, compromettono anche – oltre alla sicurezza pubblica – il valore costituzionale di libertà economica, indissolubilmente legato alla trasparenza e alla corretta competizione nelle attività con cui detta libertà si manifesta in concreto nei rapporti tra soggetti dell’ordinamento.
Per quanto poi concerne la "presunzione di non colpevolezza", si deve ricordare come il giudizio, fondato secondo il criterio del "più probabile che non", costituisce un regola che si palesa "consentanea alla garanzia fondamentale della presunzione di non colpevolezza", di cui all’art. 27 Cost. , comma 2, cui è ispirato anche il p. 2 del citato art. 6 CEDU", in quanto "non attiene ad ipotesi di affermazione di responsabilità penale" (cfr. Cass., Sez. I, 30 settembre 2016, n. 19430).
Da molto tempo, infatti, le consorterie di tipo mafioso hanno esportato fuori dai tradizionali territori di origine l’uso intimidatorio della violenza, ed hanno creato vere e proprie holding.
Si tratta di quelle aree opache nelle quali notoriamente i proventi di attività illecite vengono reinvestiti in imprese formalmente estranee (perché intestate a prestanome “puliti”) e dispersi in una miriade di società collegate da vincoli di vario tipo con l’organizzazione criminale.
Il legislatore, allontanandosi dal modello della repressione penale, ha conseguentemente impostato l'interdittiva antimafia come strumento di interdizione e di controllo sociale, al fine di contrastare le forme più subdole di aggressione all'ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica Amministrazione.
Il carattere preventivo del provvedimento, prescinde quindi dall'accertamento di singole responsabilità penali, essendo il potere esercitato dal Prefetto espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata (cfr. Cfr. Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2015 n. 455 Consiglio di Stato sez. III 23 febbraio 2015 n. 898)[79].
7.3 Quadro riassuntivo
Riassumendo nei termini essenziali i principi in tema di normativa inerente alle varie documentazioni antimafia e alle misure di prevenzione amministrative, quale “vive” nell’applicazione quotidiana che di essa fa la giurisprudenza amministrativa e particolarmente, nella sua opera di nomofilassi il Consiglio di Stato, si possono qui richiamare le seguenti direttrici ermeneutiche.
È stata riconosciuta la natura formalmente e sostanzialmente preventiva di tali misure, finalizzata nell’architettura del Codice antimafia ad arginare la minaccia dell’infiltrazione mafiosa, e la loro peculiare struttura, parzialmente derogatoria rispetto alle regole generali del procedimento amministrativo, con l’attenuazione delle garanzie previste dalla l. n. 241 del 1990 in ragione delle imperative e preminenti esigenze di ordine pubblico sottese alle misure antimafia, e anche rispetto ad alcuni principî processuali in tema di giurisdizione, competenza territoriale e rito applicabile.
Altro principio riconosciuta è l’estraneità delle misure amministrative antimafia (siano esse comunicazioni ed informazioni) a logiche repressive, di stampo penale, “parapenale” o “panpenale”, di cui esse non sono appendice in un rapporto di ancillarità rispetto alle vicende e agli esiti del giudizio penale, e il loro autonomo fondarsi, quanto alle informazioni antimafia, sull’apprezzamento discrezionale, da parte dell’autorità prefettizia, di un complessivo quadro indiziario che, alla stregua della logica del “più probabile che non”, lasci ritenere concreto, e attuale, il pericolo di infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, apprezzamento discrezionale soggetto ad un attento sindacato del giudice amministrativo.
È ormai pacifica l’applicazione delle informazioni antimafia anche alle attività economiche tra privati e non solo ai rapporti, contrattuali o concessori, con le pubbliche amministrazioni, per la necessità, riconosciuta dall’art. 89-bis del d. lgs. n. 159 del 2011, di preservare il sistema dell’economia legale, pubblica e privata, da infiltrazioni mafiose, laddove elementi di infiltrazione emergano dalla “mappatura” a tutto tondo dell’impresa, ora resa possibile dalla Banca dati nazionale unica (art. 98, comma 1, del d. lgs. n. 159 del 2011).
Si è riconosciuta l’efficacia comunque limitata delle singole misure preventive antimafia, quanto al tempo e ai destinatari (le amministrazioni richiedenti), e il loro costante aggiornamento nel tempo (art. 91, comma 5, del d. lgs. n. 159 del 2011) su richiesta del privato stesso, per consentire la rimozione di quelle situazioni “indizianti”, che hanno condotto ad un provvedimento interdittivo, e la riacquisizione di una piena capacità o, se si preferisce, onorabilità dell’impresa colpita da precedente comunicazione o informazione antimafia mediante l’adozione di una successiva comunicazione o informazione liberatoria.
Va dato atto della tendenza legislativa a privilegiare strumenti generalizzati di “accreditamento” preventivo, come le white list, accanto ai tradizionali fenomeni pattizi e “spontaneistici” come i Protocolli di legalità (di cui pure è riconosciuta l’efficacia dall’art. 1, comma 17, della l. n. 190 del 2012), e ad introdurre strumenti di conservazione successiva del rapporto contrattuale interdetto e/o gravemente compromesso dall’infiltrazione mafiosa, come nel caso della misura straordinaria della temporanea gestione dell’impresa, prevista dall’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, anche per l’ipotesi di informazione antimafia già emessa.
In ultimo va rilevata la sempre maggiore connessione tra interdittive e sistema di misure di prevenzione con la introduzione dell’istituto del controllo giudiziario mediante l’art. 34 bis del codice antimafia.
Vincenzo Salamone
Presidente del Tribunale amministrativo regionale della Calabria
Pubblicato 27 marzo 2019
[1] V., sul punto, NOCCELLI, I più recenti orientamenti giurisprudenziali sulla legislazione antimafia in www.giustizia-amministrativa .it, Le misure amministrative antimafia a cura di A. FONTANA e D. TESTINI, Atena Alta formazione, S. Gambacurta, La documentazione antimafia: tipologia e contenuto, in A. Cisterna, M.V. De Simone, B. Frattasi e S. Gambacurta, Codice antimafia, San Marino, 2013, 169 e ss.; R. Cantone, La riforma della documentazione antimafia: davvero solo un restyling?, in Giorn. dir. amm., 2013, 8-9, pp. 888-111, nonché l’ampio contributo di M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, in Giustamm, 2016, 3, 2-3. Di rilievo anche i contributi sull’argomento di G. Armao, Brevi considerazioni su informativa antimafia e rating di legalità ed aziendale nella prevenzione delle infiltrazioni criminali nei contratti pubblici, in Giustamm, 2017, 3, 3-5, e di F. G. Scoca, Razionalità e costituzionalità della documentazione antimafia in materia di appalti pubblici, in Giustamm, 2013, 6, 13-14, che esprime forti riserve sulla razionalità della legislazione antimafia vigente e sulle situazioni giuridiche soggettive – non solo la libertà imprenditoriale, ma anche l’onorabilità delle persone – da essa incise. Il sistema delle misure antimafia in esame ha sempre superato, nelle rare occasioni in cui è venuto all’attenzione della Consulta, il vaglio di costituzionalità. Sul sistema delle misure, prima della legge delega, v. ad esempio Corte cost., 24 febbraio 2010, n. 58. Sulla recentissima sentenza n. 4 del 18 gennaio 2018, che ha fornito fondamentali indicazioni sistematiche nella interpretazione di questa delicata materia. Per un quadro dell’istituto prima del Codice antimafia v. R. Papalia, Notazioni in tema di efficacia interdittiva delle informative antimafia, in Foro amm., C.d.S., 2011, 321 e ss.
[2] Dell'anno 1965 è la prima fonte normativa diretta ad arginare questo fenomeno. Con la l. 31 maggio 1965, n. 575 (art. 10) fu prevista la decadenza di diritto da licenze, concessioni ed iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche per quei soggetti che erano stati destinatari, in via definitiva, di una misura di prevenzione di cui alla l. 27 dicembre 1956, n. 1423. Le misure di prevenzione previste nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità da quest'ultima legge, furono estese dalla l. n. 575 del 1965 anche agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. La normativa appena citata, tuttavia, non aveva grande efficacia atteso che la sola decadenza dalle licenze già conseguite non impediva alla criminalità organizzata di continuare ad acquisirne di nuove, sia perché il divieto di rilascio non era espressamente contemplato, sia perché le pubbliche amministrazioni preposte al rilascio non avevano strumenti a disposizione per conoscere l'esistenza di eventuali cause ostative. Con l'art. 19 l. 13 settembre 1982, n. 646 si introdusse, mediante la sostituzione dell'art. 10 l. n. 575 del 1965, anche il divieto di disporre il rilascio di licenze o concessioni alle persone alle quali era stata applicata una misura di prevenzione in via definitiva e la loro revoca di diritto in caso di violazione del divieto di rilascio. La prima disciplina procedimentale in materia di certificazione antimafia fu prevista subito dopo dalla l. 23 dicembre 1982, n. 936 la quale, modificando l'art. 10 l. n. 575 del 1965, stabilì che ai fini dei procedimenti amministrativi concernenti le licenze, concessioni ed iscrizioni predette, la certificazione di volta in volta occorrente (circa la sussistenza o meno a carico dell'interessato di procedimenti o di provvedimenti per l'applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all'art. 3 l. n. 1423 del 1956) fosse rilasciata, su richiesta dell'amministrazione o dell'ente pubblico competente, dalla prefettura nella cui circoscrizione gli atti venivano perfezionati. Un salto di qualità nella legislazione si ebbe con la l. 19 marzo 1990, n. 55 che separò la disciplina sostanziale da quella procedimentale-amministrativa finalizzata al rilascio della certificazione antimafia. In particolare, la prima veniva regolamentata dall'art. 10 l. n. 575 del 1965, nuovamente sostituito, prevedendosi, in caso di applicazione di una misura di prevenzione con provvedimento definitivo: a) il divieto di ottenere licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni negli albi di appaltatori o fornitori di opere, abilitazioni, nonché contributi, finanziamenti ed altre erogazioni dello stesso tipo concessi o erogati da parte dello Stato o delle Comunità europee per lo svolgimento di attività imprenditoriali (art. 10 comma 1); b) la decadenza di diritto dalle licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, abilitazioni ed erogazioni di cui al comma 1, nonché il divieto di concludere contratti di appalto e di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la p.a. (art. 10 comma 2). La disciplina procedimentale era, invece, contenuta nel successivo art. 10-sexies, appositamente introdotto dalla l. n. 55 del 1990. Il riordino dei procedimenti in materia di certificazioni antimafia si realizzò con la legge-delega 17 gennaio 1994, n. 47. La novità di rilievo fu la previsione della cosiddetta informativa prefettizia, da acquisirsi da parte degli enti e delle amministrazioni pubbliche, circa l'insussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate (art. 1 comma 1, lett. d). La delega fu attuata con il d.lg. 8 agosto 1994, n. 490, la cui entrata in vigore, come previsto dall'art. 3 l. n. 47 del 1994, ha comportato l'abrogazione dell'art. 10-sexies l. n. 575 del 1965. Il decreto ha poi introdotto la citata informativa prefettizia, relativa ad «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate» emersi a seguito di apposite verifiche disposte dal prefetto (art. 4 comma 4 d.lg. n. 490 del 1994). Ulteriore intervento normativo in tema di certificazione antimafia (intesa in senso ampio) è rappresentato dal d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, il regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia. Esso indica, in primo luogo, i soggetti tenuti ad acquisire la documentazione antimafia (o soggetti attivi, i casi di esclusione, la sua validità temporale e i soggetti interessati (o soggetti passivi) qualora l'attività imprenditoriale sia svolta in forma societaria. Il regolamento suddivide poi la documentazione antimafia in due categorie: 1) le comunicazioni e le certificazioni, che attestano la sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'art. 10 l. n. 575 del 1965; 2) le informazioni, che invece si riferiscono a verifiche, disposte dal prefetto, dalle quali possono emergere elementi relativi ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate. Maggiori difficoltà presenta, invece, la cosiddetta informativa prefettizia prevista dall'art. 10 d.P.R. n. 252 del 1998 (e dall'art. 4 comma 4 d.lg. n. 490 del 1994), diretta ad accertare, a seguito di verifiche disposte dal prefetto, la sussistenza o meno di elementi dai quali emergano tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate. Tali elementi, infatti, non necessariamente consistono in provvedimenti giurisdizionali irrogativi di pene o di misure di sicurezza, in quanto occorre verificare possibili influenze di natura criminale sulle imprese che possono desumersi anche in mancanza di provvedimenti giurisdizionali. Poiché l'informativa, come vedremo, si applica agli appalti di grandi dimensioni (oltre il valore della soglia comunitaria), il legislatore ha ritenuto di non potersi accontentare dell'assenza di una misura di prevenzione, richiedendosi in tali casi delle verifiche più approfondite che possono evidenziare un pericolo di infiltrazione mafiosa nell'impresa interessata, pur in mancanza dell'adozione di un formale provvedimento applicativo di una misura preventiva.
[3] Si tratta di una giurisprudenza ormai consolidata del Consiglio di Stato. V., tra le altre, Cons. St., sez. III, 2 marzo 2017, n. 892, la quale ha rimarcato che il provvedimento prefettizio deve fondarsi su di un autonomo apprezzamento degli elementi delle indagini svolte, o dei provvedimenti emessi in sede penale: «il Prefetto, in altri termini, deve necessariamente tenere in conto l’emissione o, comunque, il sopravvenire di un provvedimento giurisdizionale, nel suo valore estrinseco, tipizzato dal legislatore, di fatto sintomatico dell’infiltrazione mafiosa a fronte di uno dei delitti-spia previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a), del codice delle leggi antimafia, ma deve nel contempo effettuarne un autonomo apprezzamento, nel suo contenuto intrinseco, delle risultanze penali, senza istituire un automatismo tra l’emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l’emissione dell’informativa ad effetto interdittivo».
[4] Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565, cit., 228-229.
[5] Cons. St., sez. III, 13 maggio 2015, n. 2410. Più dubbioso, al riguardo, R. Cantone, La riforma della documentazione antimafia, cit., 899, il quale osserva che la mantenuta vigenza dell’art. 1-septies del d.l. n. 629 del 1982, da cui erano previste le informative “atipiche” poi ratificate dal d.P.R. n. 252 del 1998, lascerebbe risorgere le informative atipiche, pure espunte dal nuovo Codice antimafia, al pari di una novella “araba fenice” anche nell’attuale sistema della documentazione antimafia. Sulla spinosa questione, tuttora aperta e dibattuta, v. anche B. Macrillò, La sopravvivenza delle informativa atipica dopo il «correttivo» del Codice antimafia, in Giustamm, 2014, 1.
[6] Cons. St., sez. III, 1° aprile 2016, n. 1234, il quale ribadisce la «distinzione, ben netta ed ancorata a tassativi presupposti, tra informazione antimafia e comunicazione antimafia, vincolata, quest’ultima, alla definitività della misura di prevenzione».
[7] Cons. Stato, sez. I, parere 17 novembre 2015, n. 497 (in Foro it., 2016, III, 210, con nota di D’ANGELO cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza) che ha definito la differenza fra comunicazione antimafia, informativa antimafia ed effetti interdittivi.In dottrina, per una accurata ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali in tema, si segnala, NOCCELLI, "I più recenti orientamenti della giurisprudenza sulla legislazione antimafia" in www.giustizia-amministrativa.it (sezione Ufficio Studi - Rassegne di giurisprudenza).
[8] V. la pronuncia di Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565, cit., il quale ricorda che «la c.d. legge anticorruzione (l. n. 190 del 2012), nell’art. 1, commi 52 e 53, ha istituito la c.d. white list, con la creazione di appositi elenchi, presso le Prefetture, dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa per attività economiche particolarmente sensibili» e ha citato, quale recente esempio, quanto previsto per il terremoto che ha colpito le province di Bologna, Modena, Ferrara, Mantova, Reggio Emilia e Rovigo il 20 e il 29 maggio 2012, dall’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 74 del 2012, inserito in sede di conversione dalla l. n. 122 del 1° agosto 2012, laddove esso ha disposto che i controlli antimafia, relativi alle imprese iscritte in tali elenchi, si estendessero «sugli interventi di ricostruzione affidati da soggetti privati e finanziati con le erogazioni e le concessioni di provvidenze pubbliche», sicché, ha ribadito il Consiglio di Stato, la distinzione tra economia pubblica ed economia privata, in taluni settori – l’edilizia, lo smaltimento dei rifiuti, il traporto dei materiali in discarica, i noli a freddo, gli autotrasporti per conto terzi, la fornitura di ferro lavorato, il trasporto terra, etc. – è «del tutto inidonea e inefficace a descrivere, e a circoscrivere, la vastità e la pervasività del pericolo mafioso in esame».
[9] Nella Gazzetta Ufficiale n. 99 del 29 aprile 2013 è stato pubblicato un comunicato del Ministero dell’Interno con cui si sono definiti i rapporti tra informativa prefettizia antimafia e domanda di iscrizione nella white list (art. 5bis del DL n. 74/2012 come modificato dal DL n. 174/2012).
[10] Il diniego di iscrizione nella white list, basato sull’informazione interdittiva antimafia a carico dell’impresa, assume carattere del tutto vincolato, sicché, ai sensi dell’art. 21 octies della Legge n. 241 del 1990, al giudice è attribuito il potere di non procedere all’annullamento del provvedimento di diniego, seppur adottato in violazione di norme sul procedimento (Tar Piemonte, Torino, sez. I, 28aprile 2016 n. 574). Anche nella sentenza del Consiglio di Stato, sezione VI 26 settembre 2018, n. 5547 silegge “Ritiene, tuttavia, il Collegio, in considerazione della pacifica giurisprudenza in materia, che il diniego di iscrizione nella White list, basato sull’informazione interdittiva antimafia a carico della Società, assume carattere del tutto vincolato, sicché, ai sensi dell’art. 21 octies della l. n. 241/1990, al giudice è attribuito il potere di non procedere all’annullamento del provvedimento negativo, seppur adottato in violazione di norme sul procedimento”.
[11] Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565, cit., 227.
[12] Così R. Cantone, La riforma della documentazione amministrativa, il quale evidenzia che la Banca dati dovrebbe consentire in tempi rapidi il rilascio della certificazione antimafia, ma v., sul punto, anche N. Gullo, Il regolamento per il funzionamento della Banca dati nazionale unica della documentazione amministrativa, in Giorn. dir. amm., 2015, 4, 476, il quale lo definisce «lo strumento fondamentale per la semplificazione delle procedure di rilascio della documentazione antimafia».
[13] A tale conclusione non può peraltro opporsi il principio giurisprudenziale della “scindibilità degli effetti”, affermato ai fini della competenza processuale, che attribuisce la competenza al Tribunale amministrativo regionale locale in relazione all’impugnativa di atto plurimo emesso da organo centrale dello Stato, anche se ricomprenda più atti destinati ad operare nel territorio di più Regioni, qualora sia proposta per gli effetti disposti in una sola regione (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 27 dicembre 2004, n. 8213, Id., 11 marzo 1997, n. 249; Id., 20 dicembre 1996, n. 1319; Id.,10 luglio 1996, n. 851)Tale indirizzo, infatti, ha riguardo ad atti plurimi con effetti scindibili (ad. es un bando di concorso con cui sono stati banditi distinti concorsi locali, Cons. St., sez. IV, 27 dicembre 2004, n. 8213) e non è questo il caso dell’informativa prefettizia ora disciplinata dal D.lgs n. 159/2011, i cui effetti, non sono tra loro scindibili ma hanno un’efficacia su tutto il territorio nazionale come ha riconosciuto il Consiglio di Stato . Adunanza plenaria ord. 31 luglio 2014 n. 17.
[14] V., su questa peculiare figura, M. Frontoni, Contratto e antimafia. Il percorso dai “Patti di legalità” al rating di legalità, Torino, 2015, p. 9 e ss., F. Di Cristina, Informative antimafia e protocolli di legalità: i rischi di ossificazione del sistema, in F. Manganaro, A. Romano Tassone e F. Saitta (a cura di), Diritto amministrativo e criminalità, Milano, 2013, 131 e ss. nonché gli Autori citati nelle note successive.
[15] F. Saitta, Informativa antimafia e protocolli di legalità, tra vecchio e nuovo, in Riv. trim. app., 2014, 2, 425.
[16] Corte di Giustizia UE, Sezione X, 22 ottobre 2015, causa C-425/14, in Giur. it., 2016, 6, 1459, con nota di C. Cravero, Protocolli di legalità o Patti di integrità: la compatibilità con il diritto UE della sanzione di esclusione automatica dell’operatore economico inadempiente, nonché in Giorn. dir. amm., 2016, 3, 318 e ss., con nota di S. Vinti, I protocolli di legalità e il diritto europeo.
[17] Cons. St., sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 143, in Giorn. dir. amm., 2016, 1, 78 e ss., con nota di B. Barmann, Lotta alla corruzione e completamento di opere pubbliche. Quale priorità?
[18] In giurisprudenza, sui protocolli di legalità si vedano, tra le altre: Cons. Stato, sez. V, 5 febbraio 2018, n. 722, in www.lamministrativista.it, 6 febbraio 2018; Corte Giust. UE, sez. X, 22 ottobre 2015, in causa C-425/14, in Giur. it., 2016, 1459, con nota di CRAVERO, in Giornale dir. Quot. giur., 2015, con nota di UBALDI; Cons. Stato, sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 143, amm., 2016, 3, con nota di VINTI; Cons. Stato, sez. V, 31 agosto 2015, n. 4042, in PINCINI, in Riv. trim. appalti, 2015, 299, con nota di BARBIERI, in Foro amm., 2015, 7, 82, con nota di MASARACCHIA, in Giornale dir. amm., 2016, 78, con nota in Foro it., 2015, III, 65 con nota di TRAVI, in Riv. neldiritto, 2015, 837, con nota di BARMANN; T.a.r. per la Lombardia - Milano, sez. III, 9 dicembre 2014, n. 2992, in Quot. giur., 2015, con nota di CASSANO; Cons. giust. amm. reg. sic., sez. giurisdiz., 12 settembre 2014, n. 534, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2015, 235, con nota di SAITTA; Cons. giust. amm. reg. sic., sez. giurisdiz., 2 settembre 2014, n. 490, in Foro amm., 2014, 2340; T.a.r. per la Lombardia - Milano, sez. I, 9 luglio 2014, n. 1802, in Foro it., 2014, III, 618; Cons. Stato, sez. V, 9 settembre 2011, n. 5066, in Foro amm. – Cons. Stato, 2011, 2782;
[19] Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743, in Foro amm., 2016, 5, 1163. Circa la necessità di una rigorosa tipizzazione dei presupposti che fondano l’emissione dell’informazione antimafia, seppure con diversa sfumatura, v. Cons. Giust. Amm. Sic., 29 luglio 2016, n. 247 e 28 agosto 2017, n. 379.
[20] Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743.
[21] Cons. St., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 4657, secondo cui tale il criterio della certezza oltre ogni ragionevole dubbio può trovare spazio nel giudizio penale, laddove viene in gioco la liberà personale dell’imputato, ma non nel giudizio amministrativo, che investa la legittimità del provvedimento interdittivo antimafia, ispirato ad una ben diversa logica preventiva e improntato alla regola, di stampo civilistico, del “più probabile che non” nonché, su tale ultimo criterio come applicato dalla giurisprudenza della Cassazione, Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2011, n. 15709, in Giust. civ., Mass., 2011, 9, 1209, laddove si evidenzia, in generale, «la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”». Sul significato di questa regola, quanto al grado di incisività probatoria rispetto alla regola dell’oltre il ragionevole dubbio, v. in particolare anche Cons. St., sez. III, 26 aprile 2017, n. 1923, e Cons. St., sez. III, 28 giugno 2017, n. 3173.
[22] Per la prova civile vale il parametro "del più probabile che non", ossia della "preponderanza dell'evidenza", per quella penale occorre rispettare il rigoroso paradigma della certezza processuale, alias dell'"oltre ogni ragionevole dubbio": "in poche parole, ciò significa che per condannare un imputato, in un processo penale, occorre una prova molto più stringente di quella che sarebbe invece sufficiente per la condanna del convenuto al pagamento di una somma di denaro in una causa civile" come scrive Alan DERSHOWITZ in Dubbi ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J. Simpson, Giuffrè Editore, Milano 2007, p. 31.
[23] IADECOLA, La spiegazione causale "più probabile che non" nelle pronunce della Cassazione: una possibile svolta verso (auspicate) posizioni di maggior equilibrio nella responsabilità civile del medico in Riv. it. medicina legale (dal 2012 Riv. it. medicina legale e dir. sanitario), fasc.6, 2010, pag. 849 sostiene “Verificata, quindi, la divergenza, indiscutibile e ragionevole, del regime della prova nei due diversi "siti" processuali, il punto sul quale si dovrebbe convenire − e su cui si vuole in queste note richiamare la riflessione, con particolare riferimento all'accertamento del nesso causale nei processi per responsabilità civile del medico − è che il livello probatorio "minore", che si addice al processo civile, non potrebbe però essere inteso come "bastevolezza di una prova qualsiasi", quand'anche meramente indicativa di una giustificazione possibile, o appena sensata, ma debba viceversa comunque postulare un risultato dimostrativo che, pur non attingendo le certezze necessarie per la condanna penale, esprima una spiegazione adeguatamente persuasiva, ossia attendibile, del fatto ritenuto in sentenza. Una tale conclusione sembra giustificata, non tanto da generiche − quasi estetizzanti − esigenze di armonia tra i due ordinamenti, ma piuttosto dai già richiamati nessi di collegamento tuttora operativi tra di essi (a segnalare un disegno legislativo non orientato in termini di una assoluta, reciproca, autonomia), i quali dovrebbero, ragionevolmente, operare nel senso, per lo meno tendenziale, di favorire determinazioni finali tra loro non eccessivamente distanti e squilibrate. Il terreno di elezione della questione appare essere, con ogni fondatezza, quello della causalità, della presenza della quale è scontata la rilevanza centrale nell'accertamento dell'illecito (di cui essa è sintomaticamente − e comunemente − qualificata elemento "strutturale"), essendone parimenti nota la non pervietà del percorso di riscontro, specie allorché la condotta dell'agente assuma le forme della omissione. Verosimilmente, la delicatezza della materia spiega perché proprio in tema di accertamento del nesso causale nella giurisprudenza civile della Suprema Corte (ove in precedenza risultava, per il vero, già enunciata in Cass., Sez. III civ., sent. n. 21619/2007), sia stata per la prima volta evidenziata, in termini argomentati, la sottolineata dicotomia delle regole probatorie nelle due sedi processuali, siccome è avvenuto con le decisioni delle Sezioni Unite civili dell'11 gennaio 2008 (cfr. sentt. n. 576 e n. 581, già citate)”.
[24] Sulla teoria del c.d. contagio v., in particolare, Cons. St., sez. III, 22 giugno 2016, n. 2274.
[25] V. sul punto, e in particolare, Cons. St., sez. III, 2 marzo 2017, n. 981, già citata, avente ad oggetto la legittimità di informazioni antimafia emessa dalla Prefettura di Roma contro società che nella Capitale gestivano lo smaltimento dei rifiuti, che, pur ribadendo come il Prefetto, nel tenere necessariamente in conto l’emissione o, comunque, il sopravvenire di un provvedimento giurisdizionale, nel suo valore estrinseco, tipizzato dal legislatore, di fatto sintomatico dell’infiltrazione mafiosa a fronte di uno dei delitti-spia previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a), del codice delle leggi antimafia, debba nel contempo «effettuarne un autonomo apprezzamento, nel suo contenuto intrinseco, delle risultanze penali, senza istituire un automatismo tra l’emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l’emissione dell’informativa ad effetto interdittivo», ha però rammentato che la consolidata giurisprudenza secondo cui il delitto di cui all’art. 260 del d. lgs. n. 152 del 2006 costituisce «elemento in sé bastevole a giustificare l’emissione dell’informativa, perché il disvalore sociale e la portata del danno ambientale connesso al traffico illecito di rifiuti rappresentano, già da soli, ragioni sufficienti a far valutare con attenzione i contesti imprenditoriali, nei quali sono rilevati, in quanto oggettivamente esposti al rischio di infiltrazioni di malaffare che hanno caratteristiche e modalità di stampo mafioso». V. comunque nella consolidata giurisprudenza di Palazzo Spada, ex plurimis, Cons. St., sez. III, 21 dicembre 2012, n. 6618; Cons. St., sez. III, 28 aprile 2016, n. 1632; Cons. St., sez. III, 28 ottobre 2016, n. 4555 e n. 4556.
[26] Per il Consiglio di Stato III 18 aprile 2018 n. 2343 “Il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa posto a base dell’interdittiva prefettizia deve dar conto, in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del “più probabile che non”, il giudice amministrativo, chiamato a verificare l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole della effettiva sussistenza di tale rischio”. Ha chiarito la Sezione che la regola causale del “più probabile che non” integra un criterio di giudizio di tipo empirico-induttivo, che ben può essere integrato da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso) e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio, poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informazione antimafia, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante (Cons. St., sez. III 26 aprile 2017, n. 1923; id. 28 giugno 2017, n. 3173).
Il precipitato applicativo di quanto sin qui esposto sta nell’affermazione per cui l’interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la necessaria prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali sia plausibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un possibile condizionamento da parte di queste. Pertanto, ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri.
Sulla stessa linea della sez. III del Consiglio di Stato (28 giugno 2017, n. 3173; id. 29 dicembre 2017, n. 6178) è il C.g.a. 3 agosto 2016, n. 257 che espressamente riconosce la possibilità che il pericolo della sussistenza di infiltrazioni mafiose possa “essere desunto, in ultima analisi, anche dal fatto che soci e/o amministratori dell'impresa o della società soggetta a controllo "frequentano" soggetti mafiosi o presunti tali (rectius: che siano qualificabili, in senso tecnico, mafiosi o presunti mafiosi)”. Tale affermazione viene tuttavia corredata da una serie di condivisibili cautele applicative che devono assistere l’impiego di tale materiale indiziario, sottolineandosi in proposito come “in tal caso le presunzioni dovranno essere gravi, precise e concordanti. Non è sufficiente, al riguardo, affermare nel provvedimento interdittivo che un determinato soggetto è stato ‘notato’ accompagnarsi con un soggetto malavitoso. Occorrerà precisare la ragione tecnica per la quale quest'ultimo va considerato mafioso (nel senso tecnico fin qui indicato; e non già nel significato sociologico e non giuridico che il termine spesso assume); le circostanze di tempo e di luogo in cui è stato identificato; e le ragioni logico-giuridiche per le quale si ritiene che si tratta non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di ‘frequentazione’ effettivamente rilevante (ossia di relazione periodica, duratura e costante volta ad incidere sulle decisioni imprenditoriali)”.
[27] Con le sentenze n. 247 del 29.7.2016, n. 257 del 3.8.2016, n. 379 del 28.8.2017 e, in ultimo, n. 125 del 6.3.2018 - le cui affermazioni di principio devono qui intendersi interamente richiamate - questa Sezione del Consiglio di Stato (cfr., al riguardo, Corte Cost., n. 316 del 2004) ha sottolineato, tra l'altro, che in sede di applicazione dell'interdittiva antimafia - che è una tipica misura di prevenzione - l'Amministrazione procedente deve sempre evidenziare qual è la condotta, obiettivamente percepibile, che induce a ritenere che vi sia stato un tentativo di infiltrazione mafiosa. In mancanza dell'individuazione di tale elemento obiettivo, qualsiasi provvedimento applicativo di una misura di prevenzione è illegittimo. Al riguardo è già stato affermato (C.G.A.R.S., n. 247 del 29.7.2016; Id., n. 257 del 3.8.2016; conformi, quanto ad impostazione: C.G.A.R.S., n. 379 del 28.8.2017, nonché C.S., VI^, 25.9.2008 n. 5780; C.S., VI, 17.7.2006 n. 4574; e, in ultimo, n. 125 del 6.3.2018) e non può che essere ribadito, che: - "l'applicazione delle misure di prevenzione non può e non deve prescindere da un obiettivo ed analitico esame in ordine alla sussistenza dei presupposti (di fatto e logici) e dunque delle condotte (destanti allarme sociale) tenute dal soggetto sottoposto al controllo; condotte su cui si fonda il giudizio probabilistico"; - "tra le situazioni soggettive di pericolo che giustificano l'applicazione di 'misure di prevenzione' svetta (rectius: quella maggiormente valorizzata è) la c.d. 'pericolosità sociale', caratteristica consistente nella presunta attitudine (o vocazione) caratteriale di alcuni individui - dimostrata da specifiche prassi comportamentali recidivanti e/o dalla abitualità dello loro condotta - alla commissione di reati (Corte Cost., n. 177/1980; n. 27/1959; n. 23/1964; n. 68/1964; n. 113/1975)" (così in: C.G.A.R.S., n. 257 del 29.7.2016); - "come la Corte Costituzionale ha più volte affermato (Corte Cost. n. 23 del 1964, n. 68/1964, n. 113/1975 e n. 177/1980), nel nostro Ordinamento la pericolosità sociale di un individuo non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l'espressione - 'lombrosianamente evidente' o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza ad un determinato contesto sociale o ad una determinata famiglia (semprecché, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un'associazione a delinquere)"; e che da ciò "consegue che anche ai fini della prevenzione, non può mai mancare l'analisi della condotta del soggetto sottoposto a controllo" (C.G.A.R.S., n. 247 e n. 257 del 2016)”.
In detto orientamento giurisprudenziale si mettono in luce i seguenti corollari:
“- "i principii generali che reggono il nostro Ordinamento costituzionale postulano che anche nella formazione della c.d. 'prova indiziaria' (e finanche nella 'costruzione logica' di 'accertamenti induttivi'), come pure nella formulazione di giudizi prognostici a carattere probabilistico - quali sono quelli che caratterizzano i procedimenti volti ad applicare 'misure di prevenzione' - non deve mai mancare la ricerca e la evidenziazione degli 'elementi oggettivi' delle condotte (pur se risalenti a periodi ormai passati o se penalmente non rilevanti) dei soggetti sui quali si concentrano gli accertamenti, o dei soggetti comunque coinvolti, in quanto parti attive, nel giudizio di pericolosità (così, vigorosamente, in: Corte Cost., n. 2/1956; n. 23/1964; n. 177/1980)" (C.G.A.R.S., n. 247 e n. 257 del 2016);
- "... anche nel caso in cui gli accertamenti degli Organi di Polizia o dell'Autorità Giudiziaria siano volti a verificare non già la commissione di reati, ma - in funzione puramente preventiva - la 'pericolosità' di un soggetto o la 'probabilità' che un'azione umana produca un evento (dannoso o pericoloso), la 'motivazione' del provvedimento conclusivo (con cui viene deciso se applicare o meno la 'misura preventiva') non può mai basarsi su semplici sospetti e non deve mai prescindere dall'evidenziare - escluso ogni meccanismo atto a reintrodurre forme surrettizie di "colpa d'autore" - gli elementi obiettivi delle condotte sui quali si fonda il giudizio (CS, VI^, 25.9.2008 n. 5780; CS, VI, 17.7.2006 n. 4574)" (C.G.A.R.S., n. 247 e n. 257 del 2016);
- "anche il sistema delle misure di prevenzione è (e non può che essere) ancorato, cioè, al giudizio sulla specifica condotta del soggetto sottoposto a controllo" (C.G.A.R.S., n. 247 e n. 257 del 2016);
- "come ha affermato la Corte Costituzionale, "nella descrizione delle fattispecie (di prevenzione) il legislatore" può "far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti, però, sempre, a comportamenti obiettivamente identificabili" (Corte Cost., n. 23/1964)" (C.G.A.R.S., n. 247 e n. 257 del 2016);
- "in mancanza di condotte - pur se risalenti e penalmente irrilevanti - obiettivamente caratterizzanti la personalità dell'individuo assoggettato al controllo ed espressive di una sua recidivante e/o perdurante tendenza o concreta abitualità al compimento di determinate attività illecite (o di un suo percepibile abbassamento della soglia della liceità); in mancanza - cioè - di condotte che facciano presumere (secondo una valutazione che tenga conto dell'idquod plerumque accidit) che lo stesso si accinge a commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per "favoreggiare" chi lo compia), e che destino dunque un determinato "allarme sociale", non è dunque legittimo considerarlo (rectius: 'marchiarlo') come 'soggetto socialmente pericoloso' ed assoggettarlo a 'misure di prevenzione' incidenti su diritti fondamentali" (C.G.A.R.S., n. 247 e n. 257 del 2016);
- "corollario di tale principio è il c.d. "principio di tipicità della fattispecie" (che altro non è se non una species del "principio di legalità")" (C.G.A.R.S., n. 257 del 2016); e "anche su tale tema la Corte Costituzionale ha avuto modo di esprimersi affermando che "Il principio di legalità in materia di prevenzione, il riferimento, cioè, ai 'casi previsti dalla legge', lo si ancori all'art. 13 ovvero all'art. 25, terzo comma, Cost., implica che la applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in 'fattispecie di pericolosità', previste e descritte dalla legge; fattispecie destinate a costituire il parametro dell'accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata" (Corte Cost., n. 177/1980)" (C.G.A.R.S., n. 257 del 2016);
- "tali principii valgono e devono valere, a maggior ragione, per l'interdittiva antimafia, 'misura' volta a prevenire le infiltrazioni mafiose all'interno delle imprese e delle società che agiscono nel mercato" (C.G.A.R.S., n. 257 del 2016);
- "l'interdittiva antimafia è, infatti, una misura di prevenzione sui generis in quanto - come chiarito dalla Giurisprudenza - finisce inevitabilmente per determinare un pregiudizio anche nei confronti dei soggetti che hanno subito l'azione di infiltrazione, e cioè sia a carico dei soggetti passivi nella c.d. "contiguità soggiacente" (di cui in: C.S., VI^, 30.12.2005 n. 7619 che ne tratteggia la differenza rispetto alla diametralmente opposta c.d. "contiguità compiacente") sia - paradossalmente - addirittura a carico di soggetti terzi estranei e totalmente incolpevoli; ragion per cui la sua applicazione dev'essere 'dosata' con particolari prudenza ed equilibrio ed avvolta da specifiche 'cautele' (così, testualmente, in CS, V^, 27.6.2006 n. 4135; CS, IV^, 4.5.2004 n. 2783) affinché sia scongiurato il rischio che la normativa che la disciplina subisca censure di incostituzionalità o determini procedimenti di infrazione per violazione di diritti inviolabili garantiti dal diritto comunitario ed internazionale, o venga comunque censurata dagli Organi della Giustizia comunitaria" (C.G.A.R.S., n.257 del 2016)”.
Si sostiene inoltre ”2.2. Che occorra sempre far riferimento ad una "condotta tipizzata" o ad una "situazione di fatto" (obiettivamente percepibile) che la presupponga (o che sia indice presuntivo sintomatico del pericolo di condizionamento mafioso) è stato affermato - oltreché dalla Corte Costituzionale nella varie pronunzie già citate (Corte Cost., n. 23/1964, n. 68/1964, n. 113/1975 e n. 177/1980) - in ultimo anche dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Cfr. sentenza 23.2.2017 in ricorso 43395/2009 De Tommaso c/ Italia) la quale, proprio in tema di misure di prevenzione in vigore nella Repubblica italiana, ha affermato l'importanza del rispetto sia del principio di tassatività sia del principio di specificità delle fattispecie, stigmatizzando negativamente le norme che non descrivono con sufficiente determinatezza le condotte umane da valutare ai fini dell'applicazione di misure preventive implicanti la compressione di "diritti di libertà". Ciò induce a ritenere che sui principii di civiltà giuridica affermati - fin da tempo anteriore alla pronunzia della Corte europea - dalla giurisprudenza amministrativa fin qui richiamata (CGARS, 29.7.2016 n. 257; Id., 29.7.2016 n. 247; Id., 28.8.2017 n. 379; nonché da: CS, III^, 25.1.2016 n. 253; CS, III^, 7.3.2016 n. 923) è opportuno insistere non soltanto per scongiurare dubbi di costituzionalità in ordine alla normativa concernente l'istituto dell'interdittiva ma anche per evitare di esporre lo Stato italiano a procedimenti di infrazione per violazione di norme comunitarie poste a garanzia di diritti fondamentali dei cittadini”
Si contesta infine la modalità di applicazione del principio del “più probabile che non” muovendo dalle seguenti considerazioni. “2.3. Per il resto, la condivisibile (e per certi aspetti "scontata") osservazione secondo cui - in tema di misure di prevenzione - il giudizio prognostico non può che finire con il tradursi in una valutazione probabilistica, non deve indurre alla erronea conclusione che si possa prescindere dal ricercare gli elementi indiziari utili e necessari per rendere il più attendibile possibile tale valutazione.
In altri termini il "metodo investigativo" che mira a valorizzare, in sede di attività di prevenzione, la c.d. "regola del più probabile che non" - regola che isolatamente considerata sarebbe aberrante in un sistema ispirato al rispetto dei diritti fondamentali ed ai principii del giusto procedimento e del giusto processo (in omaggio ai quali la ricerca della verità e la tutela del diritto di difesa assurgono a valori assoluti ed incomprimibili) - può essere accreditata ed utilizzata solamente a condizione che essa venga coniugata con la "regola della massima attendibilità dell'induzione". E' infatti evidente ed innegabile che quanto più sommario è l'impianto indiziario, tanto minore è l'attendibilità del giudizio probabilistico. E che in mancanza di evidenze che attestino la sussistenza di condotte obiettivamente percepibili che - in considerazione dell'idquod pleruque accidit - rivelino quantomeno l'intenzione di condizionare le altrui decisioni strategiche, il giudizio di probabilità scade in un giudizio di mera possibilità, che è cosa completamente diversa, posto che non ogni accadimento possibile è anche probabile. Al riguardo la Sezione ha già affermato (C.G.A.R.S., n. 257 del 2016) che:
- "al fine di integrare una motivazione idonea a supportare una "interdittiva antimafia", non è sufficiente affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano "mafiosi", o 'vicini' a soggetti mafiosi; o 'vicini' o 'affiliati' a 'cosche mafiose' e/o a 'famiglie mafiose'";
- occorre - invero - motivare tale affermazione con elementi specifici che consentano di comprendere:
a) quale sia stato il 'criterio tecnico' desumibile dall'art. 10, comma 7, del D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 (e successivamente l'art. 84, comma 4, del codice antimafia), prescelto ed utilizzato per definire 'mafioso' un soggetto, o 'mafiosa' una famiglia;
b) se effettivamente il soggetto qualificato come "mafioso" o "presunto mafioso" nel senso tecnico del termine (tale potendo essere considerato anche il "convivente" esclusivamente in ragione della sua scelta di contiguità abitativa) abbia posto in essere, in quanto ritenuto autore del tentativo di infiltrazione, atti idonei diretti a condizionare le scelte dell'impresa e in cosa essi si siano concretizzati;
c) per quale (pur se presuntiva) ragione ed in che modo il 'rapporto di parentela' o il "rapporto amicale" o la "relazione di convivenza" fra il 'soggetto richiedente' la certificazione antimafia ed il presunto mafioso implichi un coinvolgimento concreto ed attuale del primo in attività economiche del secondo (o viceversa), o una comunanza attuale di interessi economico-patrimoniali o di interessi al compimento di attività di fiancheggiamento o comunque illecite;
d) in cosa eventualmente consista, in concreto, il rapporto di 'vicinanza' tra il parente del 'soggetto richiedente' ed il 'soggetto mafioso', o il rapporto di 'vicinanza' o di 'affiliazione' fra il già menzionato 'parente del soggetto richiedente' e la 'cosca' o 'famiglia mafiosa';
e) in cosa eventualmente consista, in concreto, il "rapporto di vicinanza" o il c.d. "rapporto di affiliazione" fra eventuali soggetti che nella catena delle relazioni (o filiera dei favori e delle condotte) ed il mandante dell'attività di infiltrazione”,
Con riguardo alla giurisprudenza del Consiglio di Stato si puntualizza “2.6. Né, per sostenere la tesi opposta, può essere richiamata la sentenza n. 2774 del 22.6.2016 della III^ Sezione del Consiglio di Stato, che formula il c.d. "principio di estendibilità induttiva dell'interdittiva" - così potrebbe essere definito con formula sintetica, ma impressiva -in forza del quale l'interdittiva va estesa automaticamente anche all'impresa o al soggetto - e così via "a catena" - che abbia costituito una società con un'impresa a sua volta già colpita da analogo provvedimento interdittivo. La questione è stata già affrontata in un precedente analogo, culminato in una decisione della Sezione (C.G.A.R.S. n. 125 del 6.3.2018) i cui contenuti occorre richiamare e qui di seguito brevemente sintetizzare.
La sentenza n. 2774 del 2016, afferma l'idea che la costituzione di una società fra un'impresa 'già colpita' da interdittiva ed un'impresa - per così dire, "pura" - evidenzi (seppur indiziariamente): - un intento collusivo ed agevolativo di quest'ultima nei confronti dell'altra (in funzione surrettiziamente riabilitativa e sanante); - e, dunque e comunque, l'operatività di un legame solidaristico fra le stesse (volontario o indotto secondo il tipico metodo mafioso), legame che costituisce un indice qualificato della sussistenza di un'infiltrazione a sfondo mafioso,già avvenuta ed in corso. Tale "presunzione", la cui valenza probatoria non ha peraltro forza assoluta - ben potendo essere smentita, come espressamente affermato nella stessa sentenza della quale si discute, mediante allegazione di fatti e condotte a contenuto esimente (cfr.: C.S., n. 2774/2016, pag. 11, 3 cpv) - appare al Collegio tendenzialmente condivisibile (C.G.A.R.S., 6.3.2018 n. 125). Occorre tuttavia non dimenticare che la stessa sentenza n. 2774 del 2016, nella quale si trova formulato il predetto principio della "estensione induttiva" della interdittiva antimafia (operante nel caso di costituzione di società fra due imprese delle quali una sia stata "interdetta"), afferma con chiarezza che "rimane, in ogni caso, integra la possibilità della seconda impresa (e cioè quella nei cui confronti ed a cui carico opera l'"estensione" dell'originaria interdittiva) di smentire la presunzione e di superarne, quindi, la relativa valenza probatoria". Ciò significa che la presunzione è "relativa" e non "assoluta". E, soprattutto, che la c.d. "estensione induttiva" dell'interdittiva non è e non può essere - in concreto - così "meccanicisticamente automatica", come potrebbe dedursi (rectius: come potrebbe sembrare) all'esito di una lettura frettolosa e disattenta della pronunzia in esame. Ed invero, se all'impresa unitasi in società con una impresa già "interdetta" (rectius: già colpita da interdittiva) va concessa la possibilità di fornire giustificazioni ("a prova contraria") in ordine alla causa ed ai motivi che la hanno spinta ad instaurare il vincolo societario con l'altra, ciò significa che un (seppur stringato e veloce) procedimento valutativo, che contempli l'instaurazione di un minimo di contraddittorio (volto a consentire la verifica in funzione giustificativo-esimente), deve pur essere avviato; e che di esso, e del giudizio espresso nel suo ambito, deve restare traccia nella motivazione del provvedimento con cui si decida, infine, di estendere l'interdittiva (così in: C.G.A.R.S., 6.3.2018 n. 125). D'altro canto la stessa sentenza n. 2774/2016 specifica che "perché possa presumersi il 'contagio' alla seconda impresa della 'mafiosità' della prima ...", e "l'esistenza di un sodalizio criminoso tra i due operatori", è necessario che "... l'analisi dei rapporti fra le due imprese manifesti una plausibile condivisione di finalità illecite e una verosimile convergenza verso l'assoggettamento agli interessi criminali di organizzazioni mafiose, desumibili, ad esempio, dalla stabilità, dalla persistenza e dalla intensità dei vincoli associativi o delle relazioni commerciali" (pag. 8, I e II cpv)”.
[28] Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565, in Urb. e app., 2017, 2, 223 e ss., con nota di P. Tonnara, Informative antimafia e discrezionalità del prefetto, pronuncia di sicuro impatto sistematico, per le ragioni sulle quali si ritornerà amplius più avanti, la quale ha precisato che «la delicatezza di tale ponderazione intesa a contrastare in via preventiva la minaccia insidiosa ed esiziale delle organizzazioni mafiose, richiesta all’autorità amministrativa, può comportare anche un’attenuazione, se non una eliminazione, del contraddittorio procedimentale, che del resto non è un valore assoluto, slegato dal doveroso contemperamento di esso con interessi di pari se non superiore rango costituzionale, né un bene in sé, o un fine supremo e ad ogni costo irrinunciabile, ma è un principio strumentale al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e, in ultima analisi, al principio di legalità sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), vero e più profondo fondamento del moderno diritto amministrativo» e che, per altro verso, «il contraddittorio procedimentale non è del tutto assente nemmeno nelle procedure antimafia, se è vero che l’art. 93, comma 7, del d. lgs. n. 159 del 2011 «il prefetto competente al rilascio dell’informazione, ove lo ritenga utile, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite invita, in sede di audizione personale, i soggetti interessati a produrre, anche allegando elementi documentali, ogni informazione ritenuta utile»».
[29] Ci si riferisce, in particolare, alla nota pronuncia n. 309 del 19 marzo 1993 della Corte costituzionale sullo scioglimento dei Consigli comunali per infiltrazioni mafiose (previsto al tempo dall’art. 15-bis della l. n. 55 del 1990 e oggi dall’art. 143 del T.U.E.L.), di cui meglio si dirà nell’apposita scheda. Qui basti ricordare, comunque, che in tale pronuncia il giudice delle leggi, con una affermazione di principio estensibile anche alle misure di prevenzione antimafia qui in esame, ha enunciato, a chiare lettere, l’orientamento secondo cui, a fronte di «misure caratterizzate dal fatto di costituire la reazione dell’ordinamento alle ipotesi di attentato all’ordine ed alla sicurezza pubblica», non è ipotizzabile alcuna violazione dell’art. 97 Cost. per l’assenza o la diminuzione delle garanzie partecipative, «dato che la disciplina del procedimento amministrativo è rimessa alla discrezionalità del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri principi costituzionali, tra i quali […] non è compreso quello del “giusto procedimento” amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt. 24 e 113 Cost.».
[30] Si riporta l’art. 93 Poteri di accesso e accertamento del prefetto
1. Per l'espletamento delle funzioni volte a prevenire infiltrazioni mafiose nei pubblici appalti, il prefetto dispone accessi ed accertamenti nei cantieri delle imprese interessate all'esecuzione di lavori pubblici, avvalendosi, a tal fine, dei gruppi interforze di cui all'articolo 5, comma 3, del decreto del Ministro dell'interno 14 marzo 2003, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 54 del 5 marzo 2004.
2. Ai fini di cui al comma 1 sono imprese interessate all'esecuzione di lavori pubblici tutti i soggetti che intervengono a qualunque titolo nel ciclo di realizzazione dell'opera, anche con noli e forniture di beni e prestazioni di servizi, ivi compresi quelli di natura intellettuale, qualunque sia l'importo dei relativi contratti o dei subcontratti.
3. Al termine degli accessi ed accertamenti disposti dal prefetto, il gruppo interforze redige, entro trenta giorni, la relazione contenente i dati e le informazioni acquisite nello svolgimento dell'attività ispettiva, trasmettendola al prefetto che ha disposto l'accesso.
4. Il prefetto, acquisita la relazione di cui al comma 3, fatta salva l'ipotesi di cui al comma 5, valuta se dai dati raccolti possano desumersi, in relazione all'impresa oggetto di accertamento e nei confronti dei soggetti che risultano poter determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell'impresa stessa, elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all'articolo 84, comma 4 ed all'articolo 91, comma 6. In tal caso, il prefetto emette, entro quindici giorni dall'acquisizione della relazione del gruppo interforze, l'informazione interdittiva, previa eventuale audizione dell'interessato secondo le modalità individuate dal successivo comma 7. (224)
5. Qualora si tratti di impresa avente sede in altra provincia, il prefetto che ha disposto l'accesso trasmette senza ritardo gli atti corredati dalla relativa documentazione al prefetto competente, che provvede secondo le modalità stabilite nel comma 4.
[6. Ai fini dell'adozione degli ulteriori provvedimenti di competenza di altre amministrazioni, dell'informazione è data tempestiva comunicazione, anche in via telematica, a cura del prefetto, ai seguenti soggetti:
a) stazione appaltante;
b) Camera di commercio del luogo ove ha sede l'impresa oggetto di accertamento;
c) prefetto che ha disposto l'accesso;
d) Osservatorio centrale appalti pubblici, presso la direzione investigativa antimafia;
e) Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture istituito presso l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, ai fini dell'inserimento nel casellario informatico di cui all'articolo 7, comma 10, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;
f) Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
g) Ministero dello sviluppo economico.
7. Il prefetto competente al rilascio dell'informazione, ove lo ritenga utile, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite invita, in sede di audizione personale, i soggetti interessati a produrre, anche allegando elementi documentali, ogni informazione ritenuta utile.
8. All'audizione di cui al comma 7, si provvede mediante comunicazione formale da inviarsi al responsabile legale dell'impresa, contenente l'indicazione della data e dell'ora e dell'Ufficio della prefettura ove dovrà essere sentito l'interessato ovvero persona da lui delegata.
9. Dell'audizione viene redatto apposito verbale in duplice originale, di cui uno consegnato nelle mani dell'interessato.
10. I dati acquisiti nel corso degli accessi di cui al presente articolo devono essere inseriti a cura della Prefettura della provincia in cui è stato effettuato l'accesso, nel sistema informatico, costituito presso la Direzione investigativa antimafia, previsto dall'articolo 5, comma 4, del citato decreto del Ministro dell'interno in data 14 marzo 2003.
11. Al fine di rendere omogenea la raccolta dei dati di cui al precedente comma su tutto il territorio nazionale, il personale incaricato di effettuare le attività di accesso e accertamento nei cantieri si avvale di apposite schede informative predisposte dalla Direzione investigativa antimafia e da questa rese disponibili attraverso il collegamento telematico di interconnessione esistente con le Prefetture - Uffici Territoriali del Governo.
[31] V., inter multas, Cons. St., sez. III, 28 ottobre 2016, n. 4555, secondo cui l’amministrazione è esonerata dall’obbligo di comunicazione di cui all’art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241 nonché da altre garanzie partecipative, relativamente all’informativa antimafia, «atteso che si tratta di procedimento in materia di tutela antimafia, come tale intrinsecamente caratterizzato da profili del tutto specifici connessi ad attività di indagine, oltre che da finalità, da destinatari e da presupposti incompatibili con le procedure partecipative, nonché da oggettive e intrinseche ragioni di urgenza».
[32] Salva l’ipotesi eccezionale, prevista dall’art. 94, comma 3, del d. lgs. n. 159 del 2011, in cui l’opera sia in corso di ultimazione o, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibili in tempi rapidi, perché in questa ipotesi viene in rilievo un preminente interesse pubblico all’ultimazione dell’opera o alla continuità del servizio, non interrompibile senza un grave nocumento per la collettività.
[33] V., sul punto, Cons. St., sez. III, 12 marzo 2015, n. 1292, nonché Cons. St., sez. III, 24 luglio 2015, n. 3653, la quale ribadisce che ogni statuizione della stazione appaltante o dell’amministrazione, successiva all’emissione dell’informazione antimafia a carattere interdittivo, si configura dovuta e vincolata «a fronte del giudizio di disvalore dell’impresa con la quale è stato stipulato il contratto e il provvedimento di revoca o recesso da essa adottato non deve essere corredato da alcuna specifica motivazione, salvo la diversa ipotesi, del tutto eccezionale, in cui a fronte dell’esecuzione di gran parte delle prestazioni e del pagamento dei corrispettivi dovuti, venga riconosciuto prevalente l’interesse alla conclusione della commessa con l’originario affidatario».
[34] Nelle gare d'appalto l'efficacia annuale dell'informativa antimafia riguarda la sola informativa positiva, vale a dire quella con cui si attesti l'insussistenza del pericolo di infiltrazione e non già i riscontri indicativi del pericolo, i quali conservano la loro valenza anche oltre il termine indicato nella norma di cui all'art. 86 comma 2 D.L.vo 6 settembre 2011 n. 159, e ciò fino al sopraggiungere di fatti nuovi ed ulteriori (non rilevando il mero trascorrere del tempo) rispetto ad una precedente valutazione di presenza di tentativi siffatti, che evidenzino il venir meno della situazione di pericolo (Cons. Stato, Sez. III 5 ottobre 2016 n. 4121).
[35] Come si è più volte evidenziato (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 30 dicembre 2011, n. 7002; Cons. St., sez. III, 22 gennaio 2012, n. 292; Cons. St., sez. V, 1° ottobre 2015, n. 4602), e tralasciando per ora i dubbi adombrati nel citato obiter dictum, la limitazione temporale di efficacia dell’interdittiva antimafia, prevista dall’art. 86, comma 2, del d. lgs. n. 159 del 2011, deve intendersi riferita ai casi nei quali sia attestata «l’assenza di pericolo di infiltrazione mafiosa, e non già ai riscontri indicativi del pericolo, i quali ultimi conservano la loro valenza anche oltre il termine indicato nella norma».
[36] Cons. St., Ad. plen., 7 novembre 2014, n. 29, in Foro amm., 2014, 11, 2738, secondo cui si realizza una particolare forma di connessione per accessorietà in base alla quale, ai fini della determinazione del giudice competente, la causa principale (avente ad oggetto l’informativa prefettizia) attrae a sé quella accessoria (avente ad oggetto gli atti applicativi adottati dalla stazione appaltante), senza che a ciò siano di ostacolo le norme sulla competenza funzionale.
[37] In senso contrario, tuttavia, Cons. St., sez. IV, 20 luglio 2016, n. 3247.
[38] cfr. ex multis Cons. St., sez. IV, 31 marzo 2015, n.1683.
[39] Il Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza 26 marzo 2018, n. 1882, si è pronciato per un’ipotesi di rigetto della domanda risarcitoria per mancata stipulazione di un contratto, causata da una richiesta facoltativa di rilascio dell’informazione ex art. 10 del d.P.R. n. 252 del 1998 rivolta dalla stazione appaltante alla Prefettura, che ha poi adottato l’informativa antimafia in data successiva all’aggiudicazione e al termine previsto ex lege per la stipulazione del contratto. Inoltre la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 27 marzo 2018, n. 1901), premettendo che il risarcimento del danno non è una conseguenza diretta e costante dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo, richiedendo in particolare l’accertamento dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità, precisa che, nel caso delle informative interdittive, il requisito della colpa dell’amministrazione deve essere scrutinato in coerenza con la funzione, la natura e i contenuti delle relative misure e, quindi, con l’ampio spettro di discrezionalità, con il carattere preventivo e cautelativo dei provvedimenti da adottare, nonché tenendo conto della difficoltà e complessità delle questioni da affrontare al fine di ricostruire un quadro attendibile (in senso conforme: Cons. Stato, sez. III, 6 marzo 2018, n. 1409); u3) nel senso che la particolare natura dei provvedimenti interdittivi non consenta di applicare le regole risarcitorie operanti nella materia dell’aggiudicazione dei pubblici appalti, per le quali la responsabilità dell’amministrazione prescinde dalla colpevolezza dell’ente aggiudicatore, e, in generale, con riferimento ai presupposti per il risarcimento del danno in caso di interdittiva si veda Cons. Stato, sez. III, 5 marzo 2018, n. 1401 (in www.lamministrativista.it).
Nel senso della mancanza del presupposto dell’ingiustizia del danno in caso di legittimità del provvedimento interdittivo, si è espresso, tra le altre, Cons. Stato, sez. III, 19 dicembre 2017, n. 5964Secondo Cass. civ.,sez.un.,14 marzo 2011,n.5925(in Foroit.,2011, I, 2400),rientra nella cognizione del giudice ordinario la domanda con cui un operatore economico chiede la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni asseritamente subiti a causa del mancato aggiornamento dei dati contenuti nelle informative antimafia rese a suo carico da alcune prefetture.
[40] Consiglio di Stato, sez. V, 18/04/2017, n. 1810, Cons. St., ad. plen., 20 luglio 2015, n. 8; Id., 25 febbraio 2014, n. 10.
[41] Rispetto all’informazione antimafia (art. 90 ss. Codice delle leggi antimafia) gli effetti variano anche in relazione al valore economico del rapporto, anche se il mancato superamento della soglia non impedisce all’amministrazione di acquisire la documentazione antimafia, se lo ritenga opportuno, indipendentemente dall’attuazione di protocolli di legalità (cfr. Cons. Stato, sez. III, 28 dicembre 2016, n. 5513);
[42] Con l’articolo 140 del decreto legislativo 12 aprile 2006 n.163 (cosiddetto codice degli appalti 2006) il quale, prima dell’abrogazione ad opera del decreto legislativo numero 50 del 2016, si consentiva che, in caso di fallimento dell'appaltatore o di liquidazione coatta e concordato preventivo dello stesso o di risoluzione del contratto o di recesso dal contratto in applicazione della disciplina antimafia allora vigente (articolo 11, comma 3 del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252), di interpellare progressivamente i soggetti che hanno partecipato all'originaria procedura di gara, risultanti dalla relativa graduatoria, al fine di stipulare un nuovo contratto per l'affidamento del completamento dei lavori.
L'affidamento era possibile alle medesime condizioni già proposte dall'originario aggiudicatario in sede in offerta.
In caso di fallimento o di indisponibilità di tutti i soggetti interpellati le stazioni appaltanti potevano procedere all'affidamento del completamento dei lavori mediante procedura negoziata senza pubblicazione di bando, ai sensi dell'articolo 57 del D. Lgs. n. 163 del 2006, se l'importo dei lavori da completare è pari o superiore alla soglia comunitaria, ovvero nel rispetto dei principi del Trattato a tutela della concorrenza, se l'importo suddetto è inferiore alla soglia predetta.
Qualora il fallimento dell'appaltatore o la risoluzione del contratto per grave inadempimento del medesimo fossero intervenuti allorché i lavori fossero già stati realizzati per una percentuale non inferiore al 70 per cento, e l'importo netto residuo dei lavori non superi i tre milioni di euro, le stazioni appaltanti potevano procedere all'affidamento del completamento dei lavori direttamente mediante la procedura negoziata senza pubblicazione di bando.
[43] Consiglio di Stato, sez. VI, 14/11/2012, n. 5747; Consiglio di Stato, sez. III, 06/03/2017, n. 1050; Consiglio di Stato, sez. V, 10/08/2016, n. 3573
[44] Consiglio di Stato, sez. V, 27/07/2016, n. 3400; Cons. St., Sez. III, 28 aprile 2016, n. 1630.
[45] Cassazione civile, sez. un., 29/08/2008, n. 21928, Cassazione civile 27 gennaio 2014 n. 1530 sez. un. Cons. St., sez. VI, 26 ottobre 2005 n. 5981, in Corr. giur., 2006, III, 331, con nota di Carbone L., D'Adamo, Revoca e recesso dai rapporti contrattuali conseguenti ad informazioni antimafia positive.Per l'affermazione che, una volta concluso l'accordo contrattuale in modo definitivo, la scelta della pubblica amministrazione committente di non eseguire l'opera come progettata, compiuta per sopravvenuti motivi di opportunità, rientra nell'ambito del potere, non pubblico di revoca, ma contrattuale di recesso, di cui all'art. 345 l. 20 marzo 1865 n. 2248, All. F, sicché la relativa controversia spetta alla giurisdizione del giudice ordinario, cfr. Cass., sez. un., 26 giugno 2003 n. 10160, in Giur. it., 2004, III, 637. Sul potere di revoca dell'affidamento dell'appalto per motivi di opportunità, cfr. Cons. St., sez. V, 3 febbraio 2000 n. 661, in Urb. app., 2000, IV, 410, con nota di Daloiso, Potere di autotutela e contratti pubblici.
Così come anche la controversia risarcitoria relativa a pretesi danni derivati dalla reiezione di istanze di revoca, per circostanze sopravvenute, di un provvedimento di sospensione della concessione provvisoria nel settore dell'intrattenimento e del gioco legale, adottato a seguito di nota informativa sul tentativo di infiltrazione mafiosa, spetta alla cognizione del giudice amministrativo, atteso che il pregiudizio di cui si invoca il ristoro è riconducibile, non già ad una asserita inerzia del Prefetto nell'aggiornamento dei dati presupposti, privi di autonoma rilevanza, bensì ad un provvedimento amministrativo, di natura interdittiva e dotato di margini di discrezionalità, rispetto al quale anche la sua mancata revoca costituisce espressione di una decisione autoritativa, implicando uno speculare esercizio di potestà amministrativa, insindacabile dal giudice ordinario (Cassazione civile, sez. un., 16/11/2016, n. 23301).
[46] L’art. 37 del decreto legislativo numero 163 del 2006, (prima dell’abrogazione da parte del decreto legislativo numero 50 del 2016) disponeva che “18. In caso di fallimento del mandatario ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante può recedere dall'appalto. 19. In caso di fallimento di uno dei mandanti ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”.
[47] cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 7 marzo 2016, n. 923; Cons. Stato, VI, n. 7345 del 2010; CGA 8 febbraio 2016 n. 34; per la giurisprudenza di primo grado, T.A.R. Campania, I, n. 94/2015; n. 4815/2012.
[48] Cons. St., sez. I, 17 novembre 2015, n. 497, in Foro it., 2016, III, 214, con nota di G. D’Angelo. Nel parere del Consiglio di Stato, sez. I, n. 3088 del 17 novembre 2015, si è evidenziato che "le perplessità di ordine sistematico e teleologico sollevate in ordine all'applicazione di tale disposizione anche alle ipotesi in cui non vi sia un rapporto contrattuale - appalti o concessioni - con la pubblica amministrazione non hanno ragion d'essere, posto che anche in ipotesi di attività soggette a mera autorizzazione l'esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l'economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l'ordine e la sicurezza pubbliche".
[49] Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565, cit., 223-229, con nota di P. Tonnara, Informative antimafia e discrezionalità del prefetto, e anche, di poco successiva, Cons. St., sez. III, 8 marzo 2017, n. 1109, in Giur. it., 2017, 6, 1414, con nota di M. Giustiniani e P. Fontana, La tutela nei confronti delle infiltrazioni mafiose nelle attività economiche, nonché in Guida al dir., 2017, 14, 90, con nota di D. Ponte.
[50] Nel senso dell’applicabilità delle informazioni antimafia anche ai provvedimenti a contenuto autorizzatorio e della tendenza del legislatore al superamento della bipartizione tra comunicazioni antimafia, applicabili alle autorizzazioni, e informazioni antimafia, applicabili ad appalti, concessioni, contributi ed elargizioni si veda Cons. Stato, sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565 (in Foro amm., 2017, 275; in Urb. app., 2017, 223, con nota di Tonnara, anche con riferimento all’art. 89 bis del Codice delle leggi antimafia introdotto dal d.lgs. 13 ottobre 2014, n. 153 (c.d. secondo correttivo al Codice antimafia);
[51] Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565, cit., 226.
[52] Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565.
[53] Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565. Dubbioso, circa l’estensione delle informazioni antimafia alle autorizzazioni e, quindi, al settore dell’economia privata, P. Tonnara, Informative antimafia e discrezionalità del prefetto, cit., 238, il quale segnala il rischio che «se, tuttavia, si estende l’informativa antimafia all’economia privata, l’ampia discrezionalità del prefetto potrebbe stridere con un principio portante della moderna economia, quello della certezza e della prevedibilità delle decisioni dell’autorità amministrativa».
[54] Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565, cit.
[55] Cons. St., sez. III, 5 ottobre 2016, n. 4121, in Urb. e app., 2016, 12, 1389. Ma v. già, in questo senso, anche Cons. St., sez. V, 1° ottobre 2015, n. 4602, 199-200, con nota di C. Contessa, Ancora sul regime temporale di efficacia delle informative interdittive antimafia.
[56] V., in questo senso, Cons. St., sez. III, 5 ottobre 2016, n. 4121, in Urb. e app., 2016, 12, 1389 e, da ultimo, la già richiamata sentenza del Cons. St., sez. III, 8 febbraio 2017, n. 565, cit., 228, con nota di P. Tonnara, Informative antimafia e discrezionalità del prefetto, cit., 238, il quale dubita che l’istituto dell’aggiornamento possa rivelarsi del tutto efficace, laddove l’informazione antimafia si fondi su rapporti di parentela o su legami affettivi, a meno che la persona decida di interrompere qualsivoglia rapporto con la famiglia o con il partner. Ma il rilevo prova troppo, tuttavia, perché trascura che il legame familiare, per la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, rileva solo se sia indice di una “regìa familiare” dell’impresa e, parimenti, il legame affettivo rileva solo se denoti il rischio di una eterodirezione dell’impresa da parte del partner o dell’amico.
[57] V., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 24 luglio 2015, n. 3653, in Foro amm., 2015, 7-8, 1911, secondo cui l’informazione interdittiva antimafia può fondarsi anche su fatti più risalenti nel tempo, ma a condizione che dal complesso delle vicende esaminate e sulla base degli indizi raccolti risulti sussistente un condizionamento attuale dell’attività dell’impresa, con la conseguenza che, se l’esame dei fatti più recenti non lo conferma, ancorché tale condizionamento sia ipotizzabile sulla base dei fatti più risalenti, l’informativa deve essere annullata. Il problema della attualità ai fini della prevenzione antimafia è stato fortemente avvertito e dibattuto, parallelamente, anche dalla giurisprudenza della Cassazione in ordine alle misure personali ed ha trovato un recente punto di svolta nella pronuncia delle Sezioni Unite, 4 gennaio 2018, n. 111.
[58] La norma predetta (e di cui si è fatto già cenno sopra) dispone”1. Nell'ipotesi in cui l'autorita' giudiziaria proceda per i delitti di cui agli articoli 317 c.p., 318 c.p., 319 c.p., 319-bis c.p., 319-ter c.p., 319-quater c.p., 320 c.p., 322, c.p., 322-bis, c.p. 346-bis, c.p., 353 c.p. e 353-bis c.p., ovvero, in presenza di rilevate situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali attribuibili ad un'impresa aggiudicataria di un appalto per la realizzazione di opere pubbliche, servizi o forniture, nonchè ad una impresa che esercita attività sanitaria per conto del Servizio sanitario nazionale in base agli accordi contrattuali di cui all'articolo 8-quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 ovvero ad un concessionario di lavori pubblici o ad un contraente generale, il Presidente dell'ANAC ne informa il procuratore della Repubblica e , in presenza di fatti gravi e accertati anche ai sensi dell'articolo 19, comma 5, lett. a) del presente decreto, propone al Prefetto competente in relazione al luogo in cui ha sede la stazione appaltante, alternativamente :
a) di ordinare la rinnovazione degli organi sociali mediante la sostituzione del soggetto coinvolto e, ove l'impresa non si adegui nei termini stabiliti, di provvedere alla straordinaria e temporanea gestione dell'impresa [appaltatrice] limitatamente alla completa esecuzione del contratto d'appalto ovvero dell'accordo contrattuale o della concessione;
b) di provvedere direttamente alla straordinaria e temporanea gestione dell'impresa [appaltatrice] limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto ovvero dell'accordo contrattuale o della concessione.
2. Il Prefetto, previo accertamento dei presupposti indicati al comma 1 e valutata la particolare gravita' dei fatti oggetto dell'indagine, intima all'impresa di provvedere al rinnovo degli organi sociali sostituendo il soggetto coinvolto e ove l'impresa non si adegui nel termine di trenta giorni ovvero nei casi piu' gravi, provvede nei dieci giorni successivi con decreto alla nomina di uno o piu' amministratori, in numero comunque non superiore a tre, in possesso dei requisiti di professionalità e onorabilita' di cui al regolamento adottato ai sensi dell'articolo 39, comma 1, del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270. Il predetto decreto stabilisce la durata della misura in ragione delle esigenze funzionali alla realizzazione dell'opera pubblica, al servizio o alla fornitura oggetto del contratto e comunque non oltre il collaudo ovvero dell'accordo contrattuale.
2-bis. Nell'ipotesi di impresa che esercita attività sanitaria per conto del Servizio sanitario nazionale in base agli accordi contrattuali di cui all'articolo 8-quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, il decreto del Prefetto di cui al comma 2, e' adottato d'intesa con il Ministro della salute e la nomina e' conferita a soggetti in possesso di curricula che evidenzino qualificate e comprovate professionalità ed esperienza di gestione sanitaria.
3. Per la durata della straordinaria e temporanea gestione dell'impresa, sono attribuiti agli amministratori tutti i poteri e le funzioni degli organi di amministrazione dell'impresa ed è sospeso l'esercizio dei poteri di disposizione e gestione dei titolari dell'impresa. Nel caso di impresa costituita in forma societaria, i poteri dell'assemblea sono sospesi per l'intera durata della misura.
4. L'attività di temporanea e straordinaria gestione dell'impresa e' considerata di pubblica utilita' ad ogni effetto e gli amministratori rispondono delle eventuali diseconomie dei risultati solo nei casi di dolo o colpa grave.
5. Le misure di cui al comma 2 sono revocate e cessano comunque di produrre effetti in caso di provvedimento che dispone la confisca, il sequestro o l'amministrazione giudiziaria dell'impresa nell'ambito di procedimenti penali o per l'applicazione di misure di prevenzione ovvero dispone l'archiviazione del procedimento. L'autorità giudiziaria conferma, ove possibile, gli amministratori nominati dal Prefetto.
6. Agli amministratori di cui al comma 2 spetta un compenso quantificato con il decreto di nomina sulla base delle tabelle allegate al decreto di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 4 febbraio 2010 n. 14. Gli oneri relativi al pagamento di tale compenso sono a carico dell'impresa.
7. Nel periodo di applicazione della misura di straordinaria e temporanea gestione di cui al comma 2, i pagamenti all'impresa sono corrisposti al netto del compenso riconosciuto agli amministratori di cui al comma 2 e l'utile d'impresa derivante dalla conclusione dei contratti d'appalto di cui al comma 1, determinato anche in via presuntiva dagli amministratori, è accantonato in apposito fondo e non puo' essere distribuito ne' essere soggetto a pignoramento, sino all'esito dei giudizi in sede penale ovvero, nei casi di cui al comma 10, dei giudizi di impugnazione o cautelari riguardanti l'informazione antimafia interdittiva.
8. Nel caso in cui le indagini di cui al comma 1 riguardino componenti di organi societari diversi da quelli di cui al medesimo comma e' disposta la misura di sostegno e monitoraggio dell'impresa. Il Prefetto provvede, con decreto, adottato secondo le modalità di cui al comma 2, alla nomina di uno o più esperti, in numero comunque non superiore a tre, in possesso dei requisiti di professionalità e onorabilità di cui di cui al regolamento adottato ai sensi dell'articolo 39, comma 1, del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, con il compito di svolgere funzioni di' sostegno e monitoraggio dell'impresa. A tal fine, gli esperti forniscono all'impresa prescrizioni operative, elaborate secondo riconosciuti indicatori e modelli di trasparenza, riferite agli ambiti organizzativi, al sistema di controllo interno e agli organi amministrativi e di controllo.
9. Agli esperti di cui al comma 8 spetta un compenso, quantificato con il decreto di nomina, non superiore al cinquanta per cento di quello liquidabile sulla base delle tabelle allegate al decreto di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 4 febbraio 2010 n. 14. Gli oneri relativi al pagamento di tale compenso sono a carico dell'impresa.
10. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche nei casi in cui sia stata emessa dal Prefetto un'informazione antimafia interdittiva e sussista l'urgente necessità di assicurare il completamento dell'esecuzione del contratto ovvero dell'accordo contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonchè per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell'integrità dei bilanci pubblici, ancorchè ricorrano i presupposti di cui all'articolo 94, comma 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. In tal caso, le misure sono disposte di propria iniziativa dal Prefetto che ne informa il Presidente dell'ANAC. Nei casi di cui al comma 2-bis, le misure sono disposte con decreto del Prefetto, di intesa con il Ministro della salute. Le stesse misure sono revocate e cessano comunque di produrre effetti in caso di passaggio in giudicato di sentenza di annullamento dell'informazione antimafia interdittiva, di ordinanza che dispone, in via definitiva, l'accoglimento dell'istanza cautelare eventualmente proposta ovvero di aggiornamento dell'esito della predetta informazione ai sensi dell'articolo 91, comma 5, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, e successive modificazioni, anche a seguito dell'adeguamento dell'impresa alle indicazioni degli esperti.
10-bis. Le misure di cui al presente articolo, nel caso di accordi contrattuali con il Servizio sanitario nazionale di cui all'articolo 8-quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, si applicano ad ogni soggetto privato titolare dell'accordo, anche nei casi di soggetto diverso dall'impresa, e con riferimento a condotte illecite o eventi criminali posti in essere ai danni del Servizio sanitario nazionale”
La legge 11 agosto 2014, n. 114 (in SO n.70, relativo alla G.U. 18/08/2014, n.190) , di conversione, ha disposto (con l'art. 1, comma 1) la modifica dell'art. 32, commi 1, alinea e lettere a) e b), 2, 5 e 7. La legge 28 dicembre 2015, n. 208 (in SO n.70, relativo alla G.U. 30/12/2015, n.302) ha disposto (con l'art. 1, comma 704, lettera a)) la modifica dell'art. 32, comma 1, alinea; (con l'art. 1, comma 704, lettera b)) la modifica dell'art. 32, comma 1, lettera a); (con l'art. 1, comma 704, lettera c)) la modifica dell'art. 32, comma 1, lettera b); (con l'art. 1, comma 704, lettera d)) la modifica dell'art. 32, comma 2; (con l'art. 1, comma 704, lettera e)) l'introduzione del comma 2-bis all'art. 32; (con l'art. 1, comma 704, lettera f)) la modifica dell'art. 32, comma 10; (con l'art. 1, comma 704, lettera g)) l'introduzione del comma 10-bis all'art. 32.
[59] In un Dossier del Servizio Studi del Senato si parla di misure per la gestione di imprese aggiudicatarie di appalti pubblici i cui titolari od amministratori siano persone"indagate per delitti contro la P.A.".Inoltre nello stesso documento si spiega che l'articolo 32 prevede, anziché l'amministrazione straordinaria temporanea, la possibile nomina di esperti da parte del Prefetto per svolgere funzioni di sostegno e monitoraggio dell'impresa, "se le citate indagini penali" riguardano membri di organi societari diversi da quelli dell'impresa aggiudicataria dell'appalto.
[60] In sede parlamentare, nel corso dei lavori di conversione del D.L., è stata proposta l'eliminazione del presupposto in esame, anche sulla base delle osservazioni critiche di Confmdustria.
[61] Le seconde linee guida dell'ANAC delineano un articolato assetto delle competenze.
[62] A seguito delle modifiche dell'articolo 32 apportata dall'articolo 1 comma 704 della legge 28 dicembre 2015 numero 208, che è steso l'applicazione dell'Istituto disciplinato alle imprese che esercitano attività sanitaria per conto del Servizio sanitario nazionale in base agli accordi contrattuali di cui all'articolo otto quinquies. Del decreto legislativo 30 dicembre 1992 numero 502, sono state emanate le quarte linee guida pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale numero 197 del 24 agosto 2016.
[63] Cfr. Cons. St., sez. VI, 29 febbraio 2008 n. 756; Cons. St., sez. V, 12 giugno 2007 n. 3126; id., 28 febbraio 2006 n. 851. Il Consiglio di Stato (III 9 febbraio 2017 n. 565) ha recentemente ritenuto che “La delicatezza di tale ponderazione intesa a contrastare in via preventiva la minaccia insidiosa ed esiziale delle organizzazioni mafiose, richiesta all’autorità amministrativa, può comportare anche un’attenuazione, se non una eliminazione, del contraddittorio procedimentale, che del resto non è un valore assoluto, slegato dal doveroso contemperamento di esso con interessi di pari se non superiore rango costituzionale, né un bene in sé, o un fine supremo e ad ogni costo irrinunciabile, ma è un principio strumentale al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e, in ultima analisi, al principio di legalità sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), vero e più profondo fondamento del moderno diritto amministrativo. E d’altro canto, occorre qui ricordare, il contraddittorio procedimentale non è del tutto assente nemmeno nelle procedure antimafia, se è vero che l’art. 93, comma 7, del d. lgs. n. 159 del 2011 «il prefetto competente al rilascio dell’informazione, ove lo ritenga utile, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite invita, in sede di audizione personale, i soggetti interessati a produrre, anche allegando elementi documentali, ogni informazione ritenuta utile». Infine deve essere qui anche ribadito, come questa Sezione ha più volte chiarito, che il bilanciamento tra i valori costituzionali rilevanti in materia – l’esigenza, da un lato, di preservare i rapporti economici dalle infiltrazioni mafiose in attuazione del superiore principio di legalità sostanziale e, dall’altro, la libertà di impresa – trova nella previsione dell’aggiornamento, ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d. lgs. n. 159 del 2011, un punto di equilibrio fondamentale e uno snodo della disciplina in materia, sia in senso favorevole che sfavorevole all’impresa, poiché impone all’autorità prefettizia di considerare i fatti nuovi, laddove sopravvenuti, o anche precedenti – se non noti – e consente all’impresa stessa di rappresentarli all’autorità stessa, laddove da questa non conosciuti (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 5 ottobre 2016, n. 4121). L’ordinamento positivo in materia, dalla legge-delega al cd. “Codice antimafia” sino alle più recenti integrazioni di quest’ultimo, ha voluto apprestare, per l’individuazione del pericolo di infiltrazione mafiosa nell’economia e nelle imprese, strumenti sempre più idonei e capaci di consentire valutazioni e accertamenti tanto variegati e adeguabili alle circostanze, quanto variabili e diversamente atteggiati sono i mezzi che le mafie usano per cercare di moltiplicare i loro illeciti profitti. Nella ponderazione degli interessi in gioco, tra cui certo quello delle garanzie per l’interessato da una misura interdittiva è ben presente, non può pensarsi che gli organi dello Stato contrastino con “armi impari” la pervasiva diffusione delle organizzazioni mafiose che hanno, nei sistemi globalizzati, vaste reti di collegamento e profitti criminali quale “ragione sociale” per tendere al controllo di interi territori”.
[64] Consiglio di Stato, sez. V, 13 novembre 2015, n. 5188.
[65] Circolare del 22 marzo 2018 del Ministero dell’Interno (n. 11001/119/20)
[66] GAROFOLI, Il contrasto ai reati di impresa nel d.lgs. n. 231 del 2001 e nel d.l. n. 90 del 2014: non solo repressione, ma prevenzionee continuità aziendale, in Diritto Penale Contemporaneo.
[67] PIGNATONE, Mafia e corruzione tra confische commissariamenti ed interdittive in Diritto penale contemporaneo 2017.
[68] Diversi Autori hanno sottolineato la bontà di siffatto intervento legislativo distinguendolo da innovazioni di segno negativo, tra tutte l’aver equiparato i delitti di mafia a quelli di corruzione con consequenziale estensione applicativa delle misure di prevenzione patrimoniali ai reati contro la pubblica amministrazione. Si veda, in tal senso, C. VISCONTI, Codice antimafia: luci e ombre della riforma, in Dir. pen. proc., n. 2, 2018; cfr. anche M. ROMANO, La l. 17 ottobre 2017, n. 161 e l’amministrazione giudiziaria dei patrimoni sottratti al crimine: una risposta, non sempre adeguata, alla richiesta di intervento legislativo, in Proc. pen. giust., n. 2, 2018, PERONACI Dalla confisca al controllo giudiziario delle aziende: il nuovo volto delle politiche antimafia. I primi provvedimenti applicativi dell’art. 34-bis D.lgs. 159/2011.
.
[69] Per un completo esame sul connotato dell’agevolazione occasionale si veda il contributo di R. DELFINO, M. GERACI, S. RINALDO, E. SQUILLACI, Dossier. Art. 34-bis d.lgs. 159/2011 Il controllo giudiziario delle aziende, febbraio 2018, reperibile su: http://www.cerpec.unirc.it/wp-content/uploads/2018/02/Dossier-art.-34-bis.pdf, dove gli Autori precisano come il requisito menzionato sia destinato a marcare il preciso ambito applicativo del controllo giudiziario rispetto all’amministrazione giudiziaria, il quale «troverà spazio allorquando il contributo agevolatore abbia carattere isolato e discontinuo, ma cionondimeno presenti una efficacia causale rispetto al rafforzamento dell’altrui attività illecita comunque apprezzabile, alla stregua di una ragionevole valutazione prognostica che tenga conto anche degli altri indici fattuali previsti dalla disposizione de qua».
[70] Si veda la Relazione della Commissione ministeriale incaricata di elaborare una proposta di interventi in materia di criminalità organizzata, istituita con D.M. 10 giugno 2013, presieduta dal Prof. G. Fiandaca, 2014, 13, consultabile su www.dirittopenalecontemporaneo.it.
[71] Per una prima applicazione dell'articolo 34 bis del codice antimafia si vedano i decreti tribunale di Reggio Calabria sezione misure di prevenzione numero 47 2018 numero 10 2018 numero 15 del 2018 e numero 18 del 2018, tribunale di Catanzaro sezione misure di prevenzione numero quattro del 2018
[72] Si legge nella sentenza “Ritiene il Collegio, in linea con quanto opinato dal Consiglio di Stato, che il decreto di ammissione della -OMISSIS- alla procedura di cui all’art. 34 bis del d. lgs. n. 159 del 2011, non risulti idoneo a modificare il giudizio in ordine alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione nella società sottesa ai provvedimenti impugnati: “in primo luogo il controllo giudiziario che permette la prosecuzione dell’attività imprenditoriale sotto controllo giudiziario non ha effetti retroattivi ed in secondo luogo perché non costituisce un superamento dell’interdittiva, ma in un certo modo ne conferma la sussistenza, con l’adozione di un regime in cui l’iniziativa imprenditoriale può essere ripresa per ragioni di libertà di iniziativa e di garanzia dei posti di lavoro, sempre naturalmente in un regime limitativo di assoggettamento ad un controllo straordinario” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2018, n. 3268). Vero è che l’art. 34bis del codice antimafia ammette la procedura in discorso quando i pericoli di infiltrazione comportino solo “in via occasionale l’agevolazione dell’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata” una misura antimafia, ma una tale valutazione non incide sulla sussistenza dei pericoli stessi attenendo unicamente alla possibilità di consentire, -OMISSIS- pure in via provvisoria, la prosecuzione dell’attività economica. In altri termini la misura del controllo giudiziario costituisce un tentativo di salvaguardare, con le necessarie cautele, le realtà produttive che, per quanto incise da tentativi di infiltrazione mafiosa, manifestino un grado di autonomia gestionale (dalle consorterie criminali) non ancora totalmente compromesso e, anzi, sufficiente a consentirne un’attività economica corretta -OMISSIS- pure in forma “controllata”, sforzandosi in tal modo il Legislatore di conservare, per quanto possibile, realtà produttive che, soprattutto nelle zone in cui esistono i fenomeni associativi criminali più eclatanti, possano costituire rimedio all’assenza di credibili opportunità occupazionali. In tale ottica non può certo opinarsi dall’ammissione alla procedura in discorso un superamento ovvero una qualche forma di attenuazione del giudizio formulato dalla Prefettura con l’informativa, come vorrebbe parte ricorrente; invece l’ammissione alla procedura in discorso attesta solo la presenza di un procedimento che gemma da quello che ha condotto all’adozione dell’interdittiva, presupponendolo, e che risponde al fine di verificare se l’impresa che ne è attinta non -OMISSIS- strutturalmente compromessa con la criminalità organizzata e se ne possa, quindi, consentire un regime di “operatività controllata”; Si veda anche la recente circolare del Gabinetto del Ministero dell’Interno n. 11001/119/20(8) del 2 novembre 2018.
[73] Merita di essere menzionata tal proposito la circolare del 22 marzo 2018 del Ministero dell’Interno (n. 11001/119/20), secondo la quale è doverosa per il Prefetto l’iscrizione nella white list richiesta dall’azienda destinataria di informazione interdittiva che abbia impugnato il relativo provvedimento ed ottenuto dal Tribunale competente per le misure di prevenzione l’applicazione del controllo giudiziario di cui alla lett. b) del comma 2, dell’art. 34-bis. Se, infatti, la consultazione dell’elenco è la modalità obbligatoria attraverso la quale deve essere acquisita la documentazione antimafia per le attività a rischio, un eventuale rifiuto dell’iscrizione finirebbe con il vanificare la sospensione disposta dal Giudice, la cui finalità è proprio quella di incentivare l’adesione spontanea dell’impresa a questo nuovo strumento di autodepurazione dalle infiltrazioni criminali consentendole di continuare ad operare nei rapporti con la pubblica amministrazione.
Nella circolare si rileva infatti che “Il primo degli aspetti per i quali viene sollecitato un chiarimento riguarda l’interpretazione del comma 7 della suddetta disposizione laddove statuisce che dal provvedimento che dispone il controllo giudiziario deriva la sospensione della documentazione antimafia impugnata. In particolare, si chiede di conoscere se l’impresa che beneficia della suddetta sospensione ha anche il diritto di ottenere l’iscrizione negli elenchi dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa. Al riguardo, si osserva preliminarmente che le c.d. “white list” sono un istituto codificato con la legge 6 novembre 2012, n. 190 (art. 1, commi 52-56). Pur con le dovute differenze di procedimento, legate alla sua natura ad istanza di parte, l’iscrizione negli elenchi prefettizi presuppone un’istruttoria il cui oggetto sostanziale di indagine è il medesimo delle informazioni antimafia, cioè la verifica dell’assenza di cause preclusive ex art. 67, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, e l’insussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 84 del medesimo Codice antimafia. Come è noto, per effetto del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, poi convertito con legge 11 agosto 2014, n. 114, la suddetta iscrizione, pur conservando formalmente la primigenia natura volontaria, è divenuta di fatto adempimento necessitato attraverso il quale viene accertata, nei confronti dei soggetti che operano nei settori “sensibili”, l’assenza di motivi ostativi ai fini antimafia. Inoltre, l’iscrizione nell’elenco “tiene luogo della comunicazione e dell’informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per le quali essa è stata disposta” (art. 1, comma 52-bis, legge n. 190/2012). Fatta questa premessa, si ritiene che la norma in commento debba essere interpretata nel senso di rendere doverosa per il Prefetto l’iscrizione nella white list richiesta dall’azienda destinataria di informazione interdittiva che abbia impugnato il relativo provvedimento ed ottenuto dal Tribunale competente per le misure di prevenzione l’applicazione del controllo giudiziario di cui alla lett. b) del comma 2, dell’art. 34-bis. Se, infatti, la consultazione dell’elenco è la modalità obbligatoria attraverso la quale deve essere acquisita la documentazione antimafia per le attività a rischio, un eventuale rifiuto dell’iscrizione finirebbe con il vanificare la sospensione disposta dal Giudice, la cui finalità è proprio quella di incentivare l’adesione spontanea dell’impresa a questo nuovo strumento di autodepurazione dalle infiltrazioni criminali consentendole di continuare ad operare nei rapporti con la pubblica amministrazione. Nel procedere all’iscrizione, tuttavia, sembra opportuno che il Prefetto annoti di avere così provveduto per effetto della misura adottata dal Tribunale ai sensi della norma sopra citata. Si sottolinea, altresì, la necessità di monitorare con particolare attenzione la posizione dell’impresa iscritta, alla luce non solo dell’esito dell’impugnazione proposta avverso il provvedimento interdittivo che la riguarda ma anche degli sviluppi del procedimento di prevenzione instauratosi nei suoi confronti”. Altra problematica affrontata dalla circolare è il rapporto tra l’ammissione al controllo giudiziario e il commissariamento dell’impresa previsto dall’articolo 32 comma 10 del decreto-legge numero 90 del 2014. Si legge nella circolare “Altra questione sottoposta all’attenzione di quest’Ufficio è il rapporto tra l’amministrazione disposta dal Prefetto ai sensi dell’art. 32, comma 10, del decreto-legge n. 90/2014 e la nomina per la medesima azienda dell’amministratore giudiziario, in base all’art. 34-bis, del Codice antimafia. La prima previsione configura una misura chiaramente preordinata al perseguimento di determinati interessi pubblici tassativamente elencati che vengono messi in pericolo da situazioni di contiguità o di agevolazione mafiosa ascrivibili a responsabilità dell’impresa e dei soggetti capaci di determinarne l’andamento. Si tratta di un presidio a garanzia di uno specifico contratto, quello in relazione al quale vengono in evidenza le esigenze individuate dalla norma, e non della totalità delle commesse dell’impresa all’atto dell’adozione del provvedimento. La seconda disposizione è stata inserita dalla legge n. 161/2017 nel Capo V del Codice antimafia, dedicato alle misure di prevenzione patrimoniale diverse dalla confisca. Come si è avuto modo di chiarire con circolare del 19 gennaio u.s., il controllo giudiziario non determina lo “spossessamento gestorio” ma consiste in una vigilanza prescrittiva condotta dal commissario nominato dal Tribunale al quale viene affidato il compito di monitorare all’interno dell’azienda l’adempimento di una serie di obblighi di compliance imposti dal giudice. Nell’ipotesi segnalata da codesta Prefettura, il presidio di legalità nella forma del c.d. “tutoraggio” all’azienda si fonda sul medesimo presupposto della gestione commissariale di nomina prefettizia già avviata, vale a dire la presenza di indizi di fatto rivelatori di pericoli di contiguità o di agevolazione mafiosa. Si ritiene, pertanto, che, qualora tale controllo venga disposto dal magistrato perché ritenuto adeguato alle rilevate esigenze di prevenzione in relazione alla totalità dei rapporti economici facenti capo all’azienda, determini il venir meno della misura ex art. 32, del decreto-legge 90/2014, analogamente a quanto previsto dal comma 5 della medesima norma per il caso in cui siano applicate le confisca, il sequestro o l’amministrazione giudiziaria dell’impresa. Siffatta interpretazione, del resto, è avvalorata dalla circostanza che quello riservato al Prefetto è un potere conformativo e limitativo della libertà di iniziativa economica che deve essere esercitato secondo canoni rispettosi del principio di proporzionalità. Ne discende che, se nella scala degli interventi astrattamente possibili in ragione della gravità della situazione riscontrata a carico dell’operatore economico, il Tribunale ritiene percorribile la strada del controllo giudiziario, non sembra possibile giustificare ulteriormente il mantenimento di una gestione separata “ad contractum”. Muovendo da tale assunto, tuttavia, si pone l’imprescindibile esigenza di assicurare un’adeguata interlocuzione con la magistratura procedente, finalizzata a fare emergere il patrimonio info-investigativo dal quale è scaturita la valutazione di un livello di compromissione della governance aziendale così grave da motivare la misura del commissariamento. Ancorché ciò non sia espressamente previsto, è, quindi, necessario che in tutti i casi di adozione del provvedimento in esame ne venga data notizia al competente organo giurisdizionale per le relative valutazioni, anche in ordine alla individuazione dei “soggetti interessati” alla vicenda da sentire in camera di consiglio ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6”.
[74] Il riferimento è alla ben nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, in Giur. it., 2017, 3, 580-581, e in Dir. pen. e proc., 2017, 1039 e ss., con nota di V. Maiello, De Tommaso c. Italia e la Cattiva coscienza delle misure di prevenzione, che ha criticato aspramente il sistema delle misure di prevenzione, quale previsto dall’art. 1 della l. n. 1423 del 1956, ma anche alle prime applicazioni giurisprudenziali e, in particolare, al dispositivo pronunciato dalle Sezioni Unite penali il 27 aprile 2017 in riferimento all’art. 75 del d. lgs. n. 159 del 2011, in una interpretazione “convenzionalmente” orientata di tale disposizione, sul quale v. V. Maiello, De Tommaso c. Italia, cit., 1045-1046. Al dispositivo è poi seguita la sentenza n. 40076 del 5 settembre 2017 delle Sezioni Unite. Sulla questione delle presunzioni che devono sorreggere la valutazione di pericolosità sociale, alla luce di quanto ha statuito la Corte europea dei diritti dell’uomo, v. l’ord. n. 48441 del 23 ottobre 2017 della I sez. della Cass. pen. e, in esito a tale ordinanza, la recentissima pronuncia della Cass., Sez. Un, pen., 4 gennaio 2018, n. 111, di grande rilievo sistematico, e sulla quale v., tra i primi commentatori, A. Quattrocchi, Lo statuto della pericolosità qualificata sotto la lente delle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont., fasc. 1/2018, in particolare a p. 78.
[75] Sul punto, però, occorre attentamente meditare sui dubbî espressi sulla “tenuta” del sistema della prevenzione amministrativa, per la c.d. “onda lunga” della sentenza De Tommaso anche in questo settore della legislazione antimafia, dalla dottrina penalistica più sensibile al tema, rimandandosi, in particolare, alle recenti riflessioni di V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Dir. pen. cont., 17 gennaio 2018, in particolare 23-24, e all’analisi condotta da G. Amarelli, L’onda lunga della sentenza De Tommaso: ore contate per l’interdittiva antimafia “generica” ex art. 84, co. 4, lett. d) ed e) d. lgs. n. 159/2011?, in Dir. pen. cont., 8 ottobre 2017, in particolare 11-13. Un’interessante recente applicazione dei principî affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, quanto al foglio di via obbligatorio e alla sua compatibilità con il diritto all’unità familiare di cui all’art. 8 C.E.D.U., si è avuto con la pronuncia del T.A.R. per l’Umbria, sez. I, 20 novembre 2017, n. 720, in Dir. pen. cont., 19 gennaio 2018, con nota di A. Fiori, Misure di prevenzione personali: foglio di via obbligatorio e violazione dell’art. 8 C.E.D.U.
[76] Sulla tematica v., in generale, E. Morcavallo, Contributi comunitari in agricoltura e informazione interdittiva antimafia, in Giustamm, 2013, 9.
[77] L’esigenza che il quadro indiziario debba essere corroborato attraverso la valorizzazione di specifici elementi di fatto a loro sostegno, al fine di attualizzare il giudizio circa la contiguità mafiosa, è stata fortemente sottolineata, di recente, proprio dalla sopra richiamata sentenza della Cassazione, Sez. Un., 4 gennaio 2018, n. 111, sulla quale v. A. Quattrocchi, Lo statuto della pericolosità qualificata, cit., 78. Mostra scetticismo sulla razionalità dell’intero sistema antimafia F. G. Scoca, Razionalità e costituzionalità della documentazione antimafia, cit., 13-14, auspicando un sindacato del giudice amministrativo penetrante sulle misure in questione, sindacato che, per quanto si è visto, la giurisprudenza del Consiglio di Stato più recente si propone di assicurare nella tutela effettiva delle situazioni giuridiche soggettive incise da tali misure.
[78] V., sul punto, M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa, cit., 56.
[79] Il Tar Campania sede di Napoli con la sentenza sezione 1^ 14 febbraio 2018 n. 1017 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 84, comma 4, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 nella parte in cui, individuando i presupposti per l’emissione dell’informativa interdittiva, si porrebbe in contrasto con l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale 1 alla CEDU. Ha affermato il Tar che l’informativa interdittiva antimafia è oggettivamente insuscettibile di comprimere la libertà fondamentale di circolazione né il diritto fondamentale di proprietà, parzialmente) incidendo, piuttosto, sulla libertà di iniziativa economica, la quale non trova, però, specifica tutela nella CEDU, mentre è contemplata dall’art. 41 Cost. Ha osservato ancora il Tar che la formula ‘elastica’ adottata dal legislatore nel disciplinare l’informativa interdittiva antimafia su base indiziaria riviene dalla ragionevole ponderazione tra l’interesse privato al libero esercizio dell’attività imprenditoriale e l’interesse pubblico alla salvaguardia del sistema socio-economico dagli inquinamenti mafiosi, dove il primo, siccome non specificamente tutelato dalla CEDU né riconducibile alla sfera dei diritti costituzionali inviolabili, si rivela recessivo rispetto al secondo, siccome collegato alle preminenti esigenze di difesa dell’ordinamento contro l’azione antagonistica della criminalità organizzata. Ha aggiunto che tale formula ‘elastica’ riflette l’obiettivo di apprestare all’autorità amministrativa statale competente strumenti di contrasto alle organizzazioni malavitose, tanto più efficaci, quanto più adattabili – in virtù di apprezzamenti discrezionali modulabili caso per caso – ai peculiari fenomeni proteiformi, occulti, impenetrabili e pervasivi di infiltrazione mafiosa nelle imprese operanti nel mercato, potenzialmente destinate a instaurare rapporti negoziali con la pubblica amministrazione. A dimostrazione della compatibilità dell’istituto dell’informativa interdittiva antimafia ex artt. 84, comma 4, lett. e, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 rispetto alle garanzie fondamentali della persona, del suo patrimonio e della sua attività imprenditoriale, sancite dalla CEDU e/o della Costituzione – militano le seguenti considerazioni, formulate da Cons. St., sez. III, n. 565 del 2017, n. 672 del 2017, n. 1080 del 2017 e n. 1109 del 2017, sia pure con riguardo alla distinta questione di legittimità costituzionale dell’art. 89 bis, d.lgs. 159 del 2011 (ritenuta infondata da Corte cost. n. 4 del 2018, a conferma dell’indirizzo già invalso nella giurisprudenza amministrativa).