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28/03/2019 - Diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore: limiti e conseguenze

tratto da altalex.com

Diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore: limiti e conseguenze

Di Teresa Mele - Professionista - Avvocato - Pubblicato il 27/03/2019

Ogni singolo cittadino ha il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Tale diritto trova fondamento e riconoscimento nella nostra Costituzione, all’articolo 21. Non solo, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha definito la libertà di espressione il fondamento della società democratica.

Tale principio trova applicazione anche in ambito lavorativo all’articolo 1 dello Statuto dei lavoratori, che però afferma la necessità di contemperare tale libertà al rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello statuto medesimo.

In particolare, l’esercizio del diritto di critica trova un limite nel dovere di fedeltà nei confronti del datore di lavoro ex art. 2105 c.c., obbligo che va inteso in senso ampio, posto che non attiene solo agli aspetti patrimoniali del rapporto, e dunque al divieto di conflitto di interessi o di concorrenza, ma anche ai più generali canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto tra le parti.

Si tratta di aspetti che attengono all’inserimento del lavoratore nella struttura e nella organizzazione dell’impresa e che si riverberano, inevitabilmente, sul funzionamento della stessa: essi, se violati, possono ledere il vincolo fiduciario sul quale si fonda il rapporto di lavoro.

Il compito entro cui, nel corso degli anni, si è dovuta cimentare la giurisprudenza è risultato sicuramente difficile perché il confine tra il legittimo esercizio di tale diritto e la lesione del vincolo fiduciario non è di facile percezione: tuttavia la strada percorsa si è rivelata fruttuosa e ha permesso di acquisire oggettivi strumenti di valutazione.

Nella sentenza n. 1173/1986 della suprema Corte si trova ben riassunto il punto di approdo interpretativo: «Il comportamento del lavoratore, consistente nella divulgazione di fatti ed accuse, ancorché vere, obiettivamente idonee a ledere l'onore o la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica, quale espressione del diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, e può configurare un fatto illecito, e quindi anche consentire il recesso del datore di lavoro ove l'illecito stesso risulti incompatibile con l'elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto, qualora si traduca in una condotta che sia imputabile al suo autore a titolo di dolo o di colpa, e che non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell'esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell'indicata lesione».

Muovendo da ciò, nel corso degli anni, la giurisprudenza della suprema Corte è arrivata a individuare limiti esterni e limiti interni del diritto di critica del lavoratore, ove per limite esterno si deve appunto intendere che l’esercizio del diritto deve essere volto al soddisfacimento di un interesse giuridicamente rilevante (non meno di quello del bene asseritamente leso).

I limiti interni sono costituiti, invece, dalla continenza sostanziale e da quella formale, ove per la prima si intende che i fatti narrati/denunciati dal lavoratore, e suscettibili di arrecare danno al datore di lavoro, devono rispondere a criteri di veridicità, e per la seconda che l’opinione espressa, anche in modo polemico, non deve mai esulare da parametri di correttezza, desumibili dal vivere civile.

Il lavoratore deve, pertanto, valutare attentamente i fatti, alla luce delle conoscenze in suo possesso, prima di esternarli.

Con la sentenza n. 1379 del 18.01.2019, la Cassazione afferma che la critica avanzata da un lavoratore nei confronti del proprio datore sfocia in un illecito disciplinare laddove la stessa non rispetti i requisiti della verità, continenza e pertinenza.

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Il caso sottoposto all’attenzione della Cassazione vede un lavoratore impugnare giudizialmente il licenziamento disciplinare irrogatogli per aver inviato alla stampa locale una lettera in cui accusava i dirigenti della società datrice di lasciare inutilizzato un mezzo del valore di 300.000,00 € al fine di favorire delle ditte esterne.

La Cassazione afferma, preliminarmente, che, nell'ambito del rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 1 della L. 300/1970, tutti i dipendenti hanno il diritto di manifestare liberamente, nel rispetto dei principi della Costituzione, il proprio pensiero sul luogo di lavoro anche attraverso l’utilizzo di espressioni critiche nei confronti della parte datoriale, sebbene il vincolo di subordinazione imponga al prestatore obblighi di fedeltà e collaborazione.

Secondo i Giudici di legittimità, l'esercizio del diritto di critica dei lavoratori nei confronti del datore è lecito in quanto espressione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, ex art. 21 Cost., ma incontra un limite nella tutela dell'onore, della reputazione e del decoro del datore stesso, garantita dall’art. 2 Cost.

Per la sentenza, dunque, la critica manifestata dal lavoratore all'indirizzo del datore può trasformarsi da esercizio lecito di un diritto in una condotta astrattamente idonea a configurare un illecito disciplinare laddove superi i limiti posti a presidio della dignità della persona umana. 

La predetta critica deve, quindi, rispettare i canoni della continenza - sia sostanziale (i fatti narrati devono corrispondere a verità) che formale (l'esposizione della critica deve avvenire con correttezza e civile rispetto della dignità altrui) - e della pertinenza (rispondenza della critica ad un interesse meritevole in confronto con il bene suscettibile di lesione).

Conclusivamente, la Suprema Corte afferma che, qualora anche solo uno dei predetti limiti venga travalicato, la critica avanzata dal lavoratore assume l'attitudine ad integrare un illecito disciplinare che porta, però, all’irrogazione della massima sanzione espulsiva soltanto nel caso in cui provochi una irrimediabile lesione del vincolo fiduciario.

(Altalex, 27 marzo 2019. Articolo di Teresa Mele)

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