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21/03/2019 - Pasto da casa, vicenda non ancora conclusa: chiamate ad esprimersi le sezioni unite della Cassazione

tratto da quotidianopa.leggiditalia.it

Pasto da casa, vicenda non ancora conclusa: chiamate ad esprimersi le sezioni unite della Cassazione

di Amedeo Di Filippo - Dirigente comunale

In principio è stato il Tribunale di Torino, che ha rigettato il ricorso di alcuni genitori sulla base della considerazione che il servizio di refezione scolastica è un servizio locale a domanda individuale che l'ente non ha l'obbligo di istituire ed organizzare ed è facoltativo per l'utente che può, quindi, scegliere di non avvalersene.

La Corte d'Appello ha capovolto il giudizio sulla base della constatazione che anche il "tempo mensa" è diventato un diritto soggettivo perfetto perché è compenetrato allo stesso diritto all'istruzione, talché la consumazione del pasto alternativo deve avvenire a scuola, anche se al di fuori della refezione scolastica.

Giudizio poi fatto proprio dal Tribunale di Torino con l'ordinanza n. 20984 del 13 agosto 2016, secondo cui, poiché l'alternativa di imporre il digiuno agli studenti che non vogliano fruire della mensa scolastica è manifestamente irragionevole e impraticabile, l'unica possibilità è quella di riconoscere loro il diritto di consumare a scuola un pasto preparato a casa.

A tali orientamenti si è conformato il Miur con la nota prot. 348 del 3 marzo 2017, che ha raccomandato di non discostarsi dalle sentenze al fine di escludere ogni profilo di responsabilità individuale e ha invitati i direttori degli Ufficio scolastici regionali a riservare ogni attenzione e garantire le condizioni igienico-sanitarie e il diritto alla salute, facendo in modo che vengano accuratamente evitate possibilità di scambio degli alimenti, col rischio di eventuali contaminazioni del cibo, adottando le medesime soluzioni e precauzioni utilizzate allorquando vengono somministrati i pasti c.d. "speciali", dedicati cioè a diete particolari per motivi di salute, religiosi, di scelte etiche.

E' poi intervenuto il Tar Campania con la sentenza n. 1566 del 13 marzo 2018, che ha annullato il regolamento del servizio di refezione scolastica adottato dal Comune di Benevento nella parte in cui lo rende obbligatorio a tutti gli alunni, imponendo che la mancata iscrizione comporta l'obbligo per il genitore di prelevare il minore per il tempo necessario alla refezione e riaccompagnarlo all'inizio dell'orario delle attività pomeridiane.

La quinta sezione del Consiglio di Stato ha respinto l'appello con la sentenza n. 5156 del 3 settembre 2018, evidenziando l'incompetenza assoluta del Comune nell'imporre prescrizioni ai dirigenti scolastici e la limitazione che le norme regolamentari producono verso una naturale facoltà dell'individuo, afferente alla sua libertà personale, vale a dire la scelta alimentare che, salvo non ricorrano dimostrate e proporzionali ragioni particolari di varia sicurezza o decoro, è per sua natura e in principio libera sia dentro che fuori casa e per questo può essere contenuta solo qualora sussistano dimostrate e proporzionali ragioni inerenti opposti interessi pubblici o generali, che il regolamento comunale nel caso specifico non manifesta.

Il ricorso del Comune

Pensavamo che il Consiglio di Stato avesse messo la parola fine alla questione, sancendo la libera determinazione delle famiglie. Ma non è così. La vicenda inaugurata dal Tribunale di Torino non è finita con l'appello, ma è andata dritta in Cassazione, i giudici non hanno però trovato una soluzione, rimettendo il tutto alle sezioni unite.

Il ricorso alla Suprema Corte è stato proposto in via principale dal Comune di Torino e in via incidentale dal Miur. Il primo ha argomentato che la nozione di "mensa scolastica" (e quindi il "tempo mensa") non è un generico consumo in ambito scolastico di cibo preparato individualmente ma servizio pubblico organizzato dall'amministrazione comunale, a domanda individuale, mediante l'erogazione di pasti collettivi confezionati secondo regole predefinite in locali igienicamente idonei. Di conseguenza, non potrebbe predicarsi l'esistenza di un obbligo dell'amministrazione di apprestare mezzi e risorse per consentire agli alunni che non si avvalgono del servizio mensa di consumare, nei locali della scuola, cibi non somministrati dal gestore del servizio di refezione scolastica.

Il Comune poi critica la configurazione di un diritto soggettivo degli allievi di introdurre cibo preparato individualmente nei locali scolastici, da consumare nell'orario destinato alla mensa comune, senza considerare la normativa di settore, la quale distingue il "tempo scuola" (obbligatorio e facoltativo) dall'eventuale "tempo mensa" che è escluso dal primo, né che l'offerta formativa comprensiva del servizio mensa è elaborata dalle scuole e condivisa dalle famiglie e la sua attuazione sarebbe pregiudicata se si ammettesse la possibilità di introdurre varianti individuali. Inoltre, la funzione pedagogica del "tempo mensa" è predicabile solo in termini di ristorazione collettiva nel contesto di un'offerta formativa a tale scopo organizzata.

In più lamenta la mancata considerazione che l'esercizio del diritto di consumare il pasto domestico nelle scuole e nell'orario destinato alla refezione comporta specularmente l'obbligo di facere nei confronti della pubblica amministrazione e l'adozione di misure organizzative specifiche, interferendo nella libertà di autodeterminazione delle istituzioni scolastiche.

Senza contare che l'introduzione di vari e differenziati pasti domestici nei locali scolastici inficia il diritto degli alunni e dei genitori alla piena attuazione egualitaria del progetto formativo comprensivo del servizio mensa, con rischi di violazione dei principi di uguaglianza e di non discriminazione in base alle condizioni economiche, oltre che del diritto alla salute, tenuto conto dei rischi igienico-sanitari di una refezione individuale e non controllata.

La posizione del Miur

Il Ministero propone due ulteriori motivi. Col primo rileva che il vigente ordinamento scolastico non prevede un "diritto al tempo pieno" ma la facoltà delle scuole di attuare, nella loro autonomia e compatibilmente con le disponibilità di organico e in presenza delle necessarie strutture, il tempo pieno e il tempo prolungato, essendo il "tempo mensa", pur compreso nel "tempo scuola", distinto dall'attività didattica e non obbligatorio.

Prevede inoltre una pluralità di modelli organizzativi, tutti ugualmente idonei a garantire il diritto all'istruzione, in cui il tempo pieno costituisce solo un'opzione discrezionale che le istituzioni scolastiche hanno la facoltà di attivare e le famiglie di scegliere ma, una volta operata la scelta, le famiglie hanno l'obbligo di aderire al progetto formativo prescelto, così come proposto e organizzato dalla scuola, in tutti i suoi elementi, incluso il "tempo mensa" che ne costituisce parte integrante, previo pagamento di un contributo che si giustifica trattandosi di prestazione aggiuntiva e facoltativa.

Col secondo motivo chiede di valutare le controindicazioni sanitarie e che nel servizio di refezione scolastica l'aggiudicatario della gara di appalto si obbliga al rispetto dei capitolati tecnici definiti dal committente ed è responsabile dei prodotti somministrati agli alunni, oltre a gestire i locali destinati alla refezione. Sicché Il pasto portato da casa e consumato in locali pubblici pone il problema dell'individuazione del responsabile della sicurezza dei prodotti ed espone il gestore del servizio a responsabilità per pericoli non direttamente gestiti.

Il consumo del pasto individuale poi si risolve in una prestazione gratuita per i beneficiari ma onerosa per la collettività e, in particolare, per l'amministrazione che dovrebbe sostenere i relativi costi organizzativi e, in definitiva, per le famiglie che pagano il contributo per il servizio mensa di cui si avvalgono.

Le considerazioni della Cassazione

La Suprema Corte si trova a valutare la pretesa dei genitori di accertare il diritto, ritenuto inviolabile, alla autorefezione nell'orario e nei locali adibiti alla mensa scolastica, ancorato agli artt. 34 (in tema di istruzione pubblica), 32 (interpretato come fonte di libertà nelle scelte alimentari), 35 (in tema di tutela dei genitori lavoratori) e 3 Cost. (principio di uguaglianza). La questione si dipana intorno alla considerazione che, se il "tempo mensa" costituisce un momento importante di condivisione e socializzazione che rientra nell'orario scolastico annuale ("tempo scuola"), si dovrebbe riconoscere anche il diritto degli alunni di portare cibi da casa e consumarli a scuola, senza costringerli a usufruire del servizio di mensa scolastica che quale altrimenti da facoltativo, attivabile a domanda individuale, diventerebbe obbligatorio.

Secondo il Comune e il Miur, invece, non è configurabile un diritto soggettivo degli alunni che optano per il tempo pieno di portare e di consumare a scuola cibi propri, in quanto il "tempo mensa" è sottratto all'obbligo di frequenza scolastica e coincidente col servizio di refezione scolastica, la cui fruizione è espressione di una facoltà delle famiglie. L'eventuale accertamento del diritto andrebbe ad incidere direttamente e impropriamente sulle modalità di organizzazione del servizio di refezione scolastica, peraltro con oneri aggiuntivi relativi a organizzazione, pulizia e manutenzione dei locali, personale adibito al servizio.

Busillis che la sezione non riesce a dipanare e che rimette alle sezioni unite, nella seguente formulazione: se sia configurabile un diritto soggettivo perfetto dei genitori degli alunni delle scuole elementari e medie, eventualmente quale espressione di una libertà personale inviolabile, il cui accertamento sia suscettibile di ottemperanza, di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica e il pasto portato da casa o confezionato autonomamente e di consumarlo nei locali della scuola e comunque nell'orario destinato alla refezione scolastica, alla luce della normativa di settore e dei principi costituzionali, in tema di diritto all'istruzione, all'educazione dei figli e all'autodeterminazione individuale, in relazione alle scelte alimentari.

Cass. civ. Sez. I, Ord., 11 marzo 2019, n. 6972

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