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17/05/2019 - La tutela del diritto alla salute nella dialettica tra G.A  e A.G.O.

tratto da giustizia-amministrativa.it

La tutela del diritto alla salute nella dialettica tra G.A  e A.G.O.

Giancarlo Coraggio - Giudice Corte costituzionale
 
La tutela del diritto alla salute nella dialettica tra G.A  e A.G.O.
Relazione Tar Napoli 9 maggio 2019
1.− Per affrontare il tema del riparto di giurisdizione in materia di diritto alla salute – è questo in sostanza l’argomento che mi è stato assegnato – occorre prendere le mosse da due famose sentenze delle Sezioni unite della Cassazione risalenti al lontano 1979 (la n. 1463 e la n. 5172); il che la dice lunga sull’immobilismo della giurisprudenza delle sezioni unite e sulla insensibilità ai profondi mutamenti sociali, prima ancora che giuridici, avvenuti nel frattempo.
Come è noto queste sentenze, innovando sulla giurisprudenza precedente, hanno affermato che il diritto alla salute è un diritto non suscettibile di “degradazione” ad opera del potere amministrativo e che pertanto, a fronte di un intervento dell’autorità in “carenza di potere”, si è in presenza della lesione di un diritto che deve essere portata dinanzi al giudice ordinario e non a quello amministrativo.
Ebbene, per dimostrare quanto poco questa affermazione (a prescindere dal profilo strettamente dogmatico su cui tornerò in seguito) sia in consonanza con la realtà odierna basti citare una relativamente recente sentenza della Corte costituzionale, scritta tra l’altro da un eminente costituzionalista quale, è Gaetano Silvestri, (la n. 85 del 2013) secondo cui “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe «tiranno» nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.
Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute […]. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. […] Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”.
Da questa motivazione emerge innanzi tutto la sconfessione espressa dell’indirizzo della Cassazione: il diritto alla salute non è affatto insensibile al bilanciamento con altri valori e diritti e in relazione alle esigenze di questi ultimi ben può essere oggetto di limitazioni, e quindi, per esprimersi nella terminologia della cassazione, ben può essere “degradato”. Ed emerge quindi come in tali vicende, lungi dal ricorrere un caso di “carenza di potere”, il potere c’è, e nella sua forma più tipica di potere discrezionale; una discrezionalità che, nel caso di specie, faceva capo al legislatore, ma che va pure riconosciuta all’autorità amministrativa, se investita del compito di procedere essa alla ponderazione degli interessi sottesi ai valori, secondo l’espressione gianniniana (alludo a Massimo Saverio Giannini), entrata da tempo a far parte del lessico delle sentenze amministrative.
Né si tratta di affermazioni nuove e rivoluzionarie, poiché, al contrario, la sentenza si limita ad esprimere con la chiarezza e la brillantezza proprie dell’estensore concetti entrati da tempo a far parte della giurisprudenza costituzionale.
2.− Peraltro questa sentenza ci dice ben altro e apre uno squarcio sull’ampio scenario dei diritti assoluti che, soprattutto grazie alla giurisprudenza costituzionale – ma non solo –, si è andata costruendo dagli ormai lontani anni 80’ in poi.
Non a caso un altro autorevole componente, e poi Presidente della Corte, Paolo Grossi, qualifica questo Istituto come giudice dei diritti, riconoscendogli il merito, ma anche assegnandogli il compito, di elaborare attraverso una interpretazione evolutiva della Costituzione un nuovo e ampio spettro di diritti assoluti, diritti che, inevitabilmente destinati a un contatto, non si escludono né si combattono ma che comportano la ricerca di continui punti di equilibrio ad opera della giurisprudenza.
3.− Molti di questi diritti, come è emerso ormai da tempo (basti ricordare uno studio di Franco Modugno: “I nuovi diritti nella giurisprudenza costituzionale” dei primi anni 90’), si presentano sotto un duplice aspetto. Anzitutto, evidentemente, come diritti fondamentali assoluti, che si impongono come limite, nei sensi e nei termini prima precisati, all’incisione da parte dell’autorità come in genere di terzi. Dall’altra, si manifestano come pretesa di prestazioni nei confronti dell’amministrazione nel suo senso più ampio, e quindi come diritti sociali.
Naturalmente non è questa la sede per approfondire la natura e la portata di queste situazioni soggettive all’evidenza centrali nella Repubblica solidaristica disegnata dal nostro costituente. Nella specifica prospettiva che qui interessa, preme rilevare che nella sua prima manifestazione il diritto alla salute e in generale i diritti fondamentali hanno da tempo raggiunto un assetto stabile, in cui un ruolo determinante assume l’esistenza in essi di un “nucleo irriducibile”, (come si esprime anche la sentenza prima ricordata), di un nucleo, cioè, in cui nessun terzo e nessuna autorità in particolare può incidere.
Molto più di recente, questi diritti (quello della salute in particolare), anche nella loro manifestazione sociale, sono pervenuti ad un identico approdo.
È noto che i giudici costituzionali e amministrativi si sono trovati di fronte al problema degli oneri finanziari delle prestazioni e quindi dei limiti che discendono dalle relative disponibilità di bilancio; ed è stato per entrambe le giurisdizioni pacifico che da tali limiti non può prescindersi e che essi non sono in linea di principio contrastanti con la Costituzione e non costituiscono altrettante lesioni dei diritti (ulteriore conferma della loro “non assolutezza”). In particolare, nella giurisprudenza costituzionale il problema si è posto in occasione dei frequenti tagli apportati al finanziamento dei servizi sanitari regionali, e la Corte, pur con un certo disagio, e di frequente appellandosi al patto di stabilità (con ciò scaricando sull’Unione europea responsabilità della mala gestio finanziaria in realtà imputabile a noi) ha ritenuto che ciò non fosse lesivo di princìpi costituzionali. Ebbene, di recente (sentenza n. 169 del 2017) questa giurisprudenza è stata integrata con l’affermazione che anche per i diritti sociali esiste un nucleo irriducibile, che in questo caso è costituito dai LEA (livelli essenziali delle prestazioni di assistenza): un’affermazione importante, pur con i problemi che ne derivano (il modo di definizione dei LEA, la loro determinazione in concreto, rapporto con le autonomie regionali, etc.).
4.− In entrambe le manifestazioni del diritto, dunque, si riconosce l’esistenza di un “nucleo irriducibile”; e questo, dal punto di vista del riparto della giurisdizione, pone lo stesso tipo di problemi. A fronte di un atto che si assume incidente su tale nucleo, qual è il giudice al qual si deve portare la questione?
La soluzione adottata dalle sezioni unite è quella di ricorrere ad un altro “ferro del mestiere”: l’atto vincolato, atto a cui si ricollegherebbe una pretesa qualificabile come diritto soggettivo e non come interesse legittimo.
È ben noto che questa categoria giuridica è oggetto di un dibattito teorico che non ha trovato soluzione; e che vede, da un lato, valorizzato il fatto che la pretesa non possa non essere soddisfatta, ciò che è proprio di una situazione di diritto; dall’altra, guardando la vicenda dal punto di vista dell’autorità, si constata l’esistenza di un potere, sia pure vincolato, che qualifica automaticamente la situazione soggettiva come interesse legittimo.
Non è necessario né opportuno soffermarsi sugli argomenti a sostegno dell’una e dell’altra tesi poiché occorre riconoscere, come fa Franco Gaetano Scoca nel suo imponente studio sull’interesse legittimo, che la questione non è teorica bensì di diritto positivo  e che pertanto occorre fare riferimento alle norme; richiamo, questo, tanto più apprezzabile in un contesto in cui i giudici si sentono spesso autorizzati a  “inventarsi” il diritto (uso l’espressione di Paolo Grossi ma, me lo perdoni l’autore, in senso negativo).
Ebbene, scorrendo le due leggi base della “costituzione amministrativa” non può non rilevarsi che nel codice del processo amministrativo vi è anzitutto un articolo – il 31 – che a proposito dell’azione contro il silenzio afferma al comma 3 che “Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata”. Ed analoga è la disciplina della azione di condanna prevista nel successivo articolo 34, il quale subordina la possibilità di ottenere il provvedimento preteso alle stesse condizioni dell’articolo 31 a cui espressamente rinvia.
Quanto alla disciplina sostanziale, qui è la legge fondamentale sul procedimento amministrativo che al comma 21-octies, nel disciplinare l’annullamento degli atti amministrativi, nel comma 2 fa esplicito riferimento agli atti vincolati, escludendo in tal caso la possibilità di adottare una tale decisione; e non vi è dubbio che con tale disposizione il legislatore intenda riferirsi all’unico giudice che è in grado di assumere un tale genere di pronunce.
Nell’ordinamento, dunque, vi è una chiara scelta nel senso della valorizzazione del potere in sé e quindi del riconoscimento della giurisdizione amministrativa anche in presenza di un atto vincolato.
5.− Ricapitolando le considerazioni sviluppate fino ad ora, possiamo concludere che la strumentazione con cui le sezioni unite restringono l’area della giurisdizione amministrativa è costituita, da una parte, da un concetto dogmaticamente superato quale la degradazione (a quanto mi risulta non vedo usata la parola negli scritti dottrinali da oltre un trentennio); nonché, sul piano sostanziale, da una visione dei diritti assoluti irrealistica in quanto inconsapevole del contesto di multiple situazioni soggettive fondamentali che interagiscono fra di loro; dall’altra, da una nozione di atto vincolato contrastante col dato normativo.
6.− Tutto ciò induce ad una considerazione di carattere più generale su come il riparto di giurisdizione è stato fino ad ora gestito dalle sezioni unite: una gestione complessivamente insoddisfacente che non è riuscita a limitare i dubbi a casi quantitativamente ridotti e marginali, come sarebbe lecito attendersi dopo un secolo di giurisprudenza.
In tal modo viene messo in crisi lo stesso criterio di riparto a cui vengono attribuite colpe che in realtà sono proprie della sua attuazione. L’insoddisfazione diffusamente percepita è di tale portata da convincere una parte non secondaria della dottrina amministrativistica della necessità di ricorrere a criteri alternativi rinunciando alla stessa nozione di interesse legittimo, e ciò fino al punto che F. G. Scoca sente il bisogno di giustificare la scelta dello studio monografico su questa situazione soggettiva, di cui al contrario, come rileva lo stesso autore, nella introduzione − trovandomi totalmente d’accordo –, la dottrina italiana dovrebbe andare orgogliosa perché descrive, meglio di altre teorie elaborate in altri contesti ordinamentali, l’essenza di un rapporto che comunque ha le caratteristiche e i limiti propri della pretesa privata che si confronta con il potere pubblico.
7.− L’ampliamento della prospettiva appena accennato mi induce a considerare un altro luogo comune giurisprudenziale che, combinato con i precedenti, contribuisce a rendere continuamente incerto il riparto: alludo alla confusione fra interesse legittimo sostanziale e interessi procedimentali. È proprio la scorretta rilevanza attribuita a tali situazioni, che sono invece meramente “interne” (ancora una volta M. S. Giannini docet), combinata con la teoria giurisprudenziale dell’atto vincolato, che comporta quella frammentazione di ogni rapporto e di ogni materia in una molteplicità di casi particolari in cui giudici, foro e cittadini finiscono col perdersi.
Un caso paradigmatico al riguardo è costituito dalla concessione di contributi: a chi guarda la vicenda con occhi “ingenui” non può non apparire evidente che l’interesse sostanziale al bene della vita (quell’interesse ben noto alla Cassazione e riconosciuto con chiarezza nella sentenza n. 500 del 1999) è quello al contributo e che in tale pretesa rivolta nei confronti del potere si sostanzia il rapporto; una situazione dunque stabile e definitiva su cui non possono incidere le vicende procedimentali che su di essa si dipanano, contrariamente a quanto ritenuto dalle sezioni unite.
8.− La non confortante conclusione è che è sempre più evidente che la vocazione della cassazione è quella di giudice della legittimità, vocazione così connaturata alla sua funzione originaria da indurre ad inaccettabili – e inaccettate dalla Corte costituzionale (sentenza n. 6 del 2018) – forzature miranti a trasformare il controllo di giurisdizione, che essa è chiamata a svolgere nei confronti del giudice amministrativo e di quello contabile, nella normale giurisdizione di legittimità, anche a costo di sovvertire l’inequivocabile assetto pluralistico voluto dai costituenti.
In attesa di auspicabili – ma improbabili – riforme costituzionali che prevedano un giudice terzo dei conflitti, si deve quanto meno dedurre una integrazione delle sezioni unite con esperienza e professionalità dei due giudici “speciali”, in modo di rendere istituzionale quell’indispensabile colloquio che al livello informale non ha dato i risultati sperati; così evitando di obbligare la Corte costituzionale a svolgere il ruolo improprio di giudice dei conflitti di giurisdizione.
 
Giancarlo Coraggio
Giudice Corte costituzionale
 
Pubblicato  il 28 maggio 2019
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