09/07/2019 - L’arbitrato e la giurisdizione amministrativa: certezze acquisite e questioni aperte
L’arbitrato e la giurisdizione amministrativa: certezze acquisite e questioni aperte
ABSTRACT. La giurisdizione amministrativa e l’arbitrato presentano punti di contatto che si manifestano, principalmente, nella fase di “esecuzione” del lodo arbitrale, in conformità alle regole tipiche del giudizio di ottemperanza e, nella possibilità di deferire al giudizio arbitrale determinate controversie, la cui cognizione è affidata al giudice amministrativo. Deve dunque essere studiato se ed in quali limiti sia possibile chiedere ed ottenere l’ottemperanza dei lodi arbitrali, nonché quali vertenze, tenuto conto della consistenza della posizione soggettiva che viene in rilievo, risultino compromettibili in arbitrato in relazione alle previsioni dell’art. 12 del Codice del processo amministrativo rubricato “Rapporti con l’arbitrato”.
Sommario - 1. Il quadro generale. Due punti di incontro fra l’arbitrato e la giurisdizione amministrativa. - 2. Il giudizio arbitrale e le controversie di cui è parte una pubblica amministrazione. - 3. L’ambito oggettivo dell’arbitrato per le controversie rientranti nella giurisdizione amministrativa - 4. La tesi dominante della giurisprudenza: la formula letterale dell’art. 12 e il suo carattere eccezionale. - 5. L’ammissibilità dell’arbitrato nelle controversie attribuite alla giurisdizione amministrativa. - 6. L’orientamento giurisprudenziale favorevole alla ammissibilità dell’arbitrato su diritti soggettivi. - 7. La portata innovativa e non meramente interpretativa dell’art. 6, 2° comma, L. - 8. Le norme “speciali” sulla compromettibilità in arbitri di determinate controversie. - 9. La dubbia ragionevolezza della previsione dell’art. 12 c.p.a. - 10. La tesi della assoluta indisponibilità delle posizioni giuridiche relative all’esercizio del potere amministrativo. - 11. La tesi estensiva sostenuta da una parte della dottrina più recente: la disponibilità degli interessi legittimi. - 12. Gli accordi sostitutivi di provvedimento e la convenzione di arbitrato. - 13. Le questioni riguardanti la domanda risarcitoria per lesione di interessi legittimi. - 14. La disciplina dell’arbitrato e del suo procedimento: la tecnica del rinvio al codice di procedura civile. - 15. Le disposizioni di funzionamento del procedimento arbitrale. - 16. Le norme del Capo II riguardante gli arbitri (artt. 809-815 c.p.c.). - 17. Le disposizioni del Capo III (artt. 816-819 ter c.p.c.), riguardanti il procedimento arbitrale. - 18. Il divieto per gli arbitri di adozione di misure cautelari. La competenza del giudice togato. - 19. L’applicazione del Capo IV, relativo alla formazione del lodo, al suo deposito e alla sua efficacia (artt. 820-826). - 20. L’applicazione del Capo V (artt. 827-831 c.p.c.). Il regime di impugnazione del lodo arbitrale. - 21. L’applicabilità dell’art. 829 c.p.c. e i limiti all’impugnazione del lodo per motivi di diritto. - 22. L’applicazione del Capo VI. La prospettiva dell’arbitrato amministrato. - 23. L’eccezione di arbitrato è questione di giurisdizione o di competenza? - 24. Le norme anticorruzione in materia di composizione del collegio arbitrale, previste dalla L. n. 190/2012. - 25. Le prospettive dell’arbitrato. Il nuovo favore per gli strumenti alternativi alla giurisdizione (ADR). - 26. I persistenti possibili ostacoli alla futura espansione dell’arbitrato nella giurisdizione amministrativa.
- Il quadro generale. Due punti di incontro fra l’arbitrato e la giurisdizione amministrativa
In base alla vigente disciplina del codice del processo amministrativo (c.p.a.), la giurisdizione amministrativa e l’arbitrato si incontrano in due distinti momenti:
A) Il primo attiene alla fase di “esecuzione” del lodo arbitrale, in conformità alle regole tipiche del giudizio di ottemperanza (art. 112, 2° comma, lett. e);
B) Il secondo riguarda la possibilità di deferire al giudizio arbitrale determinate controversie, la cui cognizione è affidata alla giurisdizione amministrativa (art. 12, il quale, in modo assai significativo è espressamente rubricato “Rapporti con l’arbitrato”).
Nella prima ipotesi, quindi, la giurisdizione amministrativa, nella peculiare forma dell’“esecuzione”, che consente l’esercizio di poteri e di cognizione estesi “al merito”, costituisce il completamento della tutela offerta dal giudizio arbitrale e si colloca a valle di tale procedimento di cognizione.
Nella seconda ipotesi, invece, il giudizio arbitrale rappresenta un’“alternativa” alla giurisdizione amministrativa, esercitata dal giudice togato inserito nel complesso T.A.R.-Consiglio di Stato.
Il primo tema, relativo all’“ottemperanza” dei lodi arbitrali, seppure largamene dibattuto in un recente passato, presenta, allo stato, minori problemi applicativi, ma evidenzia una significativa portata sistematica, per comprendere l’attuale fisionomia dell’arbitrato e della sua natura giuridica[1].
Il c.p.a., infatti, all’art. 112, ha inteso recepire esplicitamente l’orientamento interpretativo all’epoca prevalente, che, superando alcune iniziali resistenze, aveva progressivamente esteso il rimedio dell’ottemperanza anche ai lodi arbitrali.
Secondo l’art. 112, 2° comma, lett. e), “2. L’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione:
(...);
e) dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato.”.
Verso questa soluzione ampliatrice si erano posti due argomenti convergenti, correlati:
I) alla naturale e complessiva espansione degli strumenti esecutivi offerti dal processo amministrativo, nel quadro della piena affermazione del principio di effettività della tutela;
II) alla riconosciuta valenza giurisdizionale della decisione arbitrale, necessariamente equiparata agli effetti di una “sentenza”, emessa dal giudice togato, almeno nel caso in cui il lodo sia provvisto del prescritto decreto di esecutività. Ora, l’art. 824 bis c.p.c., dispone con nettezza che “salvo quanto disposto dall’art. 825, il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”, benché, per la sua esecuzione, sia necessario completare il procedimento diretto all’accertamento della “sua regolarità formale”, previsto dall’art. 825 c.p.c.
Nel regime antecedente al codice di rito, la giurisprudenza amministrativa aveva adottato, inizialmente, una linea in prevalenza contraria all’utilizzo del giudizio di ottemperanza per l’arbitrato, in forza della tradizionale qualificazione formale del lodo come “atto negoziale”[2], non equiparabile alla sentenza del giudice ordinario, nemmeno nei casi in cui fosse stata completata la procedura di exequatur.
Tale indirizzo è stato poi gradualmente mutato da una giurisprudenza successiva, che ha ritenuto la pronuncia scaturita dall’arbitrato rituale pienamente paragonabile alla sentenza del giudice[3].
Particolare interesse può destare, sul piano dogmatico, il puntuale riferimento, contenuto nella norma codicistica, al “giudicato”, quale effetto scaturito del lodo arbitrale esecutivo: l’equiparazione della pronuncia arbitrale, munita del decreto di esecutività, alla sentenza del giudice statale risulta, in questo modo, ulteriormente rafforzata.
Un accurato inquadramento della previsione contenuta dall’art. 112 è compiuto dal Consiglio di Stato, con particolare riguardo all’ammissibilità dell’ottemperanza di un lodo arbitrale che si limiti all’accertamento del diritto dell’istante, senza alcuna statuizione di esplicita condanna[4]. Nel caso in esame, secondo il Consiglio di Stato, occorre verificare la concreta portata conformativa del provvedimento da eseguire. L’azione di ottemperanza può essere esperita anche in assenza di un dispositivo tecnicamente di condanna, qualora il lodo contenga comunque un accertamento, inteso quale riconoscimento dei presupposti della pretesa del privato nei confronti dell’amministrazione.
Tale statuizione impone comunque all’amministrazione l’imparziale e doveroso esercizio dei suoi compiti pubblici, nel quadro dell’art. 97 Cost. e dei principi europei della CEDU. Nel caso di specie, tuttavia, il lodo si era limitato ad accertare, genericamente, il diritto al riequilibrio del sinallagma contrattuale, senza stabilirne le modalità. Da qui la conclusione secondo cui la scelta esecutiva resta appannaggio dell’attività discrezionale dell’amministrazione e non appare perciò surrogabile in sede di ottemperanza.
- Il giudizio arbitrale e le controversie di cui è parte una pubblica amministrazione
Il secondo momento di incontro tra la giurisdizione amministrativa e l’arbitrato è correlato alla previsione dell’art. 12 c.p.a. Questa disposizione sembra orientarsi verso una direzione diversa ed opposta a quella indicata dalla norma di cui all’art. 112 c.p.a.: attraverso il deferimento della controversia all’arbitrato, il giudice amministrativo subisce una “limitazione” oggettiva del suo potere di cognizione e di decisione, tanto più evidente qualora si segua l’interpretazione dominante che ritiene la corte d’appello ordinaria competente alla cognizione dell’impugnativa avverso il lodo (vedi infra).
Questo aspetto della disciplina positiva risulta molto più complesso e problematico, sia per i suoi aspetti operativi, riguardanti l’esatta ricostruzione del disegno normativo, sia per le sue implicazioni più strettamente dogmatiche, relative alla natura dell’arbitrato e della stessa giurisdizione amministrativa, esclusiva e di legittimità[5].
Va osservato, tuttavia, che, allo stato, il fenomeno dell’arbitrato nell’ambito delle controversie rientranti nell’ambito della giurisdizione amministrativa non ha conseguito ancora una diffusione pratica apprezzabile, come è testimoniato dalla scarsissima giurisprudenza edita in materia.
Sarebbe interessante svolgere una più precisa ricognizione, anche meramente statistica, degli arbitrati effettivamente svolti in tale contesto (e, ancor prima, delle convenzioni arbitrali stipulate), anche allo scopo di comprendere le ragioni della limitata fortuna dell’istituto, in questo settore.
Ma è forse possibile indicare, ad una prima sommaria valutazione, alcune verosimili cause:
– la prevista limitazione ai soli diritti soggettivi rende oggettivamente esiguo lo spazio applicativo dell’istituto;
– tale previsione, poi, non avendo contorni sufficientemente precisi, genera incertezze di fondo sulla stessa compromettibilità della singola controversia, poiché vi è il rischio che il lodo possa essere annullato per violazione dell’art. 12 c.p.a.;
– per l’amministrazione, l’arbitrato potrebbe comportare alcune complicazioni operative, connesse al procedimento di formazione della volontà negoziale per la stipulazione del compromesso, alla scelta dell’arbitro di parte e alla gestione del contenzioso nel suo complesso, anche alla luce delle nuove prescrizioni procedimentali introdotte dalla legge anticorruzione n. 190 /2012 (vedi infra);
– per i funzionari, permane il pericolo che la scelta del procedimento arbitrale possa essere sindacata ai fini del giudizio di responsabilità (civile, penale, erariale, disciplinare, dirigenziale); rischio non dissimile da quello che scoraggia la definizione delle controversie mediante lo strumento della transazione;
– mentre il processo amministrativo è, per solito, molto ben conosciuto dall’amministrazione, il giudizio arbitrale è percepito come un procedimento più lontano dalla cultura giuridica del soggetto pubblico;
– dopo il netto favore per l’arbitrato degli anni passati, culminato con l’introduzione dell’art. 6, L. n. 205/2000, il clima politico è profondamente cambiato e il connubio arbitrato-pubblica amministrazione è visto (a torto o ragione) con sospetto;
– sul piano quantitativo, anche l’arbitrato in materia di contratti pubblici e in altri ambiti del contenzioso ordinario nei confronti della pubblica amministrazione è in costante e netta flessione;
– la recuperata crescita di efficienza e rapidità della giustizia amministrativa ha ridotto uno dei principali fattori di attrazione dell’arbitrato, costituito, normalmente, dalla maggiore velocità rispetto ai lunghissimi tempi della giustizia statale;
– i poteri di cognizione e di decisione attribuiti agli arbitri, seppure accresciuti dalla riforma del 2006, presentano ancora numerosi limiti, rispetto all’ampiezza degli strumenti della giustizia togata: si pensi alla tutela cautelare, all’istruttoria, ai poteri di cognizione e di decisione: tutte caratteristiche assai rilevanti nel giudizio in cui è parte un’amministrazione;
– da ultimo, non si può trascurare il peso delle opinioni espresse all’interno della magistratura amministrativa, piuttosto dubbiose sull’utilità del rimedio arbitrale in controversie spesso caratterizzate da notevole complessità e dalla innegabile presenza, non solo di interessi pubblici, ma anche dell’esercizio del potere amministrativo.
In linea generale, l’“ordinamento”, e non solo la prassi, ha manifestato un atteggiamento ondivago in relazione al ruolo spettante all’arbitrato nei confronti della PA. Basterebbe indicare, anche soltanto per sommi capi, la vicenda normativa riguardante l’arbitrato in materia di contratti relativi ai lavori pubblici.
In questo campo, l’arbitrato da istituto “obbligatorio” e centrale, è stato nel tempo ridimensionato, non senza oscillazioni e polemiche, fino ad assumere, nel contesto attuale, derivante dal codice n. 50/2016, la fisionomia dell’arbitrato “speciale” amministrato, destinato, però, ad una utilizzazione piuttosto limitata[6].
Di contro, l’ordinamento giuridico, nel suo complesso, segna una importante crescita dell’arbitrato comune, anche nella prospettiva più ampia della legislazione europea e nazionale, che intende favorire la composizione non giudiziaria delle liti, attraverso molteplici strumenti di ADR, quali la conciliazione, la mediazione e altri istituti. Si tratta di meccanismi giuridici che hanno natura e caratteri diversi, accomunati, però, dalla funzione “deflattiva” del contenzioso gravante sul giudice statale.
Al tempo stesso, poi, va attenuandosi la vecchia idea secondo cui la giurisdizione togata e la procedura arbitrale siano mondi separati e contrapposti, sul piano ontologico e funzionale. La tradizionale questione della “natura giuridica” del lodo si è arricchita di argomenti dialettici che sottolineano la piena “dignità” del giudizio arbitrale, ritenuto niente affatto “inferiore” alla decisione del giudice statale.
In quest’ottica, l’ipotizzata espansione dell’arbitrato nella giurisdizione amministrativa potrebbe risultare “fisiologica”, se finalizzata ad assecondare la crescente esigenza di pronta ed effettiva tutela delle parti, pubbliche e private, coinvolte nei rapporti giuridici amministrativi.
Peraltro, nonostante la sua circoscritta utilizzazione, il tema dell’arbitrato nel diritto amministrativo è ancora oggetto di un vivo interesse teorico e sistematico, alimentato dalle vicende normative degli ultimi anni, che hanno determinato, insieme alla riforma generale dell’istituto arbitrale e alla progressiva rivisitazione dell’arbitrato in materia di contratti pubblici (in relazione a controversie appartenenti, però, alla giurisdizione ordinaria), la compromettibilità del contenzioso riguardante diritti soggettivi la cui cognizione sia affidata alla giurisdizione amministrativa.
Si tratta, allora, di approfondire le due questioni essenziali della disciplina vigente, concernenti:
– l’esatto ambito oggettivo di estensione dell’arbitrato per le controversie situate nel perimetro della giurisdizione amministrativa;
– la disciplina processuale concretamente applicabile al giudizio arbitrale.
- L’ambito oggettivo dell’arbitrato per le controversie rientranti nella giurisdizione amministrativa
L’art. 12 c.p.a. è finalizzato, in primo luogo, a definire i contorni entro cui è ammesso l’arbitrato per le controversie astrattamente riconducibili alla giurisdizione amministrativa. In modo molto più schematico, attraverso la tecnica del “rinvio”, la norma intende anche delineare la disciplina applicabile.
Secondo la disposizione, rubricata “Rapporti con l’arbitrato”: “1. Le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile.”.
L’inciso “ai sensi degli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile” è stato inserito dall’art. 1, D.Lgs. n. 195/2011, decreto correttivo del c.p.a., in vigore dall’8 dicembre 2011, allo scopo dichiarato di ricondurre più chiaramente la previsione nelle coordinate di diritto comune, escludendone, o limitandone, i caratteri di specialità rispetto all’istituto generale.
Tuttavia, l’espressione, utilizzata per compiere il coordinamento con la normativa comune, non riesce a realizzare il risultato in modo soddisfacente, perché potrebbe essere intesa sia come generico richiamo alla disciplina ordinaria dell’arbitrato, opportunamente modulabile in funzione delle peculiarità della giurisdizione amministrativa, sia come rinvio puntuale e rigido, che impedisce qualsiasi adattamento o valutazione di compatibilità.
Il dubbio discende dalla notazione che la locuzione dell’art. 12, in questa parte, risulta molto diversa dal generale “rinvio esterno” di cui all’art. 39 c.p.a. Tale norma prevede che “1. Per quanto non disciplinato nel presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”: in linea di massima, quindi, l’applicazione delle norme del c.p.c. al processo amministrativo non è piena e incondizionata, ma costituisce il frutto di un’accurata valutazione interpretativa.
Ma l’art. 12 non corrisponde nemmeno alla dizione di altri articoli del c.p.a. che indicano, in modo perentorio e indiscutibile, la diretta applicazione di determinate disposizioni del c.p.c.; ad esempio, si vedano l’art. 10, 1° comma, secondo periodo: “Si applica il primo comma dell’art. 367 dello stesso codice”; e l’art. 76, 4° comma: Si applicano l’art. 276, secondo, quarto e quinto comma, del codice di procedura civile e l’art. 118, quarto comma, delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile”.
L’espressione di rinvio “ai sensi”, peraltro, non è isolata nel c.p.a., ma è presente anche nell’art. 42, 2° comma, c.p.a. (Il ricorso incidentale, notificato ai sensi dell’art. 41 alle controparti personalmente o, se costituite, ai sensi dell’art. 170 del codice di procedura civile (...) e nell’art. 50, 2° comma. In tali casi, però, non emergono le perplessità suscitate dall’art. 12. Infatti, il riferimento puntuale ad una singola disposizione del c.p.c. non lascia dubbi in ordine alla sua completa applicazione anche al processo amministrativo. Oltretutto, il rinvio riguarda la disciplina unitaria dell’attività di notificazione degli atti, che, non pone alcun problema di adattamento o di valutazione di compatibilità con il processo amministrativo.
Nell’art. 12, allora, il richiamo ad un intero blocco di disposizioni, riguardanti l’arbitrato nel suo complesso, potrebbe ragionevolmente intendersi come applicazione solo “tendenzialmente” piena delle disposizioni del c.p.c., con alcuni residui margini di adattamento alle peculiarità del processo amministrativo.
L’ambiguità del rinvio compiuto dall’art. 12 potrebbe incidere sia sulla definizione dei confini dell’arbitrato, sia sulle regole procedimentali ad esso applicabili.
Del resto, l’impossibilità di applicare pedissequamente tutti gli articoli del codice di procedura civile deriva dalla circostanza che fra le norme formalmente richiamate vi è l’art. 808 ter, riguardante l’arbitrato irrituale, evidentemente non ammesso nella giurisdizione amministrativa, in base alla indicazione dell’art. 12 c.p.a. Senza trascurare che anche altre disposizioni, tra quelle richiamate, risultano riferite, indiscutibilmente, alla sola giurisdizione ordinaria, come sarà meglio precisato infra. Ne deriva, quindi, la persistente necessità di controllare attentamente, di volta in volta, se ricorra, o meno, la necessità, per quanto esigua, di verificare la compatibilità delle norme del c.p.c. con l’assetto della giurisdizione amministrativa.
A prima lettura, la disposizione dell’art. 12 c.p.a. appare incentrata su un criterio netto e semplice: l’ambito di operatività dell’istituto arbitrale è definito in funzione della posizione giuridica di “diritto soggettivo” che forma oggetto della domanda.
La formula, poi, dovrebbe risultare perfettamente “logica” e coerente con il disegno complessivo del sistema, perché correlata ad un elemento di palese omogeneità con la corrispondente estensione dell’arbitrato per le controversie ricadenti nella giurisdizione ordinaria, la quale risulta riferita, appunto, anche essa, alla tutela dei “diritti soggettivi”.
Tale affermazione, tuttavia, potrebbe essere posta in seria discussione. L’art. 806, infatti, stabilisce che “le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge”. La disposizione, isolatamente considerata, fissa un limite negativo alla estensione dell’arbitrato, ma non indica, positivamente, che esso debba circoscriversi ai diritti soggettivi.
Oltretutto, nella prospettiva dell’ordinamento sostanziale civilistico e della correlata estensione della giurisdizione ordinaria, il catalogo delle posizioni giuridiche suscettibili di tutela risulta più articolato e complesso, senza esaurirsi nella figura del “diritto soggettivo”. Basterebbe riflettere sul tema della configurabilità degli interessi legittimi nel diritto privato e, in una cornice di più ampio respiro, sulla elasticità della figura del “diritto soggettivo” e della sua attitudine a comprendere differenziate posizioni giuridiche, quali le aspettative, gli interessi diffusi e collettivi, nonché le situazioni di fatto qualificate, come il possesso.
Tuttavia, la lettura “semplificatrice” della disposizione del codice, nella parte in cui delimita i confini dell’arbitrato mediante il riferimento ai diritti soggettivi, sembra diventata del tutto pacifica in giurisprudenza, che insiste ripetutamente sulla formulazione letterale e sulla natura “eccezionale” dell’art. 12, da interpretare sempre in modo restrittivo.
- La tesi dominante della giurisprudenza: la formula letterale dell’art. 12 e il suo carattere eccezionale.
Nella giurisprudenza è quindi dominante l’indirizzo secondo cui l’arbitrato di cui all’art. 12 deve essere limitato soltanto alle controversie relative a diritti soggettivi, senza possibilità di estendersi a interessi legittimi.
Ad esempio, si è ritenuto che la norma non si applica alle ipotesi di “interesse legittimo” o di decisione secondo equità: in considerazione della sua “natura eccezionale”, l’art. 12 c.p.a. non si riferisce ai casi nei quali la situazione giuridica azionata abbia natura di interesse legittimo oppure nei quali la clausola compromissoria demandi agli arbitri una decisione da adottare secondo equità, ciò per l’ovvia ragione che le parti non possono disporre degli interessi pubblici, coinvolti nella controversia unitamente alla situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo, nonché delle forme e modalità di tutela di quest’ultima che la legge affida inderogabilmente al giudice amministrativo[7]. Nel caso di specie, la controversia atteneva ad una posizione di interesse legittimo del ricorrente, secondo la qualificazione operata dal T.A.R., in quanto il suo oggetto era relativo all’ammissibilità dell’istanza di contributo.
Anche secondo il Consiglio di Stato, non rientra nella clausola compromissoria apposta alla convenzione tra imprenditore e Comune per regolamentare l’attività estrattiva e disciplinare gli interventi di ripristino ambientale alla scadenza della concessione mineraria in corso, la causa (pure devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) relativa alla legittimità di un atto amministrativo di pianificazione territoriale adottato dal medesimo ente locale, sebbene incidente sullo svolgimento dell’attività estrattiva, atteso che, trattandosi di controversia che investe “interessi legittimi”, non è compromettibile in arbitri[8].
Non dissimile l’affermazione secondo cui l’art. 6, 2° comma, L. 21 luglio 2000, n. 205, prevede la possibilità che le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo siano risolte mediante arbitrato rituale di diritto, mentre resta preclusa la compromettibilità in arbitri delle controversie su interessi legittimi. Nel caso di specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito di annullamento del lodo arbitrale in materia di revisione delle tariffe del servizio di illuminazione elettrica delle lampade votive del cimitero affidato in concessione, sulla base della qualificazione – non specificatamente e adeguatamente censurata da parte del ricorrente – della posizione soggettiva della concessionaria come di “interesse legittimo”[9].
Giova rammentare, poi, che, per la Cassazione, l’art. 6, 2° comma, della L. 21 luglio 2000, n. 205, deve intendersi in modo rigoroso e restrittivo[10]: la disposizione, nel prevedere che le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto, è “norma di stretta interpretazione”, posto che l’accordo delle parti, espresso nel patto compromissorio, indirettamente comporta una deroga alla giurisdizione, avendo l’effetto di affidare al giudice ordinario, in sede di impugnazione del lodo, la cognizione di controversie che, in assenza dell’arbitrato, sarebbero devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; stante il carattere “eccezionale” della citata norma, essa, in presenza di devoluzione al giudice amministrativo quale titolare esclusivo della tutela giurisdizionale, è applicabile solo quando la posizione azionata abbia consistenza di diritto soggettivo, sicché non è sufficiente la mera idoneità della pretesa a formare oggetto di transazione; ne consegue, pertanto, che l’art. 6, 2º comma, legge cit. non è applicabile quando la situazione giuridica azionata abbia natura di interesse legittimo (come in materia di revisione prezzi, finché non vi sia stato riconoscimento esplicito o implicito della revisione medesima da parte della p.a.).
- L’ammissibilità dell’arbitrato nelle controversie attribuite alla giurisdizione amministrativa.
Un’analisi più accurata dell’art. 12 c.p.a., anche attraverso l’esame del percorso storico che ha condotto alla sua attuale formulazione, tuttavia, dovrebbe determinare l’emersione di svariati problemi interpretativi.
Si deve rammentare, intanto, che la norma vigente riproduce, con alcuni importanti adattamenti, la previsione innovativa dell’art. 6, L. n. 205/2000[11].
Prima della entrata in vigore di tale ultima disposizione, si riteneva, in prevalenza, che non sarebbe stata ammissibile la devoluzione in arbitri di una controversia, sebbene vertente su “diritti disponibili”, inerenti a rapporti giuridici con la pubblica amministrazione, per il solo fatto di essere devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[12].
Molti contributi dottrinari hanno impostato in questi termini il problema della ammissibilità dell’arbitrato nella giurisdizione amministrativa prima dell’intervento legislativo portato dalla L. n. 205/2000[13].
Il principale ostacolo alla diffusione dello strumento arbitrale alle controversie che vedono coinvolta la pubblica amministrazione è stato storicamente rappresentato dal problema della asserita inderogabile e generale “indisponibilità” delle situazioni giuridiche soggettive connesse alla tutela di un interesse pubblico, nonché della ritenuta correlata “indisponibilità” del potere amministrativo.
L’orientamento giurisprudenziale contrario all’ammissibilità dell’arbitrato era condiviso da una parte della dottrina, la quale faceva notare che, diversamente ritenendo, poiché l’impugnazione di un eventuale lodo, in assenza di espresse norme di segno contrario, avrebbe dovuto essere devoluta al giudice ordinario, la risultante sarebbe stata la illogica “fuoriuscita” della controversia dalla sfera della giurisdizione amministrativa[14].
Altra parte della dottrina, in specie quella processualcivilistica, aveva espresso critiche avverso questa interpretazione, sostenendo come l’unico limite fisiologico alla devoluzione in arbitrato di una controversia sia costituito dalla “disponibilità del diritto”, non essendo decisiva la circostanza per cui si tratti di controversia affidata ad un giudice diverso da quello ordinario[15].
Secondo tale indirizzo, infatti, la scelta di deferire una materia alla giurisdizione esclusiva non incide meccanicamente sulla natura delle situazioni giuridiche, trasformandole da disponibili in indisponibili. L’unico limite al ricorso all’arbitrato deve ravvisarsi nella indisponibilità delle situazioni giuridiche controverse, ma la disponibilità dei diritti deriva dalla loro regolazione sostanziale, non dalla loro difesa giudiziale, non sussistendo una correlazione tra disponibilità di un diritto e la sua tutela[16].
- L’orientamento giurisprudenziale favorevole alla ammissibilità dell’arbitrato su diritti soggettivi.
Peraltro, prima dell’entrata in vigore della L. n. 205/2000, non erano mancate pronunzie del giudice amministrativo, che, affrontando il problema in materia di contratti accessivi a rapporti di concessione, avevano ammesso la validità della clausola compromissoria, con deroga alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quando si trattasse di questioni aventi ad oggetto situazioni di diritto soggettivo perfetto suscettibili di transazione[17].
La dottrina favorevole alla ammissibilità dell’arbitrato anche per controversie escluse dalla giurisdizione ordinaria indicava a proprio sostegno anche una risalente, ma isolata, decisione della Cassazione[18]. La controversia decisa dalla Suprema Corte aveva ad oggetto la revisione prezzi in un contratto misto tra concessione e appalto, rimessa dall’art. 4, R.D. 13 giugno 1940, n. 901 alla giurisdizione esclusiva del Ministro della Guerra. Secondo le Sezioni unite “si potrebbe obbiettare che non sono compromettibili le vertenze, per la cui risoluzione sia stato, dal legislatore, predisposto un organo giurisdizionale speciale, come nel caso attuale. Ciò non è esatto. Non esiste, né nel nostro diritto processuale, né nel nostro diritto sostanziale, un principio generale, in base al quale dovrebbe escludersi la compromettibilità delle vertenze devolute ad un organo giurisdizionale speciale”. Se peraltro detto principio non esiste, ne esiste invece uno diverso: “dall’art. 806 cod. proc. civ., per contro, si deduce un principio generale diverso; e, cioè, che sono compromettibili tutte le controversie, eccettuate quelle tassativamente indicate nell’art. 806; ed, in particolar modo, quelle non transigibili, perché relative a diritti indisponibili”.
Questa pronuncia, tuttavia, era stato presto superata dal diverso orientamento, poi consolidato delle stesse Sezioni unite, secondo cui “è inammissibile la deroga della clausola compromissoria convenzionale dalla giurisdizione speciale. La legge che questa istituisce abbraccia infatti tutta la materia: e l’organo giurisdizionale, che ne deriva funzioni e disciplina, assorbe e generalizza, nella sua essenza, anche il principio dell’arbitrato: cioè lo esclude”[19].
- La portata innovativa e non meramente interpretativa dell’art. 6, 2° comma, L. n. 205/2000.
L’art. 6, L. n. 205/2000 si pone nel solco di tale indirizzo dogmatico, il quale sosteneva che, già a diritto vigente, sarebbe stato ammesso l’arbitrato anche per le controversie assegnate alla giurisdizione amministrativa, se vertenti su diritti soggettivi disponibili. Secondo una possibile lettura, allora, il nuovo art. 6, 2° comma, avrebbe assunto una portata meramente ricognitiva del quadro esistente, correttamente ricostruito.
Tuttavia, la giurisprudenza prevalente sottolinea, invece, il carattere “innovativo” della L. n. 205/2000: la disposizione avrebbe aperto all’arbitrato, in un ambito prima precluso. Ma la norma non avrebbe carattere retroattivo, con conseguente inapplicabilità ai giudizi pendenti.
Secondo il Consiglio di Stato l’art. 6, 2° comma, L. 21 luglio 2000, n. 205, che prevede la possibilità di risolvere mediante arbitrato rituale di diritto le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, “ha portata innovativa e non retroattiva”. Pertanto, secondo la pronuncia, prima dell’entrata in vigore dell’art. 6, 2° comma, L. n. 205/2000, non potevano considerarsi impegnative per le parti le clausole compromissorie di controversie non conoscibili dal giudice ordinario e contrastanti con le norme imperative sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[20].
Il carattere innovativo e non retroattivo della riforma del 2000 è recisamente sostenuto anche dalle Sezioni unite della Cassazione[21]: in materia di concessioni di pubblici servizi (nella specie, del servizio di distribuzione del gas metano) e in riferimento alla compromettibilità in arbitri delle relative controversie, concernenti concessioni anteriori alla L. n. 205/2000, è esclusa la possibilità di ricorrere all’arbitrato, con conseguente nullità della clausola compromissoria, sussistendo la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi art. 5, L. n. 1034/1971; né può avere rilievo il sopravvenuto art. 6, 2º comma, L. n. 205/2000 (che ha introdotto anche per le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la facoltà di avvalersi di un arbitrato rituale di diritto per la soluzione delle controversie concernenti diritti soggettivi), il quale non pone una norma sulla giurisdizione, ma risolve un problema di merito, giacché, estendendo la possibilità di deferire ad arbitri le controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, investe la validità ed efficacia del compromesso e della clausola compromissoria, i quali, in base all’art. 806 c.p.c., non potevano essere stipulati; né alla suddetta norma sopravvenuta, in mancanza della espressa previsione della sua efficacia retroattiva, può essere attribuita efficacia sanante della originaria invalidità del compromesso o della clausola compromissoria stipulati durante la vigenza della L. n. 1034/1971 ed anteriormente alla entrata in vigore della L. n. 205/2000.
In seno alla giurisprudenza della Cassazione, tuttavia, si è affermato anche un indirizzo di segno diverso, che riconosce una parziale rilevanza immediata della nuova disciplina. L’art. 6 sarebbe applicabile anche ai giudizi in corso, in tutti i casi in cui lo stabilire se il lodo sia stato validamente pronunciato investa anche una questione di giurisdizione. Per effetto del principio della “giurisdizione sopravvenuta”, che limita la regola della perpetuatio iurisdictionis, quindi, la Corte d’Appello, investita dell’impugnazione del lodo, conserverebbe la potestà di decisione, in seguito alla sopravvenuta entrata in vigore della L. n. 205/2000.
In particolare, nella sentenza 12 luglio 2005 n. 14545 le Sezioni unite[22], pur ribadendo la portata innovativa della disposizione e la consequenziale irretroattività della norma hanno ritenuto che ciò, in mancanza di disposizione contraria, non valga ad “ad escluderne l’operatività nelle cause pendenti, ove sia in discussione dinanzi al giudice ordinario la validità del lodo, con cui sia stato negato ingresso al giudizio arbitrale sul rilievo dell’inerenza del dibattito a diritti tutelabili dinanzi al giudice amministrativo e della connessa invalidità del compromesso (o della clausola compromissoria) in base alla legge del tempo della sua stipulazione (art. 806 cod. proc. civ.)”.
Al riguardo, le Sezioni unite ritengono che “è da considerarsi che la questione della validità o meno del compromesso, in dipendenza della devoluzione della domanda alla cognizione del giudice ordinario ovvero del giudice amministrativo, viene sostanzialmente a coincidere, e comunque è strettamente connessa, con la questione di giurisdizione, di modo che non può non risentire del mutamento in proposito del quadro normativo, tenendosi anche conto che lo ius superveniens incide sulla sussistenza del potere-dovere della corte d’appello (giudice ordinario), ove accolga l’impugnazione per nullità del lodo, di statuire sul merito, ai sensi ed in presenza delle condizioni dell’art. 830, comma 2, c.p.c.”. Quindi, “la legge sopraggiunta, per il tramite dell’allargamento dei confini dell’arbitrato, amplia pure la sfera della cognizione del giudice ordinario cui è affidata l’impugnazione del lodo, e, quindi, ricade nella regola dell’influenza dell’innovazione normativa che attribuisca la causa al giudice davanti al quale sia già in corso o debba essere ripresa o riattivata”.
La conclusione cui pervengono le Sezioni unite, tuttavia, potrebbe destare perplessità, nella parte in cui opera una scissione tra:
a) l’affermata non retroattività della disciplina sostanziale del compromesso e dell’ambito oggettivo entro cui è ammessa la deferibilità ad arbitri della controversia;
b) la piena retroattività della norma, e la conseguente applicabilità ai giudizi in corso, nella parte in cui attribuisca alla Corte d’appello il potere di decidere sulla validità del lodo.
In concreto, per la Cassazione, il lodo, pronunciato prima dell’entrata in vigore della L. n. 205/2000, è certamente nullo. Ma la corte d’appello, investita dell’azione di nullità, una volta riscontrata la violazione dei limiti dell’arbitrato, deve pronunciarsi sul merito della controversia.
- Le norme “speciali” sulla compromettibilità in arbitri di determinate controversie
L’intervento legislativo del 2000, comunque, era stato preceduto da alcune previsioni speciali, come la disposizione in materia di accordi di programma per gli enti locali previsto dall’art. 27, L. n. 142/1990 (previsione poi trasfusa nell’art. 34, 2° comma, del testo unico degli enti locali – “TUEL” n. 267/2000: “2. L’accordo può prevedere altresì procedimenti di arbitrato, nonché interventi surrogatori di eventuali inadempienze dei soggetti partecipanti”. L’esatta portata della disposizione (oltretutto di non frequente applicazione) era stata discussa. In linea di massima, però, l’interpretazione prevalente era nel senso secondo cui la norma autorizzi il ricorso all’arbitrato anche per controversie rientranti nella giurisdizione amministrativa esclusiva, purché riferite a diritti soggettivi. Pertanto, pur escludendosi, anche in questo settore speciale, la compromettibilità in arbitri delle controversie afferenti ad interessi legittimi, si registrava un significativo ampliamento dell’ambito di operatività dell’istituto arbitrale, esteso anche a questioni attribuite alla cognizione del giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva.
Ma l’atteggiamento della giurisprudenza era stato, talvolta, ancora più rigoroso e restrittivo, con riguardo all’interpretazione di diverse norme speciali che prevedevano il ricorso all’arbitrato in ambiti ai confini tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione esclusiva.
In tal senso, la Cassazione[23] afferma che con riguardo ad affidamento in concessione di lavori di progettazione ed esecuzione d’infrastrutture per l’urbanizzazione di aree del piano di zona di un comune, l’art. 16, L. n. 219/1981, nella parte in cui prevede la cognizione arbitrale delle controversie derivanti dall’affidamento di tali lavori, non deroga ai criteri di riparto della giurisdizione vigenti in materia di rapporti di concessione, ma ha unicamente previsto la devoluzione ad arbitri di quelle controversie, relative ai predetti rapporti, le quali, in forza dell’art. 5, 2º comma, L. n. 1034/1971, non sarebbero comunque rientrate nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (in forza di tale principio, la suprema corte ha ritenuto che la nullità del lodo arbitrale, emesso in controversia attinente alla decadenza dall’indicata concessione, non si estende ai capi dello stesso relativi alle domande di carattere patrimoniale). In altri termini, l’arbitrato è considerato inammissibile, ancorché riferito a diritti soggettivi, se questi competono alla cognizione esclusiva del giudice amministrativo.
La spinta decisiva alla estensione dell’ambito di operatività dell’arbitrato, segnata dalla L. n. 205/2000, era rappresentata dalla imponente estensione della giurisdizione esclusiva amministrativa (già delineata dal decreto 80/1998) e dalla riconosciuta risarcibilità della lesione degli interessi legittimi, per effetto del mutamento di giurisprudenza e dalle specifiche innovazioni legislative in materia, sollecitate anche dal diritto comunitario.
La norma racchiusa nell’art. 6, L. n. 205/2000 si collocava, del resto, in un quadro (all’epoca) di crescente fiducia verso l’istituto arbitrale e di complessivo favore per l’aumento dei mezzi di tutela, anche non giurisdizionale, nei confronti della PA.
È verosimile che, nell’intenzione del legislatore, il puntuale riferimento ai diritti soggettivi quale oggetto dell’arbitrato costituisse una sorta di “compromesso” tra le due estreme opposte tesi, dirette, rispettivamente, alla piena estensione o alla totale esclusione dell’arbitrato per le controversie rientranti nella giurisdizione amministrativa.
Né era trascurabile l’argomento secondo cui il massiccio “trasferimento” di controversie dalla giurisdizione ordinaria a quella amministrativa, realizzata mediante la previsione di nuove ipotesi di giurisdizione amministrativa per interi “blocchi di materia”, dovesse lasciare intatta la possibilità, per gli interessati, di attivare il giudizio arbitrale: una soluzione normativa diversa avrebbe potuto comportare una ingiustificata limitazione del diritto di azione.
Si deve notare, peraltro, che nella sua versione attuale l’art. 12 del codice del processo amministrativo, nel definire il perimetro dell’arbitrato, omette qualsiasi riferimento, esplicito o sistematico, alla giurisdizione esclusiva.
D’altro canto, l’art. 806 c.p.c., richiamato dall’art. 12 c.p.a., contiene una previsione di carattere generale (“Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge”), che stabilisce la sola limitazione riguardante l’incompromettibilità delle questioni riguardanti “diritti indisponibili”.
Ciò chiarito, occorre evidenziare, tuttavia, che, secondo l’opinione dominante in giurisprudenza e per una parte rilevante della dottrina, l’attuale dizione non dovrebbe lasciare dubbi in ordine alla impostazione di fondo scelta dal legislatore, basata sulla necessaria contrapposizione tra “diritti soggettivi e interessi legittimi” quali oggetto della controversia: solo in presenza dei primi l’arbitrato è ammissibile.
- La dubbia ragionevolezza della previsione dell’art. 12 c.p.a.
L’opzione indicata dalla disposizione, per quanto possa ritenersi netta, in base ad una interpretazione letterale, però, si esporrebbe a forti critiche sul piano della ragionevolezza e della stessa compatibilità con il dettato costituzionale.
Le obiezioni si potrebbero svolgere in due direzioni, simmetriche e opposte.
A) Da un lato si potrebbe dire che anche le controversie in materia di diritti soggettivi attribuite alla giurisdizione amministrativa dovrebbero restare inderogabilmente affidate alla sola cognizione del giudice togato, perché esse, alla luce dei parametri fissati dalla Corte costituzionale (sentenza n. 204/2004), investono pur sempre l’esercizio del potere. I diritti soggettivi in questione, per la loro specialità, e per l’evidente connessione con l’interesse pubblico, non potrebbero essere affidati alla cognizione arbitrale. Le stesse ragioni che giustificano l’attribuzione di tali controversie alla giurisdizione esclusiva amministrativa dovrebbero comportare, coerentemente, la loro sottrazione al giudizio arbitrale.
In analoga prospettiva, poi, si potrebbe anche sostenere che così come gli interessi legittimi sono ritenuti “indisponibili”, per la loro inerenza all’interesse pubblico, allo stesso modo, i diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione esclusiva amministrativa, dovrebbero considerarsi anche essi indisponibili, stante la loro necessaria correlazione con l’esercizio del potere pubblico.
E non potrebbe trascurarsi il rilievo (risalente nel tempo, ma ancora attuale) secondo cui ammettere la deferibilità ad arbitri delle controversie relative a diritti, che si pretendono lesi dal provvedimento concessorio, non soltanto imporrebbe che la distinzione tra diritti e interessi permanga nella materia in violazione dell’art. 5, L. n. 1034/1971, che è provvedimento d’ordine e di interesse pubblico, ma autorizzerebbe una deroga alla concentrazione di tutte le controversie nella giurisdizione amministrativa che è stata dal legislatore ritenuta la più idonea[24].
In questa direzione, del resto, una parte rilevante della dottrina aveva affermato che proprio la scelta legislativa di assegnare la cognizione di determinate controversi riguardanti diritti soggettivi alla giurisdizione esclusiva risponderebbe allo scopo di concentrare la tutela giurisdizionale in unico giudice, impedendo ogni possibile intervento di altre autorità decisorie, siano essi il giudice ordinario o l’arbitro, perché la legge istitutiva della giurisdizione speciale “è un provvedimento di ordine pubblico che supera il carattere di disponibilità in materia di diritto attribuito alle parti”[25].
B) In senso contrario, si evidenzia che mancherebbero ragioni adeguate per sottrarre gli interessi legittimi dall’ambito applicativo dell’arbitrato, differenziandoli dai diritti soggettivi, anche sulla base di una serrata critica al tradizionale argomento legato alla asserita indisponibilità delle posizioni giuridiche connesse agli interessi legittimi (vedi infra). Una volta riconosciuta la praticabilità dell’istituto arbitrale per le controversie riferite alla giurisdizione amministrativa, non avrebbe senso una limitazione incentrata sulla natura della posizione giuridica azionata, ma dovrebbero applicarsi le regole generali che disegnano i confini della compromettibilità delle controversie.
Entrambe le tesi, poi, sottolineano che assai spesso interessi legittimi e diritti soggettivi sono in concreto indistinguibili, proprio nei casi delle controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva. Nell’esperienza pratica, a parte i dubbi sulla qualificazione concreta della posizione giuridica fatta valere dal ricorrente, sono frequenti i casi in cui entrano in gioco, contemporaneamente, diritti soggettivi e interessi legittimi. Il previsto criterio distintivo, quindi, anche superando le indicate obiezioni, potrebbe risultare di difficile applicazione.
Volendo schematizzare, allora, le critiche all’attuale scelta legislativa, che prevede l’estensione dell’arbitrato alle sole controversie rientranti nella giurisdizione amministrativa, ma relative a diritti soggettivi, potrebbe condurre, in una prospettiva de iure condendo, a tre alternative soluzioni:
I) Ripristinare l’assetto precedente la L. n. 205/2000, vietando l’arbitrato per tutte le controversie affidate alla giurisdizione amministrativa, indipendentemente dalla natura delle situazioni giuridiche considerate;
II) Estendere l’arbitrato anche alle questioni relative a interessi legittimi, beninteso se e quando riconducibili a situazioni giuridiche disponibili;
III) Ampliare il raggio di azione dell’arbitrato, includendovi pure le controversie riguardanti interessi legittimi, ma nelle sole materie di giurisdizione esclusiva.
Nella casistica pratica, poi, il criterio basato sul discrimine diritto soggettivo-interesse legittimo può determinare molteplici interrogativi, in funzione delle particolarità delle singole controversie.
Ci si potrebbe chiedere, per esempio, se anche ai fini dell’applicazione dell’art. 12, debba operare sempre il criterio generale dell’“affievolimento” del diritto soggettivo in interesse legittimo, costantemente utilizzato dalla giurisprudenza per definire il riparto della giurisdizione. Ragioni di coerenza sistematica inducono ad una risposta affermativa, ma il punto potrebbe richiedere un approfondimento.
Un’ipotesi problematica, poi, potrebbe essere costituita dall’azione volta all’esecuzione di un giudicato amministrativo, che abbia accertato la lesione di un interesse legittimo.
Qual è l’oggetto della controversia? Il diritto soggettivo all’esecuzione (tale qualificazione della pretesa all’attuazione del giudicato è pacifica in giurisprudenza), o l’interesse legittimo accertato nel previo giudizio di cognizione? Si potrebbe rispondere, empiricamente, che, in ogni caso, l’arbitro non potrebbe mai esercitare i poteri sostitutivi tipici dell’ottemperanza, rientranti nella giurisdizione di merito, ma questo argomento riguarderebbe i limiti delle facoltà decisorie dell’arbitro, senza toccare l’ambito applicativo dell’istituto arbitrale in sede di cognizione.
Non pare possibile affermare, invece, che sussista una limitazione assoluta alla compromettibilità in arbitri delle controversie rientranti nella giurisdizione amministrativa estesa al merito.
Pertanto, in tale eventualità, si dovrebbe riconoscere la possibilità del ricorso all’arbitrato, ancorché la correlazione con la sottostante posizione giuridica di interesse legittimo sia evidente.
- La tesi della assoluta indisponibilità delle posizioni giuridiche relative all’esercizio del potere amministrativo
Un limite costituzionale alla cognizione degli arbitri era stato individuato nell’art. 103, 1° comma, Cost., che sembrerebbe riservare la tutela degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione al Consiglio di Stato e agli altri organi di giurisdizione amministrativa[26].
Ma si è correttamente replicato che, in linea generale, ogni tipo di tutela giurisdizionale è, nella Costituzione formalmente riservato alla giurisdizione “togata”: tuttavia nessuno dubita che l’assetto costituzionale sia di ostacolo all’arbitrato relativo a diritti soggettivi conosciuti dal giudice ordinario.
Come si è accennato, poi, una parte consistente della dottrina ha sostenuto che l’esclusione degli interessi legittimi dalla compromettibilità in arbitri deriverebbe non solo dalla esplicita previsione di legge, ma anche dal principio generale, tuttora vigente nel nostro ordinamento, in forza della espressa previsione dell’art. 806 c.p.c., riguardante il divieto di deferire ad arbitri “diritti indisponibili”.
Secondo tale chiave di lettura, gli interessi legittimi, per loro natura, non sarebbero, in assoluto, mai disponibili dalle parti[27].
Di contro, i diritti soggettivi, attribuiti alla cognizione del giudice amministrativo, sarebbero sempre (o almeno tendenzialmente) nella piena disponibilità delle parti interessate.
Si possono svolgere, però, alcune osservazioni riferite all’attitudine della descritta contrapposizione a definire adeguatamente il perimetro applicativo dell’arbitrato nelle controversie di cui sia parte una pubblica amministrazione.
Sullo sfondo si pone il tema generale riguardante l’idoneità attuale della contrapposizione tra diritti soggettivi e interessi legittimi a identificare con chiarezza la natura delle posizioni giuridiche fatte valere dagli interessati.
Va premesso, intanto, che i “diritti soggettivi” conoscibili dal giudice amministrativo e compromettibili in arbitrato riguarderebbero solo, o per lo meno essenzialmente, ambiti di giurisdizione esclusiva. A queste ipotesi si dovrebbe aggiungere il caso problematico (vedi infra) del “diritto al risarcimento” del danno da lesione di interesse legittimo, e, forse, altre ipotesi come quella, già prospettata, dell’azione esecutiva.
Nell’ambito della stessa giurisdizione esclusiva, peraltro, i “diritti soggettivi” possono assumere consistenza e fisionomia molto diversificate. Tale considerazione potrebbe rafforzare i dubbi sulla ragionevolezza della indicata limitazione dell’arbitrato a controversie involgenti diritti soggettivi.
A) Anzitutto, le difficoltà di qualificazione concreta delle posizioni giuridiche delle parti sono evidenti, specie in quei casi in cui la controversia veda la stretta correlazione tra diritti e interessi: si pensi al caso frequente in cui, nell’ambito della esecuzione di una concessione, a fronte del diritto soggettivo al pagamento del compenso (o di altro credito), rivendicato dal ricorrente, si pongano questioni riguardanti la portata dell’atto genetico del rapporto concessorio.
B) In altri casi di giurisdizione esclusiva, l’emersione del “diritto soggettivo” nell’ambito della controversia si collega unicamente alla scelta legislativa di superare, in determinate materie, il criterio giurisprudenziale di riparto della giurisdizione basato sull’antitesi tra “carenza di potere” e “cattivo uso del potere” (secondo altre impostazioni, si tratterebbe della contrapposizione tra nullità e annullabilità del provvedimento, o, ancora dell’antitesi tra illegittimità e “macroillegittimità”), fermo restando, però, che, in ogni caso,, il giudizio verte sulla contestazione di un provvedimento amministrativo autoritativo (es. in materia edilizia, urbanistica ed espropriativa). In queste eventualità, applicando alla lettera il criterio fissato dall’art. 12, si giunge alla conclusione secondo cui l’arbitrato sarebbe consentito nei casi in cui si denunciano i casi più gravi di invalidità del provvedimento amministrativo (“carenza di potere”), mentre l’arbitrato sarebbe precluso nelle ipotesi di mera annullabilità del provvedimento, suscettibili di degradare il diritto soggettivo del ricorrente in interesse legittimo.
C) In altre fattispecie, la giurisdizione esclusiva sembra originata dalla necessità di attrarre nella cognizione del giudice amministrativo controversie relative alla contestazione di atti adottati da soggetti formalmente “privati”, una volta accantonata la tesi dell’organo indiretto dell’amministrazione: è questa la motivazione principale delle previsioni, che, a partire dal decreto n. 80/1998, hanno trasferito al giudice amministrativo tutte le controversie in materia di affidamento di “appalti” (poi di contratti pubblici), sottoposti alla disciplina di evidenza pubblica;
D) All’estremo opposto, residuano nella giurisdizione esclusiva, per condivisibili ragioni di semplificazione ed effettività della tutela, controversie in cui si discute di diritti soggettivi “puri”, del tutto sganciati dall’esercizio di poteri autoritativi. Si tratta delle ipotesi di meri inadempimenti di obbligazioni nel campo del pubblico impiego non privatizzato (si pensi ai casi della lesione del diritto alla salute, basati sulla violazione dell’art. 2087 c.c. o di altre disposizioni riferite alla disciplina del rapporto; o ai casi della compensatio lucri cum damno, recentemente decisi dalla Plenaria, in relazione ai diritti patrimoniali conseguenti ai pregiudizi subiti dal dipendente pubblico).
E) Vi sono, ancora, le ipotesi di “diritti soggettivi” “conseguenziali” all’annullamento del provvedimento lesivo di interessi legittimi: tra questi si pone il delicato tema del diritto al risarcimento del danno, che sarà approfondito infra.
F) Sono da menzionare, poi, i casi di giurisdizione esclusiva nell’ambito del “diritto sanzionatorio” rientrante nella giurisdizione amministrativa (es: illecito antitrust). In tali eventualità, a parte ogni considerazione assorbente in ordine alla indisponibilità delle posizioni giuridiche riferite all’esercizio del potere sanzionatorio, si dovrebbe evidenziare la problematica coesistenza tra diritti soggettivi e l’esplicazione del potere pubblico.
Dunque, già la varietà delle posizioni giuridiche, riconducibili all’etichetta del “diritto soggettivo”, attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, pone in luce la criticità della scelta legislativa di cui all’art. 12 c.p.a., che delimita l’ambito dell’arbitrato in funzione della natura giuridica della situazione sostanziale oggetto di cognizione.
- La tesi estensiva sostenuta da una parte della dottrina più recente: la disponibilità degli interessi legittimi
Rispetto alla tesi tradizionale, ora dominante in giurisprudenza, che esclude dall’arbitrato gli interessi legittimi, si svolgono alcune considerazioni critiche.
Da un lato si potrebbe ritenere che il riferimento ai “diritti soggettivi”, compiuto dall’art. 12 c.p.a., non si riferisca affatto alla contrapposizione utilizzata per il criterio generale di riparto della giurisdizione, ma vada inteso in senso atecnico e pluricomprensivo. Pertanto, la formula intenderebbe stabilire l’ulteriore estensione del campo di azione dell’arbitrato e non una sua limitazione.
Non solo, ma altra parte della dottrina ha posto in rilievo come l’art. 6, L. n. 205/2000 (al pari, adesso, dell’art. 12 c.p.a.), se si riferisce espressamente (e “positivamente”) solo alle situazioni di diritto soggettivo, non esclude affatto gli interessi legittimi dall’ambito delle situazioni compromettibili[28].
La disposizione dell’art. 6, infatti, nasceva col precipuo scopo di porre fine all’orientamento della Cassazione che negava l’arbitrabilità delle controversie su diritti rientranti nella giurisdizione esclusiva; alla base della disposizione manca qualsivoglia presa di posizione di carattere sistematico da parte del legislatore, su questioni diverse rispetto a quella che espressamente aveva di mira, ciò che del resto risulta chiaramente proprio dall’esame dei lavori parlamentari[29].
Questa opinione, sviluppata con riferimento alla dizione della L. n. 205/2000 (diversa, però, da quella contenuta nell’art. 12 c.p.a.), conduce all’affermazione secondo cui la disciplina positiva estenderebbe l’arbitrato anche agli interessi legittimi, ancorché nel solo perimetro della giurisdizione esclusiva.
Secondo un’altra obiezione, il rinvio generale agli artt. 806 e segg., poi, comporterebbe la conseguenza che l’ambito dell’arbitrato nelle controversie involgenti la pubblica amministrazione vada compiuto facendo riferimento alle norme del c.p.c., che, ora, non comprendono affatto una limitazione ai soli diritti soggettivi.
Più articolate sono le critiche alla tesi dominante, secondo la quale il limite generale della “indisponibilità” delle posizioni giuridiche costituisce un ostacolo insormontabile alla compromettibilità delle controversie relative a interessi legittimi.
Al riguardo, si segnala l’opportunità di analizzare in termini analitici la consistenza delle contrapposte posizioni giuridiche correlate all’esercizio del potere amministrativo.
In questa prospettiva, si rimarca, allora, che, dal lato del soggetto privato, l’interesse legittimo è certamente una situazione giuridica “disponibile”, alla quale si può pacificamente “rinunciare”. D’altro canto, si è osservato che proprio la surrogabilità in denaro della soddisfazione degli interessi legittimi muove nella direzione della loro disponibilità e compromettibilità[30].
La stessa Cassazione si è espressa ripetutamente nel senso della “transigibilità” dell’interesse legittimo (inteso come diritto d’azione o comunque di ricorso) in liti attinenti ai rapporti di vicinato, comprensive anche di quelle concernenti l’estensione delle contrapposte pretese “edilizie”, perché “nessuna disposizione vieta che si possa disporre di detto interesse personale, e che quindi lo stesso possa essere oggetto di transazione, qualificandosi o come aliquid datum o aliquid retentum”[31].
Il problema della “indisponibilità”, quale ostacolo all’arbitrato, si porrebbe, semmai, per la posizione giuridica del soggetto pubblico, in funzione dell’esercizio del potere amministrativo correlato alla posizione di interesse legittimo.
Come osserva la dottrina[32], “non c’è dubbio che l’interesse legittimo sia disponibile. Il problema non è se esso sia disponibile, il problema è semmai se sia disponibile la situazione soggettiva contrapposta all’interesse legittimo, cioè il potere dell’Amministrazione”.
In linea generale, infatti, sembrerebbe incontestabile l’affermazione secondo cui il potere amministrativo, orientato alla realizzazione dell’interesse pubblico e sottoposto ad un complesso di regole inderogabili, non potrebbe mai formare oggetto di atti di disposizione da parte del soggetto pubblico.
Al riguardo, però, sono state svolte diverse obiezioni.
In primo luogo, parte della dottrina si è espressa nel senso di riconoscere nell’accordo tra P.A. e privati, diretto ad attribuire la soluzione della controversia al giudizio arbitrale, una forma di esercizio del potere, che consentirebbe di superare il problema della sua “indisponibilità”.
Una parte della dottrina[33] ha prospettato la tesi secondo cui la clausola arbitrale non incide, di per sé, sul potere amministrativo, condizionandone l’esercizio. Infatti, nel momento in cui viene stipulato il compromesso, il potere è già stato interamente esercitato. Il lodo arbitrale non impone un certo doveroso esercizio del potere, né consente che esso possa sindacarsi secondo parametri diversi da quelli cui è sottoposto ogni giudice; non sceglie soluzioni che l’amministrazione non voglia o non abbia già voluto, ma si limita a dire in quale direzione ed in quale misura il potere, già esercitato, si sia impegnato; a quali obblighi l’amministrazione sia sottoposta e sia impegnata. Né può trascurarsi che, almeno nei casi di arbitrato rituale di diritto, la decisione arbitrale è suscettibile di pieno controllo davanti al giudice togato.
In giurisprudenza, si è rilevato che: “Anzitutto, non è vero e, anzi, smentito dalla più recente formulazione dell’art. 11 della L. n. 241/1990 – e, più in generale, degli accordi tra P.A. e privati su questioni attinenti a funzioni autoritative e non soltanto paritetiche – l’assunto attoreo secondo cui non sarebbe compromettibile per arbitri la tutela di interessi legittimi”[34].
D’altro canto, il deferimento della controversia ad un arbitrato rituale di diritto, la cui decisione finale è sempre contestabile, nel merito, davanti al giudice togato, non sembra affatto comportare una sostanziale “disposizione” del potere intestato al soggetto pubblico, poiché l’amministrazione non si sottrae ai vincoli inderogabili riguardanti l’esercizio del potere, né demanda ad altro soggetto la scelta del merito amministrativo ad essa riservata.
Sotto altro aspetto, si è sostenuto che “sembra corretto affermare che vi sia diritto o interesse disponibile anche a fronte di norme inderogabili che ne disciplinino l’esercizio”, come sono quelli riguardanti l’azione amministrativa[35].
Si prospetta, infatti, una netta alternativa:
A) per i tratti vincolati di attività, ovviamente, l’amministrazione non potrebbe mai discostarsi dai limiti normativi; tali regole, del resto, fissano anche il parametro della decisione degli arbitri, sempre controllabile attraverso l’eventuale giudizio di impugnazione;
B) per gli aspetti relativi alla sfera di discrezionalità, questi elementi restano estranei al sindacato diretto del giudizio arbitrale, che non potrà in alcun modo rivalutare il merito amministrativo.
- Gli accordi sostitutivi di provvedimento e la convenzione di arbitrato
Un secondo filone interpretativo ha osservato che l’assioma della indisponibilità dell’interesse pubblico debba essere rivisto alla luce della previsione generale degli artt. 11 e 15, L. n. 241/1990, la quale, ormai non lascia più dubbi in ordine al potere dell’amministrazione di definirne il contenuto mediante accordi: vale a dire attraverso atti con cui si “dispone” dell’interesse pubblico[36].
La circostanza che tale potere di disposizione sia sottoposto a limiti sostanziali e procedimentali non contraddice la conclusione secondo cui il tradizionale argomento, incentrato sulla asserita indisponibilità dell’interesse legittimo e del correlato potere amministrativo non abbia più portata determinante.
Si deve aggiungere che né gli artt. 11 e 15, né l’art. 34 TUEL, nel prevedere “procedimenti di arbitrato” per la risoluzione delle controversie, pongono limitazioni riferite alla natura della posizione giuridica fatta valere dall’interessato.
Ciò, nonostante la giurisprudenza della Cassazione e del giudice amministrativo ha seguito una lettura molto restrittiva anche dell’art. 34 e del suo ambito di applicazione, nonostante la sua evidente specialità, sottoponendolo alle stesse condizioni limitatrici desunte dall’art. 12 c.p.a.
Secondo il Consiglio di Stato[37], quando la domanda del soggetto privato coinvolto nell’accordo di programma riguarda semplicemente questioni di interpretazione e di esecuzione dell’accordo di programma, relative al mancato adempimento da parte delle pubbliche amministrazioni di obblighi patrimoniali, la posizione giuridica dell’interessato ha natura di diritto soggettivo, e quindi rientra pienamente nel campo di applicazione dell’art. 12 c.p.a. ed è deferibile ad arbitri.
Quindi, in base a tale interpretazione, eventuali questioni riguardanti interessi legittimi esulerebbero dall’ambito applicativo dell’arbitrato, nonostante l’ampia dizione dell’art. 34.
Non dissimile è l’esito cui perviene la decisione secondo la quale, ai sensi dell’art. 12 c.p.a., è inammissibile il ricorso giurisdizionale proposto per l’annullamento di un provvedimento di decadenza di concessione in presenza di una convenzione con la quale le parti in causa avevano deciso di devolvere ogni eventuale contestazione derivante dalla sua esecuzione ad un apposito collegio arbitrale, con espressa rinuncia alla tutela giurisdizionale[38].
La decisione analizza accuratamente l’oggetto della controversia, evidenziando che la domanda attiene alla tutela di un diritto soggettivo, senza alcun coinvolgimento di interessi legittimi.
Un ultimo argomento sistematico, volto a delineare la possibile estensione dell’arbitrato a controversie coinvolgenti interessi legittimi deriva dalla circostanza che la legge di riforma dell’arbitrato del 2006 (intervenuta in epoca successiva alla L. n. 205/2000), non ha previsto alcuna norma speciale, nemmeno di rinvio, volta a circoscrivere la portata dell’istituto ai soli diritti soggettivi.
È certamente plausibile la prevalente lettura interpretativa, che sottolinea il carattere “speciale” della previsione di cui all’art. 6, L. n. 205/2000 e dell’art. 12 c.p.a.
Tuttavia, non può trascurarsi che la riforma del 2006 ha ridisegnato l’arbitrato nel suo complesso e ha inteso definirne organicamente l’ambito di applicazione, innovando rispetto alla precedente impostazione.
Il Codice del 2010 ha forse trascurato di considerare la portata di tale nuovo assetto ordinamentale dell’arbitrato, riproducendo la dizione della L. n. 205/2000, riferita ai soli diritti soggettivi.
Per altro verso, però, come già si è ricordato, lo stesso art. 12 c.p.a. richiama espressamente, senza prevedere alcuna clausola di compatibilità, l’intera disciplina dell’arbitrato riformato, la quale omette qualsiasi limitazione dell’istituto in funzione della posizione giuridica oggetto della controversia.
- Le questioni riguardanti la domanda risarcitoria per lesione di interessi legittimi
Nella prospettiva dominante, che segue l’interpretazione letterale dell’art. 12 c.p.a., molti interrogativi hanno riguardato l’assoggettabilità al giudizio arbitrale della domanda risarcitoria relativa alla lesione di interessi legittimi.
Evidentemente, non dovrebbero esservi dubbi nei casi in cui l’azione risarcitoria riguardi, con certezza, la lesione di una situazione di diritto soggettivo: si pensi al caso dell’azione risarcitoria per violazione dell’art. 2087 c.c., nell’ambito del rapporto di lavoro non privatizzato.
Gli interrogativi riguardano i casi di azione risarcitoria proposta per la riparazione del pregiudizio derivante dalla lesione di un interesse legittimo.
La questione, molto dibattuta all’indomani dell’entrata in vigore della L. n. 205/2000, in stretta connessione con la vexata quaestio della pregiudiziale di annullamento, ha forse perso molto del suo interesse pratico, una volta previsto il breve termine di decadenza (centoventi giorni) per l’esercizio dell’azione autonoma di risarcimento. Quest’ultima, del resto, ha, in concreto, scarsa possibilità di successo, dal momento che la mancata proposizione dell’azione di annullamento può determinare l’esclusione o la limitazione del risarcimento: non pochi commentatori ritengono che il c.p.a., così come letto e applicato dalla giurisprudenza amministrativa, abbia sancito una vera e propria “pregiudiziale mascherata”.
Nondimeno, pur così ridimensionato, il problema resta aperto, almeno in due grandi ipotesi:
a) le fattispecie in cui il provvedimento lesivo abbia esaurito i suoi effetti pratici prima della scadenza del termine per la proposizione del ricorso e l’eventuale annullamento non potrebbe comportare alcuna conseguenza ripristinatoria;
b) i casi in cui il provvedimento sia stato già annullato, in sede giurisdizionale o in via di autotutela, e si faccia questione soltanto della riparazione del residuo pregiudizio patrimoniale.
Le posizioni espresse al riguardo dagli interpreti sono molteplici.
Ai due poli estremi si pongono le opinioni contrapposte che valorizzano, rispettivamente:
I) l’autonomia dell’azione risarcitoria, costituente l’attuazione di un nuovo diritto di credito ormai distaccato dall’interesse legittimo leso dal provvedimento, secondo la nota impostazione concettuale della sentenza n. 500/1999 delle Sezioni unite;
II) il carattere meramente strumentale dell’azione risarcitoria, intesa come mezzo di tutela dell’interesse legittimo, con la conseguente inammissibilità del giudizio arbitrale, che avrebbe come oggetto diretto, appunto, tale posizione giuridica e la sua lesione.
Sul piano sistematico, la premessa concettuale della seconda tesi ha trovato l’avallo indiretto della stessa Corte costituzionale, la quale, a partire dalla sentenza n. 204/2004, l’ha sviluppata per chiarire che la tutela risarcitoria non è “materia” distinta, ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale delle disposizioni che introducono nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva.
Si sono prospettate, allora, anche alcune opinioni intermedie.
Per una possibile ricostruzione, la compromettibilità in arbitri dell’azione risarcitoria, relativa alla lesione di interessi legittimi, sarebbe ammessa, ma solo nei casi di giurisdizione esclusiva, mentre non sarebbe consentita nelle ipotesi di giurisdizione di legittimità.
La tesi sarebbe particolarmente utile in ambiti come quello delle controversie in materia di affidamento dei contratti pubblici, per le quali è davvero difficile distinguere, in concreto, tra interessi legittimi e diritti soggettivi.
Per una diversa opinione, invece, l’arbitrato sarebbe ammesso, ma solo nelle ipotesi in cui l’accertamento della lesione dell’interesse legittimo sia stata definitivamente accertata in giudizio e si tratti solo di affermare l’an e il quantum della responsabilità risarcitoria.
In ogni caso, non sarebbe ammessa una domanda arbitrale diretta ad ottenere il “risarcimento in forma specifica” del pregiudizio derivante dalla lesione di un interesse legittimo, qualora la domanda consista nella richiesta della sostanziale riedizione del potere amministrativo, perché si tratterebbe, in ultima analisi, di una forma surrettizia di esercizio di un’azione annullatoria a tutela di un interesse legittimo.
La tesi prevalente nella vigenza dell’art. 6, L. n. 205/2000 era quella della possibilità di compromettere in arbitri solo le controversie, riferite a diritti soggettivi, compresa la domanda risarcitoria derivante da provvedimento illegittimo, rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
D’altronde ciò era giustificato da almeno due ordini di ragioni: in primo luogo, dalla considerazione che, seguendo la tesi contraria, nel caso di appello del lodo arbitrale (sul punto si veda infra), si sarebbe assistito ad una “deroga alla giurisdizione”, per effetto dell’affidamento al giudice ordinario – la Corte d’appello – di controversie spettanti al giudice amministrativo; in secondo luogo, per la evidenza che l’art. 6, 2° comma si inseriva in un corpo di norme teso a disciplinare specificamente i poteri del giudice in seno alla giurisdizione esclusiva.
Quest’ultimo argomento, tuttavia, non pare ora più utilizzabile con riferimento all’art. 12 c.p.a., il quale si pone all’interno del Codice in un contesto differente (Libro I, Titolo I, Capo III), tale da attribuire alla disposizione in questione una portata più generale, estesa non solo alla giurisdizione esclusiva ma a tutta la giurisdizione amministrativa.
Pertanto, si potrebbe concludere che, poiché l’art. 12 c.p.a. fa riferimento alle controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione amministrativa, dovrebbero potersi ammettere tra tali controversie anche quelle relative ai diritti patrimoniali consequenziali, che rientrano nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo[39].
- La disciplina dell’arbitrato e del suo procedimento: la tecnica del rinvio al codice di procedura civile
La disciplina positiva dell’arbitrato previsto dall’art. 12 c.p.a. risulta, a prima battuta, molto semplice e lineare, poiché è incentrata sul rinvio integrale alle regole dell’arbitrato rituale di diritto fisate dal c.p.c.
La formula “ai sensi degli artt. 806 e seguenti” dovrebbe indicare la piena riconduzione alla regolamentazione procedimentale generale del cpc, senza alcuna deviazione o limitazione. La ratio complessiva della previsione è infatti evidente: realizzare la completa assimilazione tra l’arbitrato relativo alla giurisdizione amministrativa e quello inerente alla giurisdizione ordinaria.
Ma, come si è esposto supra, la tecnica del rinvio, prevista dall’art. 12, non è tra le più felici.
La formula utilizzata dal legislatore intenderebbe chiarire, intanto, che deve trattarsi necessariamente di arbitrato “rituale” e di diritto, senza alcuno spazio per l’arbitrato irrituale e per il parametro di giudizio dell’equità.
Le ragioni di questa duplice limitazione sarebbero intuitive e si associerebbero sempre alla particolare connessione con l’interesse pubblico, indefettibilmente presente nelle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa, comprese quelle riguardanti diritti soggettivi.
In questo senso, si è affermato che, benché l’Amministrazione, nel suo operare negoziale, si trovi su un piano paritetico a quello dei privati, ciò non significa che vi sia una piena e assoluta equiparazione della sua posizione a quella del privato, essendo essa portatrice di un interesse pubblico, a cui il suo agire deve ispirarsi in ogni caso. Ne consegue che all’Amministrazione è preclusa la possibilità di avvalersi, nella risoluzione di controversie derivanti da contratti, accordi o convenzioni, del cosiddetto “arbitrato irrituale o libero”, poiché – in tal modo – il componimento della vertenza sarebbe affidato a soggetti (gli arbitri irrituali) individuati, nell’ambito di una pur legittima logica negoziale, in difetto di qualsiasi procedimento legalmente determinato e, pertanto, privo di adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta[40].
Analogamente, si è sostenuto che l’art. 12 c.p.a. prevede, nelle controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, l’esperibilità di un arbitrato rituale di diritto. La ragione per cui non sarebbe ammissibile il ricorso all’arbitrato irrituale da parte di una p.a. riposa sulla constatazione che il potere decisionale devoluto all’arbitro irrituale avrebbe una base unicamente negoziale. L’ amministrazione verrebbe quindi a trovarsi vincolata al rispetto di una decisione definita sulla base di criteri che non necessariamente sono stati preventivamente definiti, e ciò contrasterebbe con i principi che regolano l’agire della P.A., in forza dei quali non è consentito delegare a terzi estranei la formazione della volontà negoziale della P.A[41].
Tuttavia, il chiaro intento legislativo resta fermo anche se, a stretto rigore, il coordinamento tra le diverse disposizioni del c.p.a. e del c.p.c. non è sempre impeccabile.
Basterebbe osservare che, sul piano formale le norme del c.p.c. richiamate dall’art. 12 c.p.a. (artt. 806 e segg.) comprendono anche l’arbitrato irrituale e quello secondo equità.
Alla luce di tali considerazioni, quindi, sembrerebbe corretto condividere, nel silenzio della legge, la tesi che propende per l’ammissibilità dell’arbitrato irrituale in relazione a tutte le liti aventi ad oggetto posizioni di diritto soggettivo, ricadenti nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario e non involgenti questioni attinenti, in via diretta, alla cura dell’interesse pubblico.
Tuttavia, occorre segnalare come la giurisprudenza[42] sia invece propensa a negare tale orientamento e, pertanto, a ritenere in generale inammissibile l’arbitrato irrituale nelle controversie in cui sia parte la pubblica amministrazione, anche se soggette alla cognizione del giudice ordinario.
Secondo tale giurisprudenza, sebbene la pubblica amministrazione nell’ambito dei propri rapporti negoziali si ponga su un piano tendenzialmente paritetico rispetto ai privati interessati dall’azione amministrativa, è da escludere che sussista una piena e assoluta equiparazione della posizione di questa rispetto a quella del privato in ragione dei suoi profili di specialità derivanti dal vincolo di scopo cui resta comunque soggetta, tanto nell’esercizio dei propri poteri autoritativi, quanto nell’esercizio della propria capacità giuridica di diritto comune. Ne consegue, pertanto, che ammettendo la possibilità di devolvere le controversie ad arbitri irrituali, il componimento della vertenza risulterebbe affidato a soggetti individuati, seppur nell’ambito di una logica negoziale, in assenza di un procedimento legalmente determinato e, perciò, senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta, oltre che in assenza di un regime di controlli connesso alla compatibilità della stessa con l’interesse pubblico perseguito dalla stazione appaltante.
Il precedente giurisprudenziale più significativo in tal senso, in relazione ad una fattispecie relativa alla fase di esecuzione di un rapporto contrattuale in essere tra un ente pubblico ed un privato appaltatore, ha ritenuto l’arbitrato irrituale “un meccanismo negoziale [...] che però appare scarsamente compatibile con i principi che regolano l’agire della pubblica amministrazione, in forza dei quali non è consentito delegare a terzi estranei la formazione della volontà negoziale della pubblica amministrazione medesima”, ritenendo pertanto di non condividere quell’orientamento secondo cui “sull’onda del generale processo di privatizzazione dell’operare della pubblica amministrazione, da un lato, e dell’altro sulla spinta ad un maggiore avvicinamento tra arbitrato irrituale e rituale, coerente con la connotazione negoziale (e non propriamente giurisdizionale) di quest’ultimo [...], nell’ambito dell’autonomia privata di cui gode la pubblica amministrazione quando opera su diritti disponibili, estesa anche alla stipulazione di negozi eventualmente atipici, non può escludersi l’eventualità di una rinuncia libera e consapevole alla regolamentazione diretta del rapporto controverso dell’affidamento di tale regolamentazione ad un terzo arbitro designato secondo criteri negoziali predeterminati”[43].
Secondo la Cassazione, infatti, per superare ogni possibile ostacolo all’utilizzabilità dell’arbitrato irrituale nei contratti della pubblica amministrazione non basta richiamarsi alla natura privatistica degli strumenti negoziali adoperati poiché, in tale ipotesi, risulterebbero, da un lato, comunque “violate le garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta” e, dall’altro, affidate a soggetti sottratti ad ogni controllo (con conseguente neutralizzazione delle regole sulla responsabilità amministrativa) le scelte circa il perseguimento dell’interesse pubblico “che, anche nel componimento arbitrale, dovrebbe potersi realizzare e che non può mai andare esente da un regime di controlli ed eventuali conseguenti responsabilità”.
La conclusione della Cassazione si collega all’idea di fondo secondo la quale l’arbitrato irrituale si contrappone nettamente a quello rituale e si caratterizza per la sua natura essenzialmente “contrattuale”.
Anche seguendo tale impostazione, peraltro, si potrebbe ritenere che non sussista un divieto assoluto, ma solo un limite di carattere procedimentale: l’amministrazione dovrebbe adeguatamente motivare le ragioni giustificative del ricorso all’arbitrato irrituale, in luogo del contenzioso giurisdizionale o dell’arbitrato rituale.
L’art. 12, poi, comporta che l’arbitrato debba essere necessariamente “di diritto” e non sia mai ammissibile l’arbitrato per equità. Va poi tenuto conto della previsione riguardante l’impugnazione del lodo per motivi di diritto: a stretto rigore, le parti potrebbero escludere l’impugnazione per motivi di diritto: ciò non trasformerebbe l’arbitrato, ma finirebbe per svuotare notevolmente la previsione.
- Le disposizioni di funzionamento del procedimento arbitrale
Il rinvio in blocco agli artt. 806 e segg. c.p.c. comporta alcuni interrogativi “pratici”, poiché potrebbe apparire irragionevole, oppure inutilizzabile, la disciplina del processo civile.
Infatti, diverse disposizioni del c.p.c. sono concepite con precipuo riguardo alla organizzazione e alla struttura della giurisdizione ordinaria. L’operatività del rinvio richiede, quindi, un adeguamento non sempre immediato. E va ancora una volta ricordato, al proposito, l’ambiguità della formula di rinvio “ai sensi”.
Si contrappongono, al riguardo, due tesi estreme. L’una ritiene che debbano applicarsi, letteralmente, tutte le disposizioni richiamate: la devoluzione al giudizio arbitrale comporta anche la scelta della giurisdizione ordinaria, per cui sarebbe del tutto coerente l’applicazione integrale del codice di procedura civile.
L’opposta ricostruzione, invece, sostiene che tutte le disposizioni del c.p.c. debbano essere in ogni caso calate nel contesto della giurisdizione amministrativa. In questo senso, ad esempio, le norme che fanno riferimento al presidente del tribunale potrebbero intendersi riferite al presidente del T.A.R.
È preferibile compiere una verifica in ordine a ciascuna delle norme richiamate, soffermando l’attenzione sulle questioni più rilevanti e problematiche. In linea di massima, sono applicabili integralmente tutte le norme che attribuiscono al giudice ordinario competenze per rendere possibile il funzionamento dell’arbitrato, e non interferiscono sull’oggetto della controversia, né sul riparto di giurisdizione.
Non sembra dubitabile, allora, la piena applicazione delle seguenti disposizioni, che attengono agli aspetti sostanziali del compromesso, individuano una funzione di “volontaria giurisdizione” dell’organo giudiziario ordinario o concernono il rapporto professionale tra arbitro e parti:
– l’art. 807, secondo cui il compromesso deve, a pena di nullità, essere fatto per iscritto e determinare l’oggetto della controversia; resta fermo, però, che tale disciplina, riguardando il solo aspetto formale dell’atto di deferimento della lite al giudizio arbitrale, non esclude l’operatività delle regole riguardanti le modalità di formazione della volontà negoziale dell’amministrazione;
– l’art. 808 bis (“Convenzione di arbitrato in materia non contrattuale”), secondo il quale le parti possono stabilire, con apposita convenzione, che siano decise da arbitri le controversie future relative a uno o più rapporti non contrattuali determinati; in tal caso “la convenzione deve risultare da atto avente la forma richiesta per il compromesso dall’art. 807”; la disposizione è pienamente compatibile con l’ampia formulazione dell’art. 12 c.p.a., il quale, a differenza dell’art. 806, non considera, letteralmente solo le “controversie insorte” al momento della stipulazione del compromesso, ma, implicitamente, comprende anche quelle future;
– l’art. 808 quater (“Interpretazione della convenzione d’arbitrato”), secondo cui, nel dubbio, la convenzione d’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce; l’idea, pur astrattamente ragionevole, secondo cui l’arbitrato nella giurisdizione amministrativa dovrebbe intendersi in modo “restrittivo”, è palesemente contraddetta dalla previsione richiamata;
– l’art. 808 quinquies (“Efficacia della convenzione d’arbitrato”), secondo cui la conclusione del procedimento arbitrale senza pronuncia sul merito, non toglie efficacia alla convenzione d’arbitrato;
Risulta pacifica, al contrario, la totale inapplicabilità dell’art. 808 ter, riguardante l’“arbitrato irrituale”, considerando la sua incompatibilità con la previsione dell’art. 12 c.p.a., il quale, indiscutibilmente, prevede il solo arbitrato rituale.
- Le norme del Capo II riguardante gli arbitri (artt. 809-815 c.p.c.)
Più incerta risulta l’applicazione di alcune previsioni, contenute nel Capo II, riguardanti gli arbitri.
Il dubbio riguarda le diverse previsioni riguardanti le competenze attribuite al “presidente del tribunale”, nei seguenti casi:
– art. 809, 3° comma: in caso d’indicazione di un numero pari di arbitri, un ulteriore arbitro, se le parti non hanno diversamente convenuto, è nominato dal presidente del tribunale nei modi previsti dall’art. 810; se manca l’indicazione del numero degli arbitri e le parti non si accordano al riguardo, gli arbitri sono tre e, in mancanza di nomina, se le parti non hanno diversamente convenuto, provvede il presidente del tribunale nei modi previsti dall’art. 810;
– art. 810, commi 2°, 3° e 4°: in mancanza di nomina dell’arbitro di parte, l’altra può chiedere, mediante ricorso, che la nomina sia fatta dal presidente del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato. Se le parti non hanno ancora determinato la sede, il ricorso è presentato al presidente del tribunale del luogo in cui è stata stipulata la convenzione di arbitrato oppure, se tale luogo è all’estero, al presidente del tribunale di Roma; il presidente del tribunale competente provvede alla nomina richiestagli, se la convenzione d’arbitrato non è manifestamente inesistente o non prevede manifestamente un arbitrato estero; le stesse disposizioni si applicano se la nomina di uno o più arbitri è demandata dalla convenzione d’arbitrato all’autorità giudiziaria o se, essendo demandata a un terzo, questi non vi ha provveduto;
– art. 811, che estende la procedura di ricorso al presidente del tribunale per il caso di mancata sostituzione dell’arbitro di parte;
– art. 813 ter, che prevede il ricorso al presidente del tribunale per provvedere alla sostituzione dell’arbitro che omette, o ritarda di compiere un atto relativo alle sue funzioni, in caso di mancato accordo tra le parti;
– art. 814, 2° comma: Quando gli arbitri provvedono direttamente alla liquidazione delle spese e dell’onorario, tale liquidazione non è vincolante per le parti se esse non l’accettano. In tal caso l’ammontare delle spese e dell’onorario è determinato con ordinanza dal presidente del tribunale indicato nell’art. 810, 2° comma, su ricorso degli arbitri e sentite le parti.
– art. 815, 3° comma, secondo cui la “ricusazione” degli arbitri è proposta mediante ricorso al presidente del tribunale indicato nell’art. 810.
La tesi prevalente, pienamente condivisibile, ritiene che si tratti di funzioni tipicamente riconducibili alla nozione di “volontaria giurisdizione”, senza alcuna incidenza sullo sviluppo del procedimento e sulla decisione finale della controversia. Pertanto, dovrebbe restare confermata l’indicata competenza del giudice ordinario. L’argomento letterale, del resto, sembrerebbe insuperabile.
Si potrebbe obiettare, tuttavia, che la controversia è pur sempre affidata alla giurisdizione amministrativa, per cui le attribuzioni al giudice ordinario apparirebbero come “intrusioni” in un contesto estraneo alla sua cognizione.
Questo argomento si collega al tema della competenza (della Corte d’appello o del giudice amministrativo) a decidere sull’azione di nullità del lodo. Se si ritiene, come è opinione dominante (vedi infra), che la competenza spetti comunque al giudice ordinario, risulterebbe coerente, de iure condito, riconoscere al presidente del tribunale civile, i poteri indicati dal c.p.c. relativi alla nomina e alla sostituzione degli arbitri.
- Le disposizioni del Capo III (artt. 816-819 ter c.p.c.), riguardanti il procedimento arbitrale
Per quanto riguarda il Capo III (“Del procedimento”), non sembra porre problemi l’applicabilità delle seguenti disposizioni riguardanti:
– la sede dell’arbitrato (art. 816);
– lo svolgimento del procedimento (art. 816 bis);
– l’istruzione probatoria (art. 816 ter); resta da considerare però che, in base al 3° comma, se un testimone rifiuta di comparire davanti agli arbitri, questi, quando lo ritengono opportuno secondo le circostanze, possono richiedere al presidente del tribunale della sede dell’arbitrato, che ne ordini la comparizione davanti a loro; anche per tale previsione risulta preferibile riconoscere la persistente competenza dell’organo della giurisdizione ordinaria; la norma ha lo scopo di supplire al difetto di poteri coercitivi negli arbitri legittimandoli a domandare al presidente del tribunale di ordinare la comparizione coattiva del testimone che rifiuti di presentarsi; anche in questo caso l’oggetto della controversia devoluta agli arbitri è solo sullo sfondo, e l’intervento del giudice civile non altera i rapporti di giurisdizione tra le parti;
– il litisconsorzio e la pluralità di parti (art. 816 quater);
– l’intervento di terzi e la successione nel diritto controverso (art. 816 quinquies);
– la morte, estinzione o perdita di capacità della parte (art. 816 sexies);
– l’anticipazione delle spese a carico delle parti (art. 816 septies);
– la compensazione (art. 817 bis).
Deve trovare applicazione piena anche la previsione dell’art. 817 (“Eccezione d’incompetenza”), pur dovendosi considerare che la questione riguardante l’incompromettibilità di questioni attinenti ad interessi legittimi presenta riflessi sulla giurisdizione. La norma stabilisce che se la validità, il contenuto o l’ampiezza della convenzione d’arbitrato o la regolare costituzione degli arbitri sono contestate nel corso dell’arbitrato, gli arbitri decidono sulla propria competenza. Questa disposizione si applica anche se i poteri degli arbitri sono contestati in qualsiasi sede per qualsiasi ragione sopravvenuta nel corso del procedimento. La parte che non eccepisce nella prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri l’incompetenza di questi per inesistenza, invalidità o inefficacia della convenzione d’arbitrato, non può per questo motivo impugnare il lodo, salvo il caso di controversia non arbitrabile. La parte, che non eccepisce nel corso dell’arbitrato che le conclusioni delle altre parti esorbitano dai limiti della convenzione arbitrale, non può, per questo motivo, impugnare il lodo.
Del resto, il problema della eccezione di arbitrato si poneva anche prima della estensione dell’ambito di operatività dell’istituto per le controversie rientranti nella giurisdizione amministrativa.
Pienamente applicabile è anche l’art. 819 (“Questioni pregiudiziali di merito”), in forza del quale gli arbitri risolvono senza autorità di giudicato tutte le questioni rilevanti per la decisione della controversia, anche se vertono su materie che non possono essere oggetto di convenzione di arbitrato, salvo che debbano essere decise con efficacia di giudicato per legge.
Su domanda di parte, le questioni pregiudiziali sono decise con efficacia di giudicato se vertono su materie che possono essere oggetto di convenzione di arbitrato. Se tali questioni non sono comprese nella convenzione di arbitrato, la decisione con efficacia di giudicato è subordinata alla richiesta di tutte le parti.
Non è dubbia, poi, nemmeno l’operatività della disciplina della sospensione del procedimento arbitrale (art. 819 bis).
- Il divieto per gli arbitri di adozione di misure cautelari. La competenza del giudice togato
Alcune incertezze riguardano la competenza all’adozione delle misure cautelari, in corso di causa e ante causam.
L’art. 818 (“provvedimenti cautelari”) prevede che gli arbitri non possono concedere sequestri, né altri provvedimenti cautelari, salva diversa disposizione di legge. L’art. 669 quinquies c.p.c., poi, dispone che, in caso di clausola compromissoria la domanda cautelare si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere il merito.
In questo quadro, la soluzione più plausibile è che i poteri cautelari, sia ante causam che in corso del procedimento arbitrale, spettino al T.A.R. che sarebbe competente per il merito.
Vanno infatti disattese le possibili soluzioni alternative: sia quella che determinerebbe l’assenza di strumenti cautelari, sia quella che assegna il potere cautelare al giudice ordinario, anche per la difficoltà di determinarne la competenza.
È vero che l’art. 669 quinquies si riferisce alla sola “competenza” cautelare, ma non pare possa seriamente porsi in dubbio che il richiamo al merito valga anche per individuare il giudice fornito di giurisdizione. Ed allora, dal momento che in mancanza del patto compromissorio la lite sarebbe stata conosciuta dal giudice amministrativo, a quello andranno indirizzate le istanze cautelari.
- L’applicazione del Capo IV, relativo alla formazione del lodo, al suo deposito e alla sua efficacia (artt. 820-826)
Con riguardo al Capo IV, relativo al “lodo”, trovano diretta e completa applicazione le norme riguardanti:
– il termine per la decisione (art. 820); resta dubbia però l’applicabilità della previsione secondo cui il termine può essere prorogato “dal presidente del tribunale indicato nell’art. 810, 2° comma, su istanza motivata di una delle parti o degli arbitri, sentite le altre parti”; anche in questa ipotesi si tratta di stabilire se la disposizione debba intendersi riferita al presidente del T.A.R.;
– la rilevanza del decorso del termine (art. 821);
– la deliberazione e i requisiti del lodo (art. 823);
– la formazione degli originali e delle copie del lodo (art. 824).
– l’efficacia del lodo (art. 824 bis);
È invece pacifica l’inapplicabilità dell’art. 822 (“Norme per la deliberazione”), in forza del quale gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti abbiano disposto con qualsiasi espressione che gli arbitri pronunciano secondo equità. Infatti la disposizione è incompatibile con la previsione dell’art. 12 c.p.a. che consente il solo arbitrato di diritto.
Qualche dubbio potrebbe porsi per la disciplina riguardante il deposito e la correzione del lodo.
L’art. 825 (“deposito del lodo”) stabilisce che la parte che intende fare eseguire il lodo nel territorio della Repubblica ne propone istanza depositando il lodo in originale, o in copia conforme, insieme con l’atto contenente la convenzione di arbitrato, in originale o in copia conforme, nella cancelleria del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato. Il tribunale, accertata la regolarità formale del lodo, lo dichiara esecutivo con decreto. [...] Contro il decreto che nega o concede l’esecutorietà del lodo, è ammesso reclamo mediante ricorso alla corte d’appello, entro trenta giorni dalla comunicazione; la corte, sentite le parti, provvede in camera di consiglio con ordinanza.
Anche per questa disposizione si potrebbe dubitare che la competenza alla dichiarazione di esecutività competa al T.A.R. e non al tribunale ordinario. In tale eventualità, anche il reclamo sarebbe proponibile al Consiglio di Stato e non alla Corte d’appello.
La soluzione dell’interrogativo potrebbe essere condizionata anche dalla problematica generale riguardante la natura del procedimento di exequatur e il potere riservato al giudice della omologazione. Peraltro, se in passato, l’originaria formulazione dell’art. 825 poteva giustificare le opinioni incentrate sulla natura pienamente giurisdizionale del procedimento, è ora più persuasiva la tesi che ridimensiona il ruolo della verifica affidata al tribunale. In particolare, il giudice non potrebbe in alcun modo rifiutare l’omologazione per asserita violazione dei limiti di cui all’art. 12 c.p.a.
L’art. 826 (“correzione del lodo”) prevede che se gli arbitri non provvedono, l’istanza di correzione è proposta al tribunale nel cui circondario ha sede l’arbitrato. Se il lodo è stato depositato, la correzione è richiesta al tribunale del luogo in cui è stato depositato; anche in questo caso si potrebbe porre il dubbio che la competenza spetti al T.A.R. e non al Tribunale ordinario.
Si deve ritenere, infatti, che la correzione non implica alcuna ingerenza sulla verifica dei contenuti del lodo e del procedimento arbitrale.
Seppure disposta dall’autorità giudiziaria, la correzione è considerata comunque attività che integra la formazione del lodo, ancorché di natura sostanzialmente amministrativa o ordinatoria. Né la necessaria previa audizione delle parti ai sensi dell’art. 288 c.p.c. – richiamato dall’art. 828 c.p.c. – può essere considerato argomento per affermare la sua natura decisoria, dal momento che ha il solo scopo di agevolare l’accertamento dell’errore o dell’omissione. Da quanto precede dovrebbe discendere che – anche con riguardo alla correzione – l’intervento della magistratura ordinaria non ha alcun rapporto con l’oggetto del giudizio arbitrale, e quindi con la materia che sarebbe rimessa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Il giudice civile opera come semplice correttore materiale di un’attività rimessa all’arbitro, ma non esercita assolutamente alcuna attività giusdicente, e dunque non invade la sfera di giurisdizione devoluta al giudice amministrativo.
- L’applicazione del Capo V (artt. 827-831 c.p.c.). Il regime di impugnazione del lodo arbitrale
La questione di maggiore interesse pratico e anche sistematico riguarda il regime di impugnazione del lodo arbitrale, di cui all’art. 828 c.p.c.
Mentre non è dubbia la piena operatività dell’art. 827 che elenca i mezzi di impugnazione del lodo, ci si è chiesti se trovi piena applicazione la previsione dell’art. 828, in forza della quale l’impugnazione per nullità si propone, nel termine di novanta giorni dalla notificazione del lodo, davanti alla “corte d’appello” nel cui distretto è la sede dell’arbitrato.
Analogamente, l’art. 831 stabilisce che le impugnazioni per revocazione e per opposizione di terzo si propongono davanti alla corte d’appello nel cui distretto è la sede dell’arbitrato, osservati i termini e le forme stabiliti nel libro secondo.
Si tratta di stabilire, allora, se la generale disposizione di rinvio di cui all’art. 12 c.p.a. comprenda, senza adattamenti, anche tale disciplina, con la conseguenza che il lodo, ancorché riferito ad una controversia devoluta alla giurisdizione amministrativa, sarebbe sindacabile esclusivamente dal giudice ordinario.
In tal modo, però, si obietta che la scelta delle parti di affidare la soluzione della lite all’arbitrato comporterebbe una modifica della stessa giurisdizione sulla controversia, che sarebbe, in ultima analisi, dipendente dalla volontà delle parti.
La deviazione dai principi sarebbe particolarmente marcata, evidentemente, nei casi in cui l’impugnazione per nullità non riguardi il procedimento in sé considerato, ma la violazione, nel merito, delle regole di diritto applicabili alla vicenda contenziosa.
A questa opinione si replica, tuttavia, che il giudizio arbitrale, riferito sempre a diritti soggettivi, assume, ormai, una fisionomia unitaria, che dovrebbe restare insensibile alla astratta appartenenza della controversia all’uno o all’altro plesso giurisdizionale.
D’altro canto, il giudice ordinario è “giudice naturale” dei diritti soggettivi, per cui, una volta consolidata l’interpretazione secondo cui l’arbitrato non potrebbe mai estendersi alla cognizione di interessi legittimi, in base ai parametri costituzionali, non sarebbe illegittima una previsione che riaffermi la giurisdizione ordinaria sulla lite, ancorché attraverso il canale della determinazione consensuale di ricorso all’arbitrato. Evidentemente, però, tale ultimo argomento non sarebbe praticabile qualora si ritenesse che l’arbitrato possa estendersi agli “interessi legittimi”. In tal caso, effettivamente il compromesso avrebbe la conseguenza di trasferire consensualmente la lite dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria.
La giurisprudenza amministrativa in materia, formatasi in epoca anteriore all’entrata in vigore del c.p.a., aveva sostenuto in un primo tempo la tesi secondo cui l’appello contro la pronuncia del lodo arbitrale di cui all’art. 6, L. n. 205/2000, considerata alternativa alla sentenza del Tar, doveva essere proposto davanti al suo giudice naturale, vale a dire lo stesso giudice amministrativo al riguardo competente in sede di appello[44].
Tale indirizzo muoveva dall’assunto secondo cui la controversia suscettibile di essere compromessa per arbitri, dunque, è solo quella che, a seguito dell’accertato illegittimo esercizio della funzione, ha ad oggetto il danno patrimoniale che il relativo titolare assume di aver subito. Del pari compromettibile per arbitri sono solo le pretese patrimoniali nascenti, come nella specie, da un titolo (convenzione) di cui non viene contestata la legittimità, ma se ne pretenda la corretta esecuzione.
La stessa sedes materiae scelta dal legislatore (art. 6, 2° comma, L. n. 205/2000) per disciplinare l’arbitrato evidenzia visivamente la stretta interconnessione di tale giudizio, tanto con la giurisdizione di legittimità quanto con quella esclusiva del giudice amministrativo, entrambe volte ad accertare, secondo quanto si è in precedenza indicato, la legittimità o meno dell’operato della pubblica amministrazione incidente su una situazione pretensiva od oppositiva di un suo asserito titolare. Il giudizio arbitrale è finalizzato a risolvere, con le modalità che sono proprie di tale giudizio una controversia di natura esclusivamente patrimoniale, che si colloca a valle di quella di natura pubblicistica attinente al corretto esercizio del potere pubblicistico di conformazione delle situazioni soggettive dei privati”.
Questo indirizzo, tuttavia, era stato presto contraddetto dalle Sez. un. della Cassazione, secondo cui per l’impugnazione dei lodi arbitrali trova sempre applicazione l’art. 828 c.p.c., che attribuisce non solo la competenza, ma anche la giurisdizione, alla corte di appello nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Prima della novella apportata dalla L n. 25/1994 all’art. 828 c.p.c., la competenza in ordine all’appello sui lodi arbitrali era attribuita al giudice di secondo grado rispetto a quello che avrebbe deciso la lite in mancanza di deferimento ad arbitri. Secondo la Cassazione, la nuova regola che attribuisce in ogni caso la competenza sull’appello avverso i lodi arbitrali alla Corte di appello, avrebbe inteso dettare un criterio di competenza diverso e autonomo, valevole per tutti i lodi arbitrali rituali. Pertanto sull’appello avverso i lodi arbitrali resi ai sensi dell’art. 6, L. n. 205/2000 (ora art. 12 c.p.a.), difetterebbe di giurisdizione il Consiglio di Stato[45].
La tesi delle Sez. un. è stata poi seguita in prosieguo, senza oscillazioni, anche dal Consiglio di Stato, secondo cui i lodi arbitrali resi ai sensi dell’art. 6, L. n. 205/2000 possono essere impugnati solo davanti al giudice ordinario, anche quanto nella relativa materia, se non vi fosse stato il lodo, vi sarebbe stata giurisdizione del giudice amministrativo[46].
È ora del tutto consolidata l’opinione secondo cui l’impugnazione del lodo arbitrale sia proponibile alla competente corte d’appello.
Proprio l’espresso richiamo agli art. 806 e segg. c.p.c., introdotto nell’art. 12 dal decreto correttivo, dovrebbe infatti confermare la lettura interpretativa secondo cui il lodo arbitrale, in mancanza di un’espressa previsione di legge ad hoc, debba essere impugnato dinanzi al giudice ordinario, ossia davanti alla corte d’appello[47].
Resta da chiedersi, poi, se in una prospettiva de iure condendo, di miglioramento della disciplina positiva e di più chiaro funzionamento del sistema non sia preferibile una indicazione legislativa che, in modo espresso, preveda una forma di impugnazione del lodo davanti al giudice amministrativo di appello.
È stato avanzato, al proposito, il dubbio di costituzionalità della vigente soluzione di diritto positivo, sul rilievo della sottrazione della controversia al giudice naturale costituito per legge[48].
Da questo punto di vista, il ricorso all’arbitrato, difatti, rappresenterebbe, indirettamente, uno strumento di deviazione dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: con la conseguenza dell’alterazione e compromissione del fine normativo, consistente nel garantire unicità di sede e concentrazione di tutele all’azione giudiziaria.
Si è anche prospettata una tesi intermedia, in forza della quale alla Corte d’appello sarebbe riservato solo il giudizio rescindente del lodo, impugnato per nullità, mentre la successiva (eventuale) fase rescissoria per la decisione del merito dovrebbe proseguire davanti al T.A.R., o, in alternativa, dinanzi al collegio arbitrale.
Peraltro, anche prescindendo dalla complessità di quest’ultima soluzione, comportante una inevitabile dilatazione di tempi di definizione della lite, per separare la fase rescindente (al giudice ordinario) dalla fase rescissoria (al giudice amministrativo) sarebbe necessario un apposito intervento legislativo. In ogni caso, tale ipotizzata separazione delle fasi del giudizio impugnatorio finirebbe comunque per ingenerare confusione e per reintrodurre elementi di specialità nel rito[49].
- L’applicabilità dell’art. 829 c.p.c. e i limiti all’impugnazione del lodo per motivi di diritto
Un altro dubbio interpretativo riguarda la portata della previsione dell’art. 829, in forza del quale l’impugnazione del lodo “per violazione delle regole di diritto” relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge. È ammessa in ogni caso l’impugnazione delle decisioni per contrarietà all’ordine pubblico.
La disposizione, poi, così confermando il carattere “eccezionale” della impugnazione per motivi di diritto, stabilisce che l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è sempre ammessa soltanto:
1) nelle controversie previste dall’art. 409;
2) se la violazione delle regole di diritto concerne la soluzione di questione pregiudiziale su materia che non può essere oggetto di convenzione di arbitrato.
Come si è già osservato, la norma, se ritenuta pienamente applicabile anche all’arbitrato di cui all’art. 12 c.p.a., potrebbe avere la conseguenza di indebolire il principio secondo il quale per le controversie attribuite alla giurisdizione esclusiva amministrativa è ammesso il solo arbitrato di diritto.
In mancanza di una previsione esplicita che consenta sempre, l’impugnazione per motivi di diritto, qualora la convenzione di arbitrato non la preveda, resterebbe preclusa la possibilità di effettuare un controllo sul merito del lodo.
Si potrebbe replicare che, a stretto rigore, la circostanza che non sia prevista l’impugnazione non è sufficiente a trasformare il procedimento in arbitrato secondo equità.
Infatti, in linea generale, è certamente ipotizzabile una convenzione arbitrale che vincoli gli arbitri a decidere secondo diritto, escludendo, al tempo stesso, l’impugnazione per nullità basata sull’asserita violazione delle norme di diritto. In tal caso, divenuto inoppugnabile il lodo, le parti interessate potrebbero far valere, sussistendone tutti i presupposti, la responsabilità degli arbitri. La piena disponibilità dei diritti soggettivi devoluti al giudizio arbitrale, del resto, non sembrerebbe precludere alle parti di modulare l’ambito del giudizio di impugnazione.
Pertanto, la previsione dell’art. 829 non è formalmente in antitesi con quanto stabilito dall’art. 12 c.p.a. Sarebbe stato preferibile, però, chiarire espressamente questo delicato profilo, nel senso di stabilire espressamente che la violazione delle norme di diritto costituisce sempre motivo di impugnazione per nullità dei lodi relativi a materie affidate alla giurisdizione amministrativa.
- L’applicazione del Capo VI. La prospettiva dell’arbitrato amministrato
Va ritenuta applicabile anche la previsione dell’art. 831, secondo cui la convenzione d’arbitrato può fare rinvio a un regolamento arbitrale precostituito. La norma stabilisce che nel caso di contrasto tra quanto previsto nella convenzione di arbitrato e quanto previsto dal regolamento, prevale la convenzione di arbitrato.
La portata concreta della disposizione, però, non sembra particolarmente significativa.
Al riguardo, infatti, si fronteggiano due contrastanti atteggiamenti: l’uno che intenderebbe incoraggiare la formazione di discipline uniformi di arbitrati amministrati, l’altro che, invece, preferisce valorizzare la massima autonomia delle parti e la riconduzione all’arbitrato di diritto comune.
- L’eccezione di arbitrato è questione di giurisdizione o di competenza?
Qualche difficoltà applicativa pone l’art. 819 ter (“Rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria”). Il dubbio principale riguarda il secondo e il terzo periodo, in forza dei quali la “sentenza, con la quale il giudice afferma o nega la propria competenza in relazione a una convenzione d’arbitrato, è impugnabile a norma degli articoli 42 e 43. L’eccezione di incompetenza del giudice in ragione della convenzione di arbitrato deve essere proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta. La mancata proposizione dell’eccezione esclude la competenza arbitrale limitatamente alla controversia decisa in quel giudizio”.
La disciplina è riferita ai casi in cui il giudice togato ordinario ritenga che la controversia rientri o meno nell’ambito dell’arbitrato. Non è considerata, invece, l’ipotesi in cui la questione sia decisa dal T.A.R.
Sembra ragionevole ritenere che la decisione non vada qualificata come pronuncia sulla competenza, ma, piuttosto, come questione di giurisdizione. Per cui andranno applicate le regole del processo amministrativo riguardanti la rilevabilità della questione e il regime di impugnazione delle sentenze che si pronunciano sulla giurisdizione.
L’incidenza indiretta della convenzione di arbitrato sulla giurisdizione amministrativa pone alcuni ulteriori interrogativi.
Si pensi al caso in cui, a fronte di un ricorso giurisdizionale dinanzi al T.A.R. venga proposta in giudizio una “eccezione di arbitrato”. Se il giudice di primo grado la ritiene fondata, si pone una questione di competenza o di giurisdizione, o di altro genere processuale? E il giudice potrebbe d’ufficio rilevare la presenza di una convenzione arbitrale che preclude la decisione sulla controversia?
La diversa qualificazione incide sul regime di impugnazione della decisione e sui poteri decisori del Consiglio di Stato.
Sembra preferibile ritenere che la questione tocchi, in ogni caso, un profilo afferente la potestas iudicandi del giudice amministrativo: pertanto l’impugnazione dovrà seguire lo speciale rito previsto per il caso di appello avverso la sentenza che nega la giurisdizione amministrativa.
In caso di accoglimento dell’appello, poi, il Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., dovrà rinviare al giudice di primo grado.
A sua volta, però, la decisione del Consiglio di Stato resterebbe impugnabile per cassazione, per motivi inerenti la giurisdizione.
In tal senso si pone la Cassazione, secondo cui l’espressione “motivi attinenti alla giurisdizione”, contenuta nell’art. 360, 1º comma, n. 1, c.p.c., comprende anche l’ipotesi in cui il problema del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo sorge al fine di decidere se una determinata controversia possa essere oggetto di arbitrato e, in particolare, anche nel giudizio di impugnazione del lodo arbitrale, quando la corte investita del gravame deve accertare se sia possibile pronunciare “sul merito”, ai sensi dell’art. 830, 2º comma, c.p.c.[50]
Come si è detto, la Cassazione ne trae la conclusione che l’art. 6, 2° comma, L. 21 luglio 2000, n. 205 trova applicazione anche nei giudizi di impugnazione del relativo lodo introdotti prima della sua entrata in vigore, qualora da ciò derivi la compromettibilità della controversia, in quanto attinente a diritti soggettivi. In concreto, poi, la decisione applica i principi consolidati in tema di perpetuatio iurisdictionis e di giurisdizione sopravvenuta. Tutta la costruzione, peraltro, si basa sull’assunto che la questione riguardante la compromettibilità in arbitri di una controversia attribuita alla giurisdizione amministrativa rientra è questione di giurisdizione[51].
Segnatamente i giudici di legittimità, richiamandosi alla convinzione — all’epoca prevalente in giurisprudenza — circa la natura negoziale dell’arbitrato rituale, avevano affermato che, non essendo gli arbitri rituali organi giurisdizionali, le questioni relative all’esistenza di una convenzione di arbitrato non avrebbero potuto configurarsi “come rapporti di competenza (o di giurisdizione), ma come questioni di merito, in quanto inerenti alla validità, all’efficacia o all’interpretazione del compromesso”. L’attuale revirement è corollario dell’affermazione secondo cui l’arbitrato rituale ha natura giurisdizionale[52].
- Le norme anticorruzione in materia di composizione del collegio arbitrale, previste dalla L. n. 190/2012
Sulla disciplina dell’arbitrato di cui all’art. 12 c.p.a. impattano anche le disposizioni di cui ai commi da 21° a 24° dell’art. 1, L. n. 190/2012, in tema di composizione del collegio arbitrale, dettate per tutti gli arbitrati in cui è parte una p.a. e non per i soli arbitrati relativi a contratti pubblici.
Si stabilisce, in particolare, che:
– la nomina degli arbitri per la risoluzione delle controversie nelle quali è parte una pubblica amministrazione avviene nel rispetto dei principi di pubblicità e di rotazione e secondo le modalità previste dai commi 22°, 23° e 24° dell’art. 1, L. n. 190/2012, oltre che nel rispetto delle disposizioni del codice appalti, in quanto applicabili (art. 1, 21° comma, L. n. 190/2012);
– qualora la controversia si svolga tra due pubbliche amministrazioni, gli arbitri di parte sono individuati esclusivamente tra dirigenti pubblici (art. 1, 22° comma, L. n. 190/2012);
– qualora la controversia abbia luogo tra una pubblica amministrazione e un privato, l’arbitro individuato dalla pubblica amministrazione è scelto preferibilmente tra i dirigenti pubblici. Qualora non risulti possibile alla pubblica amministrazione nominare un arbitro scelto tra i dirigenti pubblici, la nomina è disposta, con provvedimento motivato, nel rispetto delle disposizioni del codice appalti (art. 1, 23° comma, L. n. 190/2012);
– la pubblica amministrazione stabilisce, a pena di nullità della nomina, l’importo massimo spettante al dirigente pubblico per l’attività arbitrale. L’eventuale differenza tra l’importo spettante agli arbitri nominati e l’importo massimo stabilito per il dirigente è acquisita al bilancio della pubblica amministrazione che ha indetto la gara (art. 1, 24° comma, L. n. 190/2012);
– le disposizioni di cui ai commi da 19° a 24° non si applicano agli arbitrati conferiti o autorizzati prima della data di entrata in vigore della L. n. 190/2012 (art. 1, 25° comma, L. n. 190/2012).
- Le prospettive dell’arbitrato. Il nuovo favore per gli strumenti alternativi alla giurisdizione (ADR)
Quali sono le prospettive future dell’arbitrato nella giurisdizione amministrativa? Il quadro di insieme potrebbe indicare segnali contraddittori, a conferma della persistente intensità del risalente dibattito sul ruolo spettante all’arbitrato, in generale, e nel settore specifico del diritto amministrativo.
Come si è detto, l’interesse pratico per l’istituto non sembra ora particolarmente vivo, per cui è ragionevole ritenere che, in un prossimo futuro, l’assetto legislativo attuale non subirà ulteriori modifiche, in direzione di un ipotizzabile ampliamento del suo campo di intervento.
L’espansione dell’arbitrato valorizzerebbe molto il ruolo dell’autonomia delle parti, che tende a essere sempre più riconosciuto nel campo sostanziale amministrativo.
La soluzione arbitrale è da sempre considerata come dotata di un elevato grado di “effettività”, perché affonda le proprie radici nel consenso delle parti e nella loro volontà di sottostare a una decisione adottata nel quadro della reciproca fiducia.
In un contesto caratterizzato dalla consapevolezza che la “giustizia è un bene scarso” (in relazione alle risorse pubbliche richieste per il suo efficace funzionamento), le soluzioni della lite “extra giudiziarie” dovrebbero essere incoraggiate, perché riducono i costi complessivi del sistema e ne aumentano l’efficienza.
Ci dovrebbe chiedere, allora, se non occorra agire sul versante normativo, chiarendo i tre aspetti centrali della disciplina vigente: l’ambito di applicazione, la regolamentazione del procedimento e la definizione della natura della pronuncia arbitrale.
Per quanto riguarda l’ambito, si dovrebbe valutare se estendere l’arbitrato alla cognizione di interessi legittimi, almeno in determinati settori della giurisdizione esclusiva.
Quanto alla disciplina positiva del procedimento, va meglio precisato il raccordo tra il c.p.c. e il c.p.a.: la generica formula di rinvio (diversa da quella generale del “rinvio esterno”, temperato dal limite della “compatibilità”) lascia aperti troppi elementi di incertezza.
Per quanto concerne la “natura” dell’istituto: sembrerebbe difficile ammettere, in prospettiva, l’apertura all’arbitrato irrituale, che pure, forse, potrebbe offrire maggiore rapidità e agilità all’operato dell’organo decisorio, favorendo la conclusione di accordi tra amministrazione e privato.
Per le stesse ragioni, non vi è molto spazio per l’arbitrato secondo equità. Va però osservato che, nel caso di una possibile estensione dell’arbitrato alla cognizione degli interessi legittimi, bisognerebbe distinguere l’equità in senso stretto dalla possibile incidenza sul merito delle determinazioni dell’amministrazione a contenuto discrezionale.
Il sistema della soluzione delle “controversie” astrattamente riconducibili alla giurisdizione amministrativa, in ogni caso, è attraversato da numerosi fermenti di novità.
A) Inizia a farsi strada l’idea di applicare moderni strumenti di ADR anche in questo campo[53].
B) Anche gli istituti della mediazione e della conciliazione cominciano ad essere considerati con molto interesse, quali strumenti idonei a condurre ad una pronta definizione della controversia.
C) Si stanno riscoprendo alcuni strumenti di risoluzione stragiudiziale ante litteram delle controversie, quali i ricorsi amministrativi gerarchici impropri o i ricorsi a soggetti neutrali, come il Difensore civico od altre Autorità indipendenti.
D) Si studia con maggiore attenzione l’istituto dell’“autotutela”, anche ipotizzando l’esistenza di meccanismi di autotutela doverosa (come ipotizzato dalla CGUE e, forse, anche dalla CEDU).
E) Si introducono ipotesi inedite di “precontenzioso” dinanzi all’ANAC (anche sulla falsariga delle indicazioni provenienti dal diritto europeo).
F) In questo ambito si pone anche la nuova azione speciale ANAC, la quale, seppure circoscritta nel suo perimetro di operatività, può essere sollecitata da un’ampia platea di soggetti interessati e può determinare la revisione delle determinazioni assunte dalla stazione appaltante, senza necessità di una pronuncia del giudice.
Si tratta di figure eterogenee, ma caratterizzate dalla comune finalità di prevenire o risolvere il contenzioso senza ricorrere alla tutela giurisdizionale: sul piano sistematico, quindi, forniscono diversi elementi utili per spingere verso una maggiore estensione dell’arbitrato.
Va poi considerato che per le controversie amministrative si pone la necessità di assicurare rapida tutela a posizioni giuridiche “minori”, relative a un contezioso più capillare e diffuso, che difficilmente potrebbe approdare al T.A.R., per gli elevati costi del giudizio e che, del resto, rischierebbe di appesantire il carico dei processi amministrativi.
Anche in questa prospettiva, si potrebbe valutare l’opportunità di sperimentare istituti arbitrali “di massa”, riguardanti, ad esempio le violazioni procedimentali o determinati settori dell’edilizia o del commercio, soggetti ad un “controllo amministrativo mirato”.
- I persistenti possibili ostacoli alla futura espansione dell’arbitrato nella giurisdizione amministrativa
In senso contrario alla possibile dilatazione dell’arbitrato e degli strumenti ADR permangono alcune obiezioni di base, molto serie:
A) Anzitutto, sul versante “culturale”, si pone il dubbio che l’espansione dell’arbitrato nuocerebbe alla giurisdizione amministrativa, erodendone l’importanza, in collegamento con l’affermazione dell’interesse pubblico.
B) In secondo luogo, la riparazione di errori commessi dalla stessa amministrazione espone al rischio di azioni di danno erariale.
C) In terzo luogo, l’esigenza di tutela della legalità potrebbe lasciare intatta la sfiducia verso decisioni vincolanti non assunte dal giudice togato.
Una possibile risposta a queste obiezioni potrebbe essere quella di sperimentare nuove forme di arbitrato amministrato, anche alla luce del nuovo art. 832 c.p.c., riservandone l’esercizio a soggetti iscritti in appositi Albi, sorvegliati da Istituzioni di garanzia e di controllo, sviluppando le nuove linee di tendenza della L. n. 190/2012.
Marco Lipari
Presidente di Sezione del Consiglio di Stato*
Pubblicato l’8 luglio 2019
[1] A. Daidone-F. Patroni Griffi, Ottemperanza e riti speciali, in G. Morbidelli, Codice della Giustizia Amministrativa, Milano, 2015, 1055 e segg.; Per una ricostruzione dei rapporti tra arbitrato e giurisdizione cfr. L. Perfetti, Sull’arbitrato nelle controversie di cui sia parte l’amministrazione pubblica. La necessaria ricerca dei presupposti teorici e dei profili problematici, in Riv. Arb., 2009, 589.
[2] CGAS, 18 maggio 2009, n. 415; T.A.R. Campania, 14 aprile 2009, n 1967.
[3] Cons. Stato, 12 ottobre 2009, n. 6241; Cons. Stato, 28 aprile 2011, n. 2542.
[4] Cons. Stato, 14 aprile 2016, n. 1499, Sez. V, Riv. Arb., 2017, 597, con nota di Clarice Delle Donne, Arbitrato e giurisdizione nella lente dell’ottemperanza davanti al giudice amministrativo: un profilo di differenza ed uno di affinità. Sul tema si veda anche Cristina Asprella, La proponibilità del rimedio dell’ottemperanza ai fini dell’esecuzione di lodo arbitrale esecutivo inoppugnabile, Riv. Arb., 2011, 440; Anna Lipponi, L’azionabilità in sede di ottemperanza del lodo arbitrale, in Dir. Proc. Amm., 2010, 258.
[5] Si veda, al riguardo, l’attenta ricostruzione di J. Polinari, Profili sistematici dell’arbitrato nel diritto amministrativo, Roma 2009
[6] Manfredi, Le stagioni dell’arbitrato: dall’obbligo al divieto, in Urb. e Appalti, 2008, 275; S. Cassese, L’arbitrato nel diritto amministrativo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1996, 321 e segg.
[7] T.A.R. Napoli, (Campania), Sez. III, 1° dicembre 2016, n. 5553.
[8] Cons. Stato, Sez. VI, 3 marzo 2004, n. 1052.
[9] Cass., Sez. un., 30 novembre 2006, n. 25508.
[10] Cass., Sez. un., 27 luglio 2004, n. 14090
[11] Caringella, Commento all’art. 6, c. 2, l. n. 205/2000, in AA.VV., Il nuovo processo amministrativo (a cura di Caringella e Protto), Milano 2001, 525).
[12] In questo senso si pone, fra le tante, Cass., Sez. un., 3 dicembre 1991, n. 12966, Id., 1993, I, 3367, e 4 luglio 1981, n. 4360, Id., 1981, I, 1860, con osservazioni di Barone.
[13] Tra i principali apporti, vanno segnalati: F.G. Scoca, La capacità della pubblica amministrazione di compromettere in arbitri, in AA.VV., Arbitrato e pubblica amministrazione, Milano, 1991, 100; E. Ferrari, Le giurisdizioni amministrative speciali, S. Cassese (a cura di), in Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, 2000, IV, 3601-34; G. Caia, Arbitrati e modelli arbitrali nel diritto amministrativo. I presupposti e le tendenze, Milano, 1989; S.A. Villata, Controversie di pubblico impiego, arbitrato e disapplicazione degli atti amministrativiillegittimi, in Riv. Dir Proc., 2000, 803 e segg.; A. Romano Tassone, L’arbitrato, in AA.VV., Il processo avanti al giudice amministrativo, commento sistematico alla l. 205/2000, II ed., Torino, 2004, 525 e segg.
[14] Così si erano pronunciati, tra gli altri, de Lise, L’arbitrato nel diritto amministrativo, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1990, 1196; Acquarone-Mignone, voce “Arbitrato nel diritto amministrativo, in Digesto Pubbl., I, Torino, 1987, 371 e segg.; Caia, Arbitrati e modelli arbitrali nel diritto amministrativo, Milano, 1989, 205 e segg.
[15] In questo senso si erano espressi, tra i tanti, Andrioli, Procedura arbitrale e regolamento di giurisdizione, in Foro It., 1956, I, 849 e segg.; Verde, Diritto dell’arbitrato rituale, Torino 1997, 27 e segg.; Id., Arbitrato e pubblica amministrazione, in Dir. Proc. Amm., 1996, 221 e segg.; Barrella, Incompatibilità fra giurisdizione esclusiva e arbitrato?, Riv. Arb., 2000, 203 e segg.; Consolo, L’oscillante ruolo dell’arbitrato al crescere della giurisdizione esclusiva e nelle controversie sulle opere pubbliche (fra semi-obbligatorietà ed esigenze di più salde garanzie). Arbitrato e pubblica amministrazione, Milano, 1999, 151 e segg.; Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 1999, II, spec. 142; Selvaggi, Giurisdizione esclusiva ed arbitrato, in Riv. Arb., 1999, 616 e segg.
[16] A. Amorth, Annotazioni sull’arbitrato nelle controversie amministrative, in Studi in onore di Cesare Grassetti, Milano, 1980, 41 e segg.,
[17] T.A.R. Lombardia, Sez. Brescia, 2 settembre 1993, n. 715, in Giust. Civ., 1994, I, 1727; Id. 25 marzo 1980, n. 33, in Foro Amm., 1980, I, 1019; T.A.R. Piemonte 28 giugno 1978, n. 352, in Giust. Civ. 1979, II, 154, che ritiene rilevante la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi nonostante in materia di concessione, l’art. 5, L. n. 1034/1971 rimettesse tutto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dal momento che solo i primi possono essere rimessi alla cognizione degli arbitri
[18] Cass., Sez. un., 5 agosto 1948, n. 1384 (Foro It. 1948, I, 820 e segg.
[19] Decisione 26 agosto 1948, Foro It. 1949, I, 136 e segg.
[20] Cons. Stato, Sez. VI, 8 aprile 2002, n. 1902.
Analogamente, per Cons. Stato, Sez. V, 31 gennaio 2001, n. 354, in Urb. e Appalti, 2001, 9, 1009, con nota di De Pauli, con riguardo a controversie non soggette alla nuova disciplina recata dalla legge n. 205/2000, il potere giurisdizionale degli arbitri esiste solo nell’ambito della giurisdizione del giudice civile, non potendo venire deferite al giudice privato controversie che esorbitano dalla giurisdizione del giudice ordinario per essere attribuite al giudice amministrativo, e questo tanto nell’ambito della giurisdizione di legittimità che in quella esclusiva, con conseguente nullità di eventuali clausole compromissorie
[21]Sez. un., 18 novembre 2008, n. 27336 (ord.).
[22] Foro Amm. CDS, 2006, 403 e segg., con nota di M. Antonioli, Arbitrato e giurisdizione esclusiva: luci e ombre in tema di ius superveniens
[23] Cass., Sez. un., 10 novembre 1994, n. 9356.
[24] Cass., Sez. un., 11 aprile 1990, 3075, in Riv. Arb., 1991, 275.
[25] G. Schizzerotto, Dell’arbitrato, III ed., Milano 1988, 65. R. Carleo, Controversie non compromettibili, in AA.VV., Dizionario dell’arbitrato, a cura di Irti N., Torino 1997, 2657
[26] L. Acquarone, C. Mignone, voce “Arbitrato nel giudizio amministrativo”, cit., 372; V. Gasparini Cesari, Arbitrato e controversie amministrative, in AA.VV., L’arbitrato, profili sostanziali, a cura di G. Alpa, Torino 1999, 1026
[27] In questo senso, si pone, fra gli altri, de P. Lise, L’arbitrato nel diritto amministrativo, 1196, secondo il quale andrebbe considerata “la stretta connessione tra queste posizioni e l’interesse pubblico. Manca in questo caso il requisito della disponibilità della res litigiosa, non potendosi ritenere disponibile, dalla pubblica amministrazione o dal privato, la legittimità dell’esercizio della pubblica funzione, su cui l’interesse legittimo fonda la propria tutela”.
[28] F. Lubrano, Arbitrato e pubblica amministrazione, in Studi Punzi, Torino 2008, II, 492.81
[29] T.A.R. Veneto 1 marzo 2003, n. 1583.
[30] L. Ferrara, L’arbitrato nelle controversie amministrative. In particolare, la compromettibilità degli interessi legittimi, in La giustizia arbitrale, a cura di V. Putortì, Napoli, 2015, 250
[31] Cass., Sez. un., 22 gennaio 1982, n. 427, in Riv. Giur. Edilizia, 1982, I, 611e segg.; Cass., 11 luglio 1978, n. 3479, in Foro It., 1979, I, 820 e segg.; Id. 7 maggio 1981, n. 2979; Id. 2 aprile 1982, n. 2030
[32] F.G. Scoca, La capacità della pubblica Amministrazione di compromettere in arbitri, in AA.VV., Arbitrato e pubblica amministrazione, a cura di G. Alpa, Torino 1999, 106.
[33] F. Pugliese, Arbitrato e p.a., in Contratti 1993, 652.
[34] T.A.R. Lazio, 3 giugno 2005, n. 4362, in T.A.R., 2005, I, 1779
[35] M. Delsignore, La disponibilità degli interessi legittimi: nuovi spazi per la risoluzione extragiudiziale del contenzioso?, Riv. Arb., 2017, 521
[36] Su tale impostazione si possono consultare anche i contributi di G. Greco, Accordi e contratti della pubblica amministrazione tra suggestioni interpretative e necessità di sistema, in Scritti in onore di Giorgio Berti e in Dir. Amm., 2002, 413; G. Marongiu, La pubblica amministrazione di fronte all’accordo. Considerazioni preliminari, in L’accordo nell’azione amministrativa, A. Masucci (a cura di), in Quaderni Regionali del Formez, 1988
[37] Sez. V, 16 marzo 2016, n. 1053, (Riv. Arb., 2016, 3, 487 con nota di Picozza, Devoluzione ad arbitrato delle controversie relative ad accordi di programma).
[38] Consiglio di Stato, Sez. V, 9 ottobre 2013, n. 4960.
[39] A. Sandulli, L’arbitrato nel codice del processo amministrativo, Giornale Dir. Amm., 2/2013, 208
[40] T.A.R. Molise, Sez. I, 16 dicembre 2010, n. 1552; Cass., Sez. un., 16 aprile 2009 n. 8987.
[41] T.A.R. Lombardia, sede di Milano, Sez. III, 19 giugno 2014, n. 1607. La stessa argomentazione volta ad escludere l’ammissibilità dell’arbitrato irrituale è svolta anche da T.A.R. Torino, (Piemonte), Sez. I, 23 maggio 2013, n. 659.
[42] Cass., Sez. I, 19 settembre 2013, n. 21468; Cass., Sez. II, 7 maggio 2013, n. 10599; T.A.R. Molise, Sez. I, 16 dicembre 2010, n. 1552.
[43] Cass. Sezioni unite 16 aprile 2009, n. 8987.
[44] Cons. Stato, V, 19 giugno 2003 n. 3655.
[45] Cass., Sez. un., 3 luglio 2006 n. 15204, ord.
[46] Cons. St., IV, 31.12.2007 n. 6812
[47] Così si esprimono, fra gli altri, già con riferimento all’assetto derivante dalla L. n. 205/2000: Luiso, Arbitrato e giurisdizione nelle controversie devolute al giudice amministrativo, in Riv. Arb., 2001, 421; Verde, Nuove riflessioni su arbitrato e pubblica amministrazione, in Riv. Arb, 2007, 701 e segg.; Romano Tassone, Lodo arbitrale ex art. 6 l. n. 205 del 2000 e giudice dell’impugnazione, in Foro Amm.– Cons. Stato, 2003, 2276; Boccagna, L’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, Napoli, 2005, 320 e segg.; Marinucci, L’impugnazione per nullità di lodo arbitrale reso in materia devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in Riv. Dir. Proc., 2007, 753 e segg. Sull’art. 12 c.p.a., v. invece Sandulli, L’arbitrato nel codice del processo amministrativo, in Giornale Dir. Amm., 2013, 205 e segg.
[48] R. De Nictolis, L’arbitrato delle pubbliche amministrazioni, dalla legge Merloni alla legge n. 166/2002, in Urb. e Appalti, 2002, 1005
[49] Su queste problematiche, si possono vedere, in dottrina: C. Consolo, L’oscillante ruolo dell’arbitrato al crescere della giurisdizione esclusiva e nelle controversie sulle opere pubbliche (fra semi di obbligatorietà ed esigenze di più salde garanzie), in AA.VV., Arbitrato e pubblica amministrazione, Milano, 1980, 154; Id., La giurisdizione del giudice amministrativo si giustappone a quella del giudice ‘‘ordinario’’ e ne imita il processo, Giust. Civ., 2000, II, 537; E. Marinucci, Esito ed effetti dell’impugnazione giudiziaria del lodo arbitrale: note di diritto comparato, Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2000, 1338)
[50] Cass., Sez. un., 14 novembre 2005, n. 22903, citata supra.
[51] Nello stesso senso si pone, adesso, anche la più recente Cassazione; Sez. I civile; sentenza, 8 gennaio 2014, n. 132.
La Corte di cassazione, quindi, muta orientamento rispetto a quanto affermato in Cass., 21 luglio 2004, n. 13516 (Foro It., 2005, I, 941, e Riv Dir. Proc., 2005, 251, con nota critica di Capponi, e Corriere Giur., 2005, 651, con nota di Muroni). Nel 2004, la Suprema corte aveva ritenuto che l’art. 5 c.p.c. riguardasse esclusivamente la giurisdizione e la competenza degli organi giurisdizionali.
[52] L’affermazione di Corte cost., 19 luglio 2013, n. 223 (Foro It., 2013, I, 2690, con note di Acone, D’Alessandro e Frasca), è ora ribadita dal giudice di legittimità, in specie da Cass., Sez. un., ord. 25 ottobre 2013, n. 24153 (Foro It., 2013, I, 3407, con nota di D’Alessandro), così come da Cass., 15 novembre 2013, n. 25735
[53] B. Marchetti, La tutela non giurisdizionale, Riv. Ita. Dir. Pubb. Com., 2017, 423.
* Testo aggiornato della relazione “Arbitrato e giurisdizione amministrativa”, svolta nell’ambito del Convegno “Arbitrato e impresa”, organizzato dall’Università degli studi di Milano, Facoltà di Giurisprudenza, Centro di ricerca coordinato “Studi sulla Giustizia”, Milano, 8 e 9 febbraio 2018. Il contributo è pubblicato nella Rivista Giurisprudenza italiana, 2019.