22/01/2019 - “L’autotutela amministrativa: profili applicativi ed esperienze a confronto”
Convegno su “L’autotutela amministrativa: profili applicativi ed esperienze a confronto”
In data 6 dicembre 2018 si è svolto, presso la sala udienze del Tribunale Amministrativo Regionale di Reggio Calabria, un convegno dal titolo “L’autotutela amministrativa: profili applicativi ed esperienze a confronto”, organizzato dalla Camera degli Avvocati Amministrativisti di Reggio Calabria.
Dopo i saluti introduttivi si sono susseguiti diversi interventi, volti ad analizzare profili classici, ma allo stesso tempo critici e molto dibattuti, sia in dottrina che in giurisprudenza, di un istituto da sempre centrale nel diritto amministrativo, sostanziale e processuale.
Il primo intervento, dal titolo “Autotutela e potere amministrativo: attualità di un problema”, è stato effettuato dalla Prof.ssa Anna Romeo, Ordinario di Diritto Amministrativo della facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Messina.
Dopo una premessa di carattere generale sulla natura dell’autotutela amministrativa, tradizionalmente intesa come espressione tipica del potere amministrativo, analizzando l’istituto in una prospettiva storico-evolutiva, la Prof.ssa Romeo ha focalizzato l’attenzione su una questione che si rivela oggi, alla luce degli interventi di modifica della L. 7 agosto 1990. n. 241, di particolare attualità.
Ci si interroga, infatti, se - anche alla luce delle modifiche intervenute negli ultimi anni che sembrano impostare su basi nuove una questione antica e da sempre molto discussa - attraverso l’autotutela l’Amministrazione ponga in essere un riesercizio del medesimo potere esercitato in primo grado oppure se essa eserciti poteri specifici, diversi nella struttura e nei limiti dai poteri di primo grado.
La constatazione preliminare che è stata effettuata dalla docente è che tradizionalmente la nozione di autotutela è stata intesa come strettamente legata a quella di potere, ed in particolare a quel tratto caratterizzante del potere pubblico costituito dall’ultrattività ed inconsumabilità, di cui è stata considerata rappresentazione.
Alla base della teoria dell’inconsumabilità del potere risiede l’idea che il potere sia unico, un’entità generale e astratta, identico e non scomponibile in tante situazioni giuridiche quanti sono i diversi rapporti sui quali incide, e come tale appunto inesauribile.
Pienamente coerente con questa concezione di autotutela risulterebbe, poi, la riforma del 2005 con la quale sono stati introdotti nella l.n. 241 del 1990 gli articoli 21-quinquies e 21-nonies che, appunto, configurano la revoca e l’annullamento d’ufficio come potestà generali dell’Amministrazione e, comunque, strumenti di cura dell’interesse pubblico concreto e non di mero ripristino di una legalità violata.
Secondo la concezione tradizionale, confermata dalla regolamentazione espressa delle forme più tipiche del potere di riesame dell’Amministrazione, il fondamento degli atti di secondo grado deve, quindi, essere rinvenuto nel riesercizio del potere originario.
Questa concezione tradizionale del potere di autotutela è stata condivisa anche dalla giurisprudenza più recente, non solo amministrativa, ma anche costituzionale; in particolare la Corte Costituzionale ha ribadito, nel 2016, che l’annullamento si colloca nello “snodo delicatissimo del rapporto tra il potere amministrativo ed il suo riesercizio, da una parte, e la tutela dell’affidamento del privato dall’altra” (sent. 9 marzo 2016, n. 49).
Secondo la Prof.ssa Romeo, però, muovendo dalle considerazioni tradizionali che il Consiglio di Stato ha assunto con riguardo ai poteri di autotutela dell’Amministrazione, occorre pure considerare una recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria, la n. 8 del 2017, la quale ha rilevato che la teoria dell’incosumabilità del potere meriterebbe “di essere, almeno in parte, rimeditata nell’attuale fase di evoluzione del sistema che postula una sempre maggiore attenzione al valore della certezza delle situazioni giuridiche ed alla tendenziale attenuazione dei privilegi riconosciuti all’Amministrazione, anche quando agisce con poteri squisitamente autoritativi e nel perseguimento di primarie finalità di interesse pubblico” (Cons. St., Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8).
A ciò si aggiunga che, anche la nuova disciplina individua ulteriori limiti, oltre quelli che già dall’esterno circoscrivevano i poteri di secondo grado dell’Amministrazione (quale l’obbligo di ponderare l’interesse alla rimozione del provvedimento con gli interessi opposti dei privati, il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio, l’obbligo di indennizzare il soggetto danneggiato dalla revoca), finalizzati alla tutela dell’interesse del cittadino.
La riflessione che, perciò, le riforme legislative e la più recente posizione della giurisprudenza inducono a fare sono nel senso che, in materia di autotutela emerge un nuovo scopo, ossia quello di conferire al provvedimento una maggiore stabilità, in quanto i nuovi limiti si muovono nella logica della certezza del diritto a garanzia dei diritti individuali.
Alla luce delle superiori premesse, si mette in discussione la possibilità di continuare a ravvisare quale fondamento dogmatico degli atti di autotutela l’inesauribilità del potere amministrativo, proprio in quanto il potere di ritiro, nella sua nuova connotazione, non si configura più come possibilità generale i cui limiti sono da accertare in concreto, ma appare invece limitato in astratto e dotato di una conformazione propria e autonoma rispetto al potere di provvedere.
Inoltre, la diversità dei poteri amministrativi di primo grado con i poteri di riesame di secondo grado è ravvisabile anche, ma non solo, alla luce degli interessi pubblici al cui perseguimento i poteri sono preposti: mentre i primi sono poteri conferiti all’Amministrazione per la cura di interessi pubblici di settore che si configurano come tali in relazione agli ambiti materiali di riferimento, i secondi, invece, hanno carattere trasversale, in quanto non corrispondono ad un interesse pubblico di settore individuato dalla legge, poiché, seppure l’interesse pubblico di settore viene in considerazione nelle decisioni di secondo grado, non rappresenta lo scopo concreto di tali decisioni, ma soltanto uno degli interessi che l’Amministrazione valuta in quell’attività di ponderazione e di comparazione discrezionale che opera e nella quale, peraltro, ha minore possibilità di prevalere di quanta ne abbia nella decisione di primo grado.
In conclusione, quindi, secondo la relatrice, la ricostruzione del potere di autotutela nei termini che riemergono dal nuovo assetto normativo e dalle riflessioni più recenti della giurisprudenza amministrativa, può costituire il presupposto per un aggiornamento della concezione tradizionale e risalente di un istituto fondamentale, com’è quello dell’autotutela amministrativa.
Il secondo intervento del congresso, dal titolo “Gli effetti dell’autotutela amministrativa sul contratto d’appalto”, è stato svolto dalla Dott.ssa Agata Gabriella Caudullo, magistrato in servizio presso il T.a.r. di Reggio Calabria.
Dopo aver preliminarmente esaminato gli orientamenti che si sono susseguiti nel tempo in ordine all’ammissibilità dell’intervento in autotutela da parte dell’Amministrazione dopo la stipula del contratto di appalto, la Dott.ssa Caudullo ha focalizzato l’attenzione sulla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 20 giugno 2014, con la quale il Consiglio di Stato ha adottato una posizione chiara sulla questione, da sempre molto controversa in giurisprudenza, relativa all’ammissibilità del potere di revoca, ai sensi dell’art. 21-quinquies della L. n. 241 del 1990, sull’aggiudicazione dopo la stipula del contratto.
In merito, così come puntualmente precisato dalla Dott.ssa Caudullo, il Supremo Consesso ha ritenuto che, una volta intervenuta la stipulazione del contratto per l’affidamento dell’appalto di lavori pubblici, l’Amministrazione non possa più esercitare il potere di revoca dovendo, eventualmente, intervenire con l’esercizio del diritto di recesso in virtù dell’art. 134 del codice dei contratti (all’epoca il D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163): in particolare, la sentenza ha concluso nel senso di escludere lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione dopo la stipula del contratto negli appalti di lavori, ammettendola solo prima della stipula del contratto, e per ammetterla, invece, nel caso di stipula di un contratto di appalto di servizi e forniture.
Ha, però, in ogni caso, fatto salvo il rimedio dell’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione, anche dopo la stipula del contratto, in virtù dell’art. 1, comma 136, della L. 30 dicembre 2004, n.311.
Lo stesso Consiglio di Stato, poi, con la recente sentenza n. 1310 del 22 marzo 2017, ha pacificamente ammesso che il riferimento all’art. 1, comma 136, della L. n. 311 del 2004 debba intendersi in senso più ampio come richiamo all’art. 21-nonies, comma 1, della L. n. 241 del 1990, laddove tale norma, facendo riferimento ai provvedimenti attributivi di vantaggi economici, non può non ritenersi inclusiva anche del provvedimento di affidamento di una pubblica commessa.
Il fondamento del potere di autotutela in materia di appalti viene, quindi, ravvisato nella L. n. 241 del 1990, oltre che nell’art. 32, comma 8, del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, cioè del vigente codice degli appalti.
È opportuno, inoltre, precisare che l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50 del 2016 ha comportato l’inammissibilità dell’esercizio del potere di revoca dopo la stipula del contratto di appalto, non soltanto qualora lo stesso avesse ad oggetto lavori e opere, ma anche laddove avesse ad oggetto servizi e forniture, poichè la disciplina dei poteri di recesso e di risoluzione nel nuovo codice si configura come unitaria per tutte le tipologie di appalti.
Dopo aver preliminarmente affrontato e chiarito la questione fondamentale dell’esercizio dei poteri di autotutela amministrativa in materia di appalti, ribadendo come l’Adunanza Plenaria abbia ammesso per le ragioni prima riferite l’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione dopo la stipula del contratto, la relatrice ha trattato un altro aspetto problematico e centrale della materia in oggetto, vale a dire quello delle conseguenze del predetto annullamento sul contratto stipulato.
Anche in questo caso, dopo aver condotto un breve excursus sulle evoluzioni dottrinarie e giurisprudenziali in materia, formatisi precedentemente al recepimento della direttiva 2007/66/CE dell'11 dicembre 2007 con il D.Lgs. n. 53 del 20 marzo 2010 e a seguito dell’introduzione del Codice del processo amministrativo e, in particolare, degli artt. 121 e 122 che fanno espresso riferimento al potere del giudice amministrativo di dichiarare l’inefficacia del contratto, la relatrice ha richiamato l’attenzione sull’orientamento prevalente in giurisprudenza, coerente con quanto già espresso sul punto dall’Adunanza Plenaria n.14 del 2014, la quale già all’epoca faceva espressamente riferimento, sul piano degli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione definitiva del contratto di appalto, ad un concetto di “caducazione automatica” degli effetti dello stesso, per la stretta conseguenzialità funzionale tra l’aggiudicazione della gara e la stipulazione del contratto.
Secondo questo orientamento, confermato di recente dallo stesso Consiglio di Stato con la citata sentenza n. 1310 del 2017, si potrebbe, inoltre, estendere l’applicabilità degli artt. 121 e 122 del Codice del processo amministrativo, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo del potere di conoscere delle sorti del contratto, anche allorché l’annullamento non sia avvenuto in sede giurisdizionale, ma sia avvenuto in sede di autotutela.
A ciò si aggiunga che la giurisprudenza amministrativa, spingendosi oltre, anche alla luce di quanto affermato dallo stesso Consiglio di Stato con la sentenza n. 5032 del 7 settembre 2011, ha ritenuto che debba estendersi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la valutazione degli effetti di caducazione automatica del contratto di appalto, nel caso in cui il giudice sia chiamato a decidere sulla legittimità del provvedimento di annullamento in autotutela.
Il giudice amministrativo, quindi, pure decidendo sull’annullamento dell’annullamento in autotutela sarà chiamato a decidere sulle sorti del contratto, e dunque sulla reviviscenza del contratto stesso.
Il terzo intervento del congresso, dal titolo “La compliance dell’autotutela nelle aree di rischio della corruzione amministrativa: tra buona amministrazione, performance e risk assessment”, è stato svolto dall’Avvocato Concettina Siciliano, componente del direttivo della Camera degli Avvocati amministrativisti di Reggio Calabria.
Il tema della sua relazione si colloca nell’ambito del corpus normativo che viene definito come “Diritto dell’anticorruzione”.
Si tratta di un corpus normativo che non ha una sua autonomia scientifica, in quanto presenta momenti di continuità rispetto alla disciplina del passato, raccogliendo la consapevolezza formatasi sulle norme del procedimento amministrativo e sulle norme che riguardano la prevenzione e la repressione di fattispecie caratterizzanti la cattiva amministrazione, ma ha anche degli elementi di discontinuità rispetto al passato, trattandosi di norme che inducono gli operatori del diritto a fare propri i nuovi concetti generalmente diffusi nel mercato privato.
L’attenzione rispetto alla prevenzione dei rischi di devianza dell’esercizio del potere è tale che, sul piano convenzionale, la normativa internazionale degli standard si è arricchita recentemente di una nuova norma, ossia lo standard UNI ISO 37001:2016, o meglio dell’anti bribery management system: vale a dire, un sistema di norme che disciplina metodiche procedimentali, orientate alla funzione di prevenzione della corruzione all’interno degli enti pubblici e privati.
L’Avvocato Siciliano, durante il suo intervento, ha più volte sottolineato che, anche nel settore pubblico, il nuovo paradigma è quello che ha come priorità l’efficacia e l’efficienza dell’organizzazione nel rispetto della conformità alle regole, rappresentando come, nella realizzazione di questo profondo cambiamento culturale ed organizzativo, assuma un ruolo fondamentale l’attività di internal-auditing, intendendosi con tale nozione la funzione di controllo e monitoraggio che si esplica all’interno dello stesso processo.
In quest’ottica emerge un nuovo approccio ai temi del processo e dei procedimenti amministrativi: lo standard del risk management o la norma ISO 31000:2018, citati nel Piano Nazionale Anticorruzione, spingono le Pubbliche Amministrazioni e le organizzazioni in generale (siano esse piccole, medie o grandi imprese) ad affrontare le tematiche connesse alla probabilità del verificarsi di eventi che rendono incerto il raggiungimento dei propri obiettivi e ad adottare processi coerenti all’interno di una struttura di riferimento generale per contribuire ad assicurare che il rischio sia gestito efficacemente in maniera coerente in tutta l’organizzazione.
L’Avvocato ha, inoltre, posto l’attenzione sul significato che assume il concetto di qualità, nell’ambito di questa impostazione tradizionale, riferendosi al rapporto tra la realizzazione e l’attesa: la qualità, nell’accezione più antica e più tradizionale, ha a che fare con il “fare”, con il “do”.
Il tema della quality, inoltre, si arricchisce di ulteriori fasi che sono collegate alla fase della programmazione, ed ancora di più, della ruota di Deming, o meglio del ciclo comunemente noto del PDCA: plan, do, check, act.
Questa ruota consente di implementare, nell’ambito delle organizzazioni lavorative, il processo di miglioramento continuo attraverso l’innovazione. Il ciclo del PDCA, in particolare, distingue la fase del plan, cioè della programmazione, dalla fase del do, cioè del mettere in pratica la programmazione che l’ente o l’ufficio si è dato, e la fase del check che attiene alla funzione di monitoraggio.
Si tratta di strumenti di gestione che tendono a stimolare la crescita ed il miglioramento continuo dell’organizzazione, attraverso la prevenzione e la riduzione dei rischi di cattiva amministrazione.
La relatrice definisce, infatti, la corruzione come <<un fenomeno che nuoce gravemente alla salute>>, quella tara che penetrando in ogni ambito della vita sociale e pubblica disorienta e compromette nel lungo periodo la sostenibilità delle politiche pubbliche.
Sul piano fenomenico, quindi, la corruzione si concretizza nell’assunzione di decisioni e provvedimenti, sulla programmazione e gestione di risorse pubbliche, che determinano un assetto di interessi deviati dalla funzione pubblica, in quanto discostati dalla cura dell’interesse generale per la realizzazione di uno scopo utilitaristico.
In altre parole, può dirsi che la corruzione consiste nel condizionamento improprio della gestione pubblica per la realizzazione di interessi particolari.
La nuova normativa anticorruzione ha quale scopo, quindi, quello di indirizzare e condizionare la Pubblica Amministrazione alla rimeditazione dei propri processi organizzativi interni e a dei propri procedimenti finalizzati al raggiungimento di interessi pubblici che trovino corrispondenza e realizzazione nei risultati, coerenti quindi agli obiettivi programmati.
In conclusione, secondo l’Avvocato Siciliano, perché ciò accada e continui ad accadere, e perché si realizzi una crescita esponenziale dei livelli di qualità nell’organizzazione amministrativa, è necessario predisporre un processo interno di monitoraggio e di controllo costante: e, proprio nella funzione di monitoraggio e di controllo che l’esercizio del potere di autotutela e di riesame della Pubblica Amministrazione diventa un aspetto centrale ed assume il suo ruolo più specifico.
Con un intervento dal titolo “Autotutela amministrativa e autotutela tributaria: profili di comparazione” poi, l’Avvocato dello Stato Adele Quattrone ha avuto modo di analizzare, in una prospettiva critica, una delle più importanti e significative espressioni di autotutela amministrativa presenti nel nostro ordinamento.
L’autotutela tributaria è, infatti, una forma di autotutela amministrativa e quindi anch’essa è espressione del potere dell’Amministrazione di farsi giustizia da sé, cioè di risolvere direttamente ed autonomamente i conflitti insorti o potenziali relativi ai suoi provvedimenti nei confronti di soggetti terzi dell’ordinamento; la stessa, però, presenta delle peculiarità che la contraddistinguono dall’autotutela amministrativa, come tradizionalmente intesa.
Tale forma di autotutela rinviene il suo fondamento nella Costituzione, ed in particolare negli articoli 23 e 53 dai quali si ricavano i principi fondamentali in materia tributaria, e cioè il principio secondo cui nessun tributo può essere imposto se non in base alla legge, il principio per cui ciascun cittadino deve concorrere alle spese pubbliche secondo la propria capacità contributiva, e, infine, il principio della giusta tassazione secondo cui il cittadino non può essere sottoposto ad una tassazione ingiusta, i quali ultimi costituiscono il fondamento e la ragione giustificatrice del potere di riesame degli atti dell’Amministrazione finanziaria.
Le premesse condotte dall’Avvocato Quattrone, al fine di condurre un’analisi approfondita delle differenze sostanziali esistenti tra le due forme di autotutela, hanno investito la questione, da sempre molto dibattuta in dottrina, della natura giuridica dell’autotutela tributaria.
Secondo una prima tesi, prospettata ed avallata dall’Avvocato dello Stato, l’autotutela tributaria avrebbe carattere vincolato, e questo la differenzierebbe subito dall’autotutela amministrativa, in quanto l’autotutela amministrativa è stata tradizionalmente considerata, da dottrina e giurisprudenza, come un potere discrezionale dell’Amministrazione, trattandosi di un potere il cui esercizio è condizionato dall’esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale.
Ed in tal senso, l’articolo 2-quater del D.L. 30 settembre 1994, n. 564, non contiene alcun riferimento all’interesse pubblico, attuale e concreto, quale presupposto per l’esercizio del potere, ma sembra invece collegare direttamente l’annullamento d’ufficio alla verifica dell’illegittimità o dell’infondatezza del provvedimento impositivo.
La conseguenza, sul piano della tutela giurisdizionale, è che se esiste un obbligo dell’Amministrazione non solo di procedere a fronte dell’istanza di autotutela ma anche di provvedere con un atto espresso (che potrà ovviamente essere di conferma o di annullamento d’ufficio), l’eventuale inerzia dell’Amministrazione sarà configurabile come inadempimento, e, quindi, il contribuente potrà adire le Commissioni tributarie contestandone il silenzio.
Alla tesi della natura vincolata si è tradizionalmente contrapposta la tesi della natura pienamente discrezionale del potere di autotutela dell’Amministrazione finanziaria, secondo cui è lo stesso legislatore che ha trovato il punto di equilibrio tra il principio della giusta tassazione ed il principio di certezza e stabilità delle situazioni giuridiche, attraverso lo strumento dell’impugnazione dei provvedimenti in materia fiscale nei termini di decadenza.
Tesi, questa, avallata dalla Corte Costituzionale, la quale con la recente sentenza n. 181 del 13 luglio 2017, chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale dell’articolo 2-quater del D.L. n. 564 del 1994 e dell’articolo 19 del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ha avuto modo di affermare che l’autotutela tributaria è un potere rimesso alla valutazione ampiamente discrezionale dell’Amministrazione finanziaria e non uno strumento di protezione del contribuente.
Questa oscillazione dottrinale e giurisprudenziale sulla natura dell’autotutela tributaria ha avuto delle ricadute anche sul dibattito relativo alla sindacabilità (e, conseguentemente, relativo ai limiti della stessa) sull’atto di diniego, espresso o tacito, adottato dall’Amministrazione finanziaria a seguito di istanza privata di autotutela.
In merito, se in una prima fase è sembrato prevalere l’orientamento della natura assolutamente discrezionale dell’autotutela, sin dal 2007 si sono registrate delle sentenze della Corte di Cassazione a Sezioni Unite di sostanziale apertura verso la giustiziabilità del provvedimento di secondo grado dell’Amministrazione finanziaria, ed in particolare viene in rilievo la sentenza n. 7388 del 27 marzo 2007 delle S.U. della Suprema Corte, la quale, proprio partendo dalla natura discrezionale del potere di autotutela tributaria, ha affermato però la sindacabilità del provvedimento emesso in sede di autotutela, rinvenendone il fondamento negli articoli 103 e 113 della Costituzione, i quali consentirebbero un sindacato giurisdizionale proprio del potere discrezionale dell’Amministrazione.
Secondo la Corte, infatti, il giudice sarebbe legittimato a verificare il corretto utilizzo del potere, e quindi, anche nel caso dell’autotutela tributaria, il giudice risulterebbe legittimato a verificare se l’Amministrazione finanziaria ha fatto corretto uso del potere.
Nella pronuncia in questione, poi, la Corte di Cassazione si è spinta oltre affermando che, se il provvedimento di secondo grado dovesse limitarsi ad una mera conferma, allora il giudice potrà e dovrà limitarsi a conoscere dei vizi dell’atto di secondo grado, senza poter sindacare e verificare la fondatezza della pretesa tributaria perché questo significherebbe sostituirsi all’Amministrazione nell’esercizio del suo potere discrezionale; se invece l’atto di riesame dell’Amministrazione finanziaria dovesse essere un atto confermativo dell’atto impositivo originario ma con una nuova motivazione, allora il giudice potrà, verificando la legittimità dell’atto del diniego espresso, anche verificare la fondatezza della pretesa tributaria.
La sentenza della Corte di Cassazione (che poi ha avuto altre riaffermazioni nel 2009) è stata però criticata da altra parte della giurisprudenza di legittimità che, con la sentenza n. 9669 del 23 aprile 2009, è tornata ad affermare che il controllo giurisdizionale debba sempre mantenersi nei limiti dei vizi di legittimità propri dell’atto impositivo, al fine di evitare che attraverso il sindacato sull’atto di secondo grado, e quindi direttamente sulla fondatezza della pretesa tributaria, si finisca con sindacare l’atto impositivo originario, finendo, così, con l’aggirare i termini di decadenza e rimettere, in sostanza, in termini il contribuente.
Alla luce degli approfondimenti condotti, in conclusione, quindi, secondo l’Avvocato Quattrone sono evidenti la peculiarità che possiede il potere di autotutela in materia tributaria, che viene, quindi, dalla stessa inteso come un potere “a discrezionalità limitata”, il cui esercizio non è subordinabile ad una valutazione discrezionale dell’interesse pubblico, attuale e concreto, perché l’interesse pubblico, sotteso al suo esercizio, consiste nell’interesse alla giusta tassazione e coincide con quello del contribuente a non subire una pretesa ingiusta.
Inoltre, conclude l’Avvocato dello Stato, è da ritenersi preferibile la tesi della natura vincolata dell’autotutela tributaria, anche in considerazione della differenza ontologica esistente tra il potere amministrativo ed il potere impositivo dell’Amministrazione finanziaria: nell’esercizio della funzione amministrativa generale è l’Amministrazione che determina il contenuto del provvedimento, mentre nell’esercizio del potere tributario l’Amministrazione finanziaria ha il potere di accertare direttamente l’entrata tributaria e di conseguirla, però non ha alcun potere determinativo del contenuto del provvedimento, perché questo è predeterminato dalla legge che stabilisce la base imponibile e l’aliquota.
Quindi la pretesa tributaria, in ultima analisi, può essere considerata come un diritto soggettivo pubblico, un credito, che, come nel campo privato, esiste o non esiste, e quindi, conseguentemente, laddove non dovesse esistere, onde evitare un’appropriazione indebita di denaro dei privati, all’Amministrazione non resta altro da fare che prenderne atto e ritirare il provvedimento viziato, al fine di garantire il rispetto del principio di rango costituzionale della giusta tassazione.
In ultimo è intervenuta al convegno la Dott.ssa Claudia Cimino, Dirigente della Direzione Provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Reggio Calabria, la quale, alla luce della propria esperienza, ha rappresentato come frequente sia l’applicazione dell’istituto dell’autotutela nelle Amministrazioni finanziarie, ed in particolar modo frequente, proprio perché l’attività degli uffici finanziari si traduce prevalentemente in atti tipici, sia il ricorso all’autotutela demolitoria che si traduce essenzialmente in annullamenti.
Un’altra forma di autotutela alla quale ricorre l’Amministrazione finanziaria, così come emerge dalla prassi, è l’autotutela sospensiva, prevista espressamente dall’art. 2-quater, comma 1 bis, del D.L. n. 564 del 1994, con cui è stato chiarito che nel potere di annullamento di un atto è compreso il potere di sospenderne gli effetti. Si tratta di un potere di natura evidentemente strumentale che serve, da un lato, a tutelare l’interesse del cittadino a non subire un pregiudizio potenzialmente irrevocabile e dall’altro a tutelare l’interesse dell’Amministrazione a non dover annullare subito l’atto prima che sia concluso il procedimento di riesame.
Un profilo problematico legato all’esercizio del potere di autotutela in materia tributaria che, alla luce di quanto rappresentato dalla Dott.ssa Cimino emerge spesso nella prassi applicativa, è quello della mancata previsione di un termine per l’esercizio dell’autotutela.
Sebbene l’intento delle Pubbliche Amministrazioni sia quello di esaminare tutte le richieste di autotutela e di adottare il provvedimento, positivo o negativo, entro il termine di 60 giorni previsto per proporre impugnazione innanzi alla Commissione tributaria, il D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, chiarisce che l’autotutela può comunque intervenire anche se l’atto è divenuto definitivo, quindi non necessariamente l’inutile decorso del termine di impugnazione preclude l’esercizio del potere di autotutela.
Un ultimo spunto riflessivo è stato poi rivolto all’istituto dell’autotutela parziale, espressamente normato dal D.lgs. 24 settembre 2015, n. 159, il quale ha introdotto i commi dall’1-sexies all’1-octies dell’art. 2-quater del D.L. n. 564 del 1994, sul quale già in passato la giurisprudenza aveva avuto modo di fornire chiarimenti rilevando come il predetto istituto non si traducesse in un nuovo atto, ma costituisce una rettifica in diminuzione dell’originaria pretesa fiscale, determinando, come conseguenza, che il termine di impugnativa del provvedimento parzialmente riformato decorresse dalla data di notifica dello stesso.
Le conclusioni sono state svolte dall’Avvocato Rosario Infantino, Presidente della Camera degli Avvocati Amministrativisti di Reggio Calabria, il quale, dopo aver rivolto i suoi più sentiti ringraziamenti ai relatori e a tutti i soggetti intervenuti nel convegno e aver brevemente tratteggiato i punti essenziali delle relazioni, ha concluso con una riflessione generale sulla materia oggetto del congresso, richiamando un principio di matrice civilistica, e cioè il principio del raggiungimento dello scopo dell’atto, al fine di considerare e rivedere l’esercizio del potere di autotutela amministrativa alla luce di questo principio generale.
Dott.ssa Marta Cavallaro e Dott.ssa Anna Speciale
Tirocinanti presso il Tar di Reggio Calabria
21 gennaio 2019