17/01/2019 - Semplificazione del procedimento amministrativo: la Consulta boccia la Regione Abruzzo
Semplificazione del procedimento amministrativo: la Consulta boccia la Regione Abruzzo
di Michele Deodati - Responsabile SUAP Unione Appennino bolognese e Vicesegretario comunale
Semplificare la burocrazia è difficile. Ancor più in Italia, il Paese delle lobby, delle frammentazioni e dei campanilismi. Con il decreto legislativo Scia1 (D.Lgs. n. 126 del 2016), che ha proseguito il percorso della modulistica unificata, lo Stato è riuscito in un'impresa titanica: fare tabula rasa dei moduli per avviare un'attività economica o presentare una pratica edilizia, diversi da un Comune all'altro. Da più di 8.000 moduli diversi, tanti sono i Comuni in Italia, si è passati ad un unico modulo uguale per tutti. Un cambiamento importante per evitare disparità tra territori che si riflettono direttamente sulle possibilità di accesso al mercato.
Le semplificazioni sono poi proseguite con il D.Lgs. n. 127 del 2016, che ha potenziato il ruolo della Conferenza di servizi, trasformandola in uno strumento per il quale il digitale è la regola, con la possibilità di superare l'inerzia attraverso decadenze e termini certi.
Ma quello che lo Stato è riuscito a fare uscire dalla porta, le Regioni rischiano di farlo entrare dalla finestra. Ultimo esempio di questo "controcanto" in materia di semplificazioni, riguarda la L.R. Abruzzo n. 51 del 2017, intitolata in modo altisonante "Impresa Abruzzo competitività - sviluppo - territorio", che il Governo ha impugnato davanti alla Corte costituzionale per supposta violazione dei richiamati provvedimenti statali in materia di semplificazione, quali norme interposte, con riferimento alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.) e alla tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.), che come sappiamo sono materie di competenza esclusiva della legislazione statale. Con la Sentenza n. 246 del 27 dicembre 2018, la Corte ha accolto il ricorso.
In particolare, le norme impugnate modificano la disciplina di alcuni profili del procedimento amministrativo, in asserito contrasto con quanto previsto dalla normativa statale. Tuttavia, non si incide sul preesistente tessuto normativo regionale in materia di procedimento amministrativo, ma si interviene nel solco tracciato dalla L. n. 180 del 2011, che introduce lo Statuto delle imprese. La Corte, pur nella molteplicità delle censure, ha ritenuto sussistente un'unica ragione di impugnazione, legata alla finalità dell'art. 6, comma 1, secondo il quale "i procedimenti amministrativi relativi all'avvio, svolgimento, trasformazione e cessazione di attività economiche, nonché per l'installazione, attivazione, esercizio e sicurezza di impianti e agibilità degli edifici funzionali alle attività economiche" sono sostituiti da una comunicazione unica regionale (CUR) resa allo Sportello unico attività produttive (SUAP). Altre censure sono state sollevate, tra l'altro, nei confronti delle norme regionali che ridisegnano le funzionalità inerenti la Conferenza di servizi e delle norme regionali che attribuiscono alla Giunta regionale le competenze a definire i requisiti di allegare alla cosiddetta CUR.
Incostituzionalità dell'art. 6, comma 1, L.R. n. 51 del 2017: disparità tra CUR e SCIA
Ritenendo fondate le censure mosse nei confronti dell'art. 6, comma 1, L.R. n. 51 del 2017, la Corte ha evidenziato la finalità di semplificazione e snellimento delle procedure insita nel principio unificante espresso della modulistica unificata standard e dalla concentrazione dei procedimenti mediante Scia unica. La norma regionale impugnata - prevedendo "una comunicazione unica regionale (CUR) resa al SUAP dal legale rappresentante dell'impresa ovvero dal titolare dell'attività economica, sotto forma di dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, che attesti la presenza nel fascicolo informatico d'impresa o il rilascio da parte della pubblica amministrazione dei documenti sulla conformità o la regolarità degli interventi o delle attività" - ha introdotto una nuova forma di comunicazione che sostituisce quelle già previste dal legislatore statale nello Scia1. E' infatti la stessa norma regionale impugnata a dire espressamente che la CUR "sostituisce" i procedimenti amministrativi "il cui esito dipenda esclusivamente dal rispetto di requisiti e prescrizioni di leggi, regolamenti o disposizioni amministrative vigenti". La Corte costituzionale ha proseguito sostenendo che la norma regionale non realizza una semplificazione del procedimento, finendo anzi per tradursi in un'inutile complicazione per gli operatori economici che, di volta in volta, dovranno preventivamente stabilire se, ed eventualmente in che misura, essi sono tenuti alla CUR o alle diverse forme di comunicazione previste dalla normativa statale. Tutto ciò si traduce in un aggravamento degli oneri cui sono tenute le imprese.
Il Supremo Collegio ha ribadito che la modulistica unificata standard ha il pregio di uniformare le procedure, e soprattutto di garantire agli operatori le medesime condizioni di partenza su tutto il territorio. E' lo stesso combinato disposto dello Scia 1 e della legge generale sul procedimento (art. 29, comma 2-quater, L. n. 241 del 1990) a prevedere la possibilità di deroghe soltanto in melius, cioè attraverso l'introduzione di "livelli ulteriori di tutela". Quindi la Regione potrà intervenire sulla materia del procedimento amministrativo, ma solo variandoli in senso migliorativo in termini di semplicità, snellezza o speditezza. Ad esempio, secondo la Corte, la Regione potrebbe ridurre i termini assegnati all'amministrazione per provvedere o eliminare singoli passaggi procedimentali. Ciò che invece resta precluso al legislatore regionale è di introdurre un modello procedimentale completamente nuovo e incompatibile con quello definito a livello statale. Questo perché una simile iniziativa, quand'anche orientata alla semplificazione, finirebbe per ottenere l'effetto opposto, imponendo ai suoi destinatari l'onere aggiuntivo della non facile individuazione della normativa in concreto applicabile.
Incostituzionalità dell'art. 6, comma 2, L.R. n. 51 del 2017: clausole di salvaguardia
Il termine entro il quale le amministrazioni competenti, verificata la regolarità della comunicazione, effettuano i controlli e fissano eventualmente un termine non inferiore a sessanta giorni per ottemperare alle relative prescrizioni, decorre dal ricevimento della CUR. Sono fatti salvi "i casi in cui in cui sussistano i vincoli ambientali, paesaggistici o culturali di cui all'art. 19, L. n. 241 del 1990 o che non sussistano irregolarità tali da determinare gravi pericoli per la popolazione, con riferimento alla salute pubblica, all'ambiente e alla sicurezza sui luoghi di lavoro".
Questa norma è stata impugnata per contrasto con l'art. 19, L. n. 241 del 1990, sia per l'arbitraria riduzione della clausola di salvaguardia dei vincoli, facendo salvi solo i vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e non tutti quelli indicati dalla norma statale, sia per il contrasto con la procedura di verifica dettata dal comma 3 dell'art. 19, che parla di trenta giorni e non di ulteriori sessanta. Quanto al primo punto, è apparso evidente alla Corte, come la clausola di salvaguardia regionale sia effettivamente più limitata rispetto all'elenco offerto dalla norma statale. Rispetto al secondo punto, anche qui sono state riscontrate notevoli divergenze tra la norma regionale e quella statale, al punto da determinare un allungamento dei tempi procedimentali. Ancora una volta, in forza di una autoqualificazione espressa, viene in aiuto l'art. 29, comma 2-bis, L. n. 241 del 1990, cha ha ricondotto la durata massima dei procedimenti tra i livelli essenziali delle prestazioni, che sappiamo essere di competenza statale. Autoqualificazioni a parte, alla Corte è sembrato del tutto plausibile che le disposizioni statali relative alla durata massima dei procedimenti appartengano alla ratio sottesa alla determinazione di livelli uniformi di tutela. Questi livelli uniformi non possono essere derogati - ha spiegato al Corte - nemmeno quando l'eventuale estensione operi a favore del privato, non solo e non tanto per mantenere il procedimento amministrativo entro il termine massimo ritenuto ragionevole dal legislatore statale, ma anche per tutelare eventuali soggetti terzi che potrebbero avere interesse a che il privato istante adotti le prescrizioni richieste nei tempi fissati. Anche questa norma regionale è pertanto stata dichiarata incostituzionale.
Incostituzionalità dell'art. 6, comma 6, L.R. n. 51 del 2017: regimi amministrativi
La norma rimette alla Giunta regionale il compito di individuare i procedimenti per i quali si applica la CUR. Qui, per il ricorrente, i profili di contrasto sarebbero nei confronti del decreto Scia2 (D.Lgs. n. 222 del 2016), il quale già individua i regimi amministrativi applicabili alle attività economiche, classificandoli in autorizzazione, SCIA, silenzio assenso e comunicazione, compresi i casi in cui occorra allegare asseverazioni e certificazioni. Anche in questo caso il verdetto è stato di illegittimità costituzionale.
Incostituzionalità dell'art. 7, comma 6, lett. a), L.R. n. 51 del 2017: conferenza di servizi
Questa norma è stata sanzionata di incostituzionalità perché non prevede il termine intro il quale i privati devono produrre le integrazioni. In sostanza - ha chiarito al Corte - se il SUAP richiede una documentazione integrativa, la durata del procedimento dipende da un evento incerto nell'an e nel quando, cioè dal ricevimento delle integrazioni. Il legislatore regionale non precisa il termine entro il quale deve essere prodotta la documentazione integrativa. Peraltro, la disposizione non contiene alcun rinvio all'art. 2, comma 7, L. n. 241 del 1990, che prevede la possibilità di sospensione del termine in esame per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni.
La Corte ha utilizzato sempre l'art. 29, L. n. 241 del 1990 come norma interposta, che al comma 2-bis qualifica come attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni le disposizioni concernenti gli obblighi per la pubblica amministrazione di concludere il procedimento entro il termine prefissato, nonché quelle relative alla durata massima dei procedimenti. L'assenza di un termine prestabilito per la conclusione dell'iter si riflette in un'incertezza sui tempi della "prestazione" della P.A. verso il privato.
Questa circostanza ci permette di riflettere su un elemento alquanto importante, relativo alla tempistica con cui le amministrazioni sono solite affrontare il tema delle integrazioni. Nella prassi accade spesso che nel caso siano richieste integrazioni, il procedimento venga sospeso, sia che ci si trovi o meno nell'ambito di una conferenza di servizi, fino a quanto il privato non avrà prodotto le integrazioni richieste. Essendo in tal caso onere del privato produrle, lo si lascia libero di elaborarle il tempo che ritiene necessario. In realtà, la Corte sconfessa questa prassi, lasciando intendere che le tempistiche devono essere rispettate secondo la scansione offerta dalla norma, senza possibilità di dilatazioni e per quanto le stesse siano lasciate sotto la responsabilità del privato, che più di tutti dovrebbe avere interesse a chiudere il procedimento in tempi il più possibile rapidi, ma che spesso lascia invece passare molto tempo prima di integrare le richieste.
Tornando alla norma abruzzese, la Corte ha dichiarato la sua illegittimità costituzionale, ma nella parte in cui non rinvia all'art. 2, comma 7, L. n. 241 del 1990 al fine di individuare il termine relativo alla produzione dei documenti integrativi.
La successiva lettera b) dell'art. 7, comma 6 è stata ritenuta solo in parte illegittima.
La norma statale prevede che la conferenza decisoria si svolga in forma semplificata e in modalità asincrona, disponendo che le comunicazioni avvengano per posta elettronica. Diversamente, il legislatore regionale non ha previsto che in caso di conferenza di servizi la telematica sia la regola, ma soltanto che la modalità può essere telematica. La Corte ha ritenuto non fondata tale questione, in quanto la norma regionale non distingue, come invece fa quella statale, tra conferenza semplificata e conferenza simultanea. Solo nel primo caso ha senso parlare di gestione informatizzata delle comunicazioni.
L'ultimo punto esaminato, riguarda la mancata previsione nella norma locale degli interessi sensibili nel caso del silenzio assenso, che invece a livello nazionale, nell'art. 17-bis, L. n. 241 del 1990, assumono una tutela rinforzata. Infatti, in tal caso, non sono più trenta ma novanta i giorni che occorrono perché si formi il silenzio assenso anche su questo tipo di procedimenti. Non prevedere simile distinzione comporta un vulnus nel delicato equilibrio studiato a livello nazionale per contemperare le esigenze di speditezza dell'iter con quelle di protezione di interessi sensibili.
Alcune delle altre questioni ritenute fondate
E' apparsa fondata la questione di legittimità delle norme regionali che hanno previsto la sospensione del procedimento nel caso sia richiesta una valutazione di tipo ambientale. Non è consentita al legislatore regionale la scissione dell'unitario procedimento autorizzatorio.
Ancora incostituzionale è la norma che prevede la conclusione espressa del procedimento - oltre che con provvedimento di accoglimento e di accoglimento condizionato - con provvedimento di rigetto, che "può essere adottato nei soli casi di motivata impossibilità ad adeguare il progetto presentato per la presenza di vizi o carenze tecniche insanabili". Secondo la Corte, la norma in oggetto esclude la cosiddetta opzione zero (cioè il dissenso assoluto sull'opera) anche con specifico riguardo al caso in cui siano coinvolti beni culturali e paesaggistici, nel quale caso la disposizione impugnata effettivamente non ammette la possibilità di rigettare il progetto a causa del dissenso sulla localizzazione dell'opera.