12/01/2019 - In house e la (piena) autonomia di scelta dei comuni: quali conseguenze per il non profit? – CdS 138/19
In house e la (piena) autonomia di scelta dei comuni: quali conseguenze per il non profit? – CdS 138/19
Il Consiglio di Stato, sez. V, con l’ordinanza del 7 gennaio 2019, n. 138, ha rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione Europea le seguenti due questioni:
-) il modello in house può considerarsi equivalente alle diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche? Oppure, deve considerarsi su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto?
-) può una P.A. acquisire in un organismo pluri partecipato da altre P.A. una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) per acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell'organismo partecipato?
Si tratta di due profili estremamente importanti per le evoluzioni future che potrebbero dispiegarsi per il ricorso al modello in house da parte degli enti locali.
Cerchiamo di comprendere la portata innovativa, in particolare, della prima questione sottoposta al vaglio dei giudici europei.
Occorre ricordare che ai sensi delle Direttive 2014/24/UE e 2014/23/UE gli enti locali possono ricorrere, in forza del principio di “autodeterminazione” delle scelte delle P.A., indifferentemente ai diversi modelli di gestione dei servizi pubblici, segnatamente, per tutti, al modello in house e agli affidamenti ad esito di procedura ad evidenza pubblica.
Per contro, l’ordinamento italiano – in ciò confermato anche da alcune pronunce della Corte costituzionale (cfr. n. 325/2010 e n. 46/2013) – ha da tempo accolto un approccio maggiormente restrittivo nei confronti dell’impiego del modello in house providing: esso costituisce un’eccezione alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara, per il quale gli enti pubblici sono tenuti a fornire una motivazione “rafforzata” circa la scelta di quel modello (art. 192, comma 2, d. lgs. n. 50/2016).
Il Consiglio di Stato, nell’ordinanza de qua, si chiede se l’ordinamento italiano non sia in contrasto con l’ordinamento eurounitario, laddove – appunto – prevede regole più stringenti in capo alle P.A. per scegliere il modello della delegazione interorganica ovvero dell’autoproduzione dei servizi di interesse generale. Interessante, al riguardo, un passaggio dell’ordinanza in parola: “[…]ci si rivolge all’esterno solo quando non si è ben in grado di provvedere da soli: nessuno, ragionevolmente, si rivolge ad altri quando è in grado di provvedere, e meglio, da solo.”
I giudici di Palazzo Spada evidenziano, in particolare, che vengono in considerazione, nella materia oggetto di rinvio, due principi che possono collidere: da un lato, il riconoscimento dell’autonomia decisionale in ordine alle forme di gestione di cui godono gli enti locali. Dall’altro, l’esigenza di confermare i mercati degli appalti pubblici e delle concessioni al dispiegarsi delle logiche concorrenziali.
Per quanto riguarda la seconda questione sottoposta alla decisione dei giudici di Lussemburgo, la Sezione rileva che ai sensi dell’art. 12, par. 3, della Direttiva 2014/24/UE è ammissibile una società in house in cui siano presenti anche capitali privati, purché questi ultimi non siano in grado di esercitare alcuna influenza dominante sulla società. Il Consiglio di Stato, alla luce di questo principio, ritiene che non dovrebbero registrarsi ostacoli al riconoscimento di una società in house, assoggettata al controllo analogo congiunto, in cui, accanto ai soci pubblici affidanti, ci siano anche soci pubblici non affidanti.
A ciò – a giudizio della Sezione – osta l’ordinamento giuridico interno, atteso che l’art. 4, comma 1, d. lgs. n. 175/2016 non consente agli enti pubblici di detenere partecipazioni in società che non risultino strettamente necessari al conseguimento dei propri fini istituzionali. In questo senso, pertanto, il Consiglio di Stato reputa la decisione di detenere una partecipazione, con il conseguente esercizio del controllo analogo congiunto, come cogente ed attuale e non futuribile. Una simile impostazione, tuttavia, contrasta il dispositivo contenuto nell’art. 5, Direttiva 2014/24/UE, che ammette il controllo analogo pluripartecipato nel caso di società non partecipate unicamente dalle amministrazioni controllanti.
Il primo quesito rappresenta indubbiamente un elemento di conforto per quell’interpretazione (anche recentemente avvalorata dai giudici amministrativi: cfr. ex multis, Tar Lombardia, sez. I Brescia, ordinanza n. 269 del 12 luglio 2018) secondo la quale l’in house providing costituisce una delle modalità che gli enti pubblici possono adottare, equiordinato agli altri, e non derogatorio ovvero eccezionale.
Il secondo quesito incide, invece, sul sostrato giuridico-organizzativo delle società in house pluripartecipate: è ammissibile il modello di società in cui coesistano sia soggetti pubblici affidanti i servizi di interesse generale e soggetti pubblici “semplici” detentori di quote/partecipazioni del capitale sociale di quei soggetti pubblici, di cui in futuro potrebbero anche condividere il controllo analogo?
In attesa di conoscere la decisione della Corte europea di giustizia, è possibile sostenere che una risposta affermativa da parte dei giudici di Lussemburgo (il modello in house è equiordinato alle altre forme di intervento) permetterebbe agli enti locali di recuperare in pieno la propria autonomia decisionale e discrezionale.
Anche per il settore non profit potrebbero aprirsi delle linee di sviluppo ad oggi inedite: gli enti locali, una volta “liberati” dalla necessità di motivare in forma rafforzata la loro scelta di aderire a formule diverse dal ricorso al mercato, saranno maggiormente in grado di attivare formule di partnership e cooperazione con gli enti del terzo settore, che non potranno essere “smentiti” dalla necessaria (rectius: obbligatoria, come taluni sostengono) applicazione delle regole del mercato proconcorrenziale.