12/04/2019 - Meno straordinari nella p.a. - Il Fondo non cresce con l'aumento della retribuzione oraria
Dalla sezione autonomie della Corte conti arriva un'interpretazione restrittiva delle norme
Meno straordinari nella p.a.
Il Fondo non cresce con l'aumento della retribuzione oraria
Pagina a cura di Luigi Oliveri
Meno ore di straordinario disponibili per le amministrazioni pubbliche. La Corte dei conti, mentre il legislatore cerca in tutti i modi di ampliare il turnover e le risorse lavorative in una pubblica amministrazione ormai asfittica e invecchiata, trova il sistema per complicare nuovamente la gestione del personale, con l'ennesima interpretazione restrittiva e di dubbia compatibilità col dettato normativo.
La sezione autonomie, col parere 5/Sezaut/2019/Qmig, indica, di fatto, che il fondo che finanzia lo straordinario non può essere incrementato, simmetricamente all'aumento della retribuzione oraria connessa agli incrementi imposti dalla contrattazione collettiva.
La deliberazione, infatti, afferma che «ai fini del rispetto dell'art. 23, comma 2, del dlgs 25 maggio 2017, n. 75, l'ammontare del fondo per il lavoro straordinario non può essere maggiorato della percentuale di aumento derivante dai rinnovi contrattuali allo scopo di rendere omogenee le basi di riferimento temporale applicabili a ciascuna delle componenti del trattamento economico accessorio soggetta al medesimo vincolo di spesa». Il risultato di simile interpretazione è inevitabile: se il costo orario dello straordinario aumenta, ma il fondo connesso non può essere incrementato, le ore disponibili per lo straordinario finiscono per ridursi. Tuttavia, il parere espresso dalla sezione autonomie non può essere condiviso. L'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017 (norma che ha creato moltissimi problemi e che sarebbe opportuno abolire del tutto ed urgentemente) ha sempre e solo inteso limitare l'incremento dei fondi disposto con i contratti decentrati, non con i contratti collettivi nazionali di lavoro. È del tutto ovvio che se il Ccnl incrementano il costo orario della retribuzione, tutti i trattamenti economici connessi a tale trattamento aumentino e che a questi aumenti debba fare fronte il bilancio e non il fondo: si parla, per esempio, del lavoro festivo, notturno, dell'indennità di turno e, anche, dello straordinario. Al di là della logica e dell'interpretazione sistematica, comunque la posizione espressa dalla Sezione Autonomie pare in contrasto insanabile con la previsione dell'articolo 11, comma 1, lettera a), del dl 135/2018, convertito in legge 12/2019, ai sensi del quale la previsione contenuta nell'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017 non opera con riferimento «agli incrementi previsti, successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto n. 75 del 2017, dai contratti collettivi nazionali di lavoro, a valere sulle disponibilità finanziarie di cui all'articolo 48 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165». Tale articolo 48 al comma 1 è chiarissimo nello stabilire che per le amministrazioni dello stato l'onere «derivante dalla contrattazione collettiva nazionale a carico del bilancio dello stato»; nel comma 2 si stabilisce che per regioni, enti locali ed enti del Servizio sanitario «gli oneri derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale sono determinati a carico dei rispettivi bilanci».
Dunque, il tetto ai fondi della contrattazione decentrata riferito al 2016 dalla sfortunata disposizione contenuta nell'articolo 23, comma 2, della legge Madia, ai sensi della legge 12/2019, non può e non deve riguardare nessun incremento finanziato dalle risorse nazionali (cioè, dai bilanci). Questo riguarda anche gli straordinari. Il parere 5/2019 della sezione autonomie, quindi, sul piano della stretta interpretazione deve essere considerato non avente alcun effetto, in quanto contrario a legge. È evidente che l'interpretazione della magistratura contabile, può creare molti dubbi e fastidi operativi, perché poi non è dato sapere se servizi ispettivi e le sezioni giurisdizionali lo possano considerare come condizione per la legittimità dell'operato degli enti. Il rischio è l'apertura di un possibile ennesimo contenzioso con il giudice del lavoro e, comunque, di un'incertezza amministrativa che sarebbe il caso di scongiurare. Un ripensamento della stessa Corte dei conti sarebbe auspicabile. Il legislatore potrebbe e dovrebbe intervenire per mettere l'ultima parola: meglio se si abolisse l'articolo 23, comma 2, portatore solo di complicazioni; oppure, quantomeno, con un'ulteriore precisazione del pur chiaro suo contenuto.