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12/03/2020 - Incompetenza commissione e necessaria correlazione della medesima agli esiti valutativi: l’erroneo giudizio di un TAR

tratto da giurisprudenzappalti.it
Incompetenza commissione e necessaria correlazione della medesima agli esiti valutativi: l’erroneo giudizio di un TAR
Tar Sicilia, Catania, sez. III, 11 marzo 2020, n. 668
Scritto da Elvis Cavalleri 11 Marzo 2020
 
 
Nel caso in cui la ricorrente intenda far valere il vizio di incompetenza della commissione giudicatrice, è onerato di dimostrare come quel lamentato deficit conoscitivo abbia negativamente impattato sulla valutazione della sua offerta?
Con motivazione del tutto incondivisibile, Tar Sicilia, Catania, sez. III, 11 marzo 2020, n. 668, risponde in forma affermativa.
la giurisdizione amministrativa non è una giurisdizione di diritto oggettivo. L’accesso alla stessa non è dato per tutelare la astratta legalità dell’azione amministrativa, od, in modo parimente non correlato a specifiche posizioni giuridiche soggettive, i principi di efficacia e buon andamento della P.A.: ma al contrario è dato soltanto per la tutela di specifiche posizioni giuridiche soggettive di interesse legittimo o, nei casi di giurisdizione esclusiva, (anche) di diritto soggettivo (cfr. art. 103 e 113 Cost.). Ne consegue che le censure concretamente proposte dalla società ricorrente, nella deliberata scelta di lasciare totalmente in ombra la incidenza della (postulata) carenza di competenza specifica dei nominati Commissari sulla valutazione della propria offerta, non consentono di individuare in capo alla stessa alcuna posizione giuridica soggettiva astrattamente meritevole di tutela; con la conseguenza che il ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile in relazione ai primi suoi due motivi per carenza di una legittimazione processuale attiva in capo al soggetto che ne è stato autore – e che, in base al contenuto delle relative doglianze, per non altri si palesa che come un quisque de populo. E ciò malgrado esistano precedenti, ed autorevoli, di segno opposto – così come la sentenza, menzionata negli scritti difensivi della società Pellegrini, del Consiglio di Stato, Sez. V, 5 novembre 2019, n. 7557, alla cui stregua “l’impugnazione della nomina della commissione, incidendo di per sé sugli atti da questa compiuti, non abbisogna di (né ammette) prova di resistenza circa la collocazione in graduatoria che la ricorrente avrebbe ricevuto in mancanza del vizio fatto valere; dall’altro l’illegittimità della nomina della commissione determina la caducazione della gara e in particolare delle valutazioni e degli altri atti posti in essere dai commissari illegittimamente nominati, perciò imponendo la riedizione di tali operazioni”-: cui il Collegio non ritiene però di potersi uniformare, oltre che per la necessità di accedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa vigente, onde evitare altrimenti di incorrere in una indebita trasmutazione dello stesso DNA del giudizio amministrativo“.
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Non si capisce davvero la conferenza nel caso specifico dei plurimi richiami ad una giurisdizione di tipo oggettivo, e come la ricorrente possa far parte del quisque de populo.
Allorquando si lamenti che una commissione non è composta da esperti nello specifico settore oggetto del contratto, come espressamente previsto dall’art. 77 del Codice, rileva non un mero ripristino della legalità, bensì l’interesse legittimo della ricorrente al rinnovamento della procedura di gara, ed a che la sua offerta sia esaminata da individui muniti dell’esperienza minima richiesta dalla Legge. Solo in presenza di detto presupposto, infatti, i giudizi espressi sono connotati dalla necessaria scientificità, e quindi, per effetto, dell’attendibilità.
A fortiori considerando che, come spesso accade, il giudizio dei commissari è espresso con dei meri parametri numerici.
Correlare detti numeri, cui lo si ribadisce non è sottesa una precisa cognizione scientifica, all’erroneità delle valutazione espresse dai commissari incompetenti, costituisce una vera e propria adynaton, ovvero una probatio diabolica impossibile nell’oggetto.
Dunque, “l’interpretazione costituzionalmente orientata suggerita dal Collegio, volta ad evitare di incorrere in una indebita trasmutazione dello stesso DNA del giudizio amministrativo“, si traduce in realtà in un puro diniego di giustizia, con violazione proprio di quell’art. 24 della Costituzione che paradossalmente intendeva tutelare.
Con tutto il rispetto per il Collegio catanese, noi conveniamo proprio con quell’orientamento del Consiglio di Stato pur richiamato nella pronuncia – al quale invero sussiegosamente ha ritenuto di non potersi uniformare  – secondo cui “l’impugnazione della nomina della commissione, incidendo di per sé sugli atti da questa compiuti, non abbisogna di (né ammette) prova di resistenza circa la collocazione in graduatoria che la ricorrente avrebbe ricevuto in mancanza del vizio fatto valere” (Consiglio di Stato, Sez. V, 5 novembre 2019, n. 7557).
Per tali ragioni devono “ritenersi ammissibili le censure volte a contestare il procedimento di nomina della Commissione giudicatrice anche quando non sia stato dimostrato che la procedura, ove governata da una Commissione in differente composizione, avrebbe avuto un esito diverso, essendo pacifico che la prova di resistenza non debba essere offerta da colui che deduca vizi diretti ad ottenere l’annullamento e la successiva rinnovazione dell’intera procedura” (Consiglio di Stato, III, 3 luglio 2018, n. 4054; sez. V, 5 novembre 2019, n. 7557).
Un vero e proprio granchio per il quale speriamo vivamente in un appello.
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